sabato 26 dicembre 2015

Nuova Sinistra 2016

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L’Europa del 2015 consegna alla scena del mondo un inedito scontro di tendenze, in cui all’egemonia delle forze dominanti del capitale finanziario e del comando neoliberista, che trova espressione nelle politiche della Troika, nel primato tedesco e nei programmi di austerity, si contrappone in maniera sempre più significativa la ribellione popolare, che non si esprime solo, per fortuna, nell’avanzata della “destra anti-sistema”, nelle sue declinazioni nazionalitarie e nelle sue pulsioni xenofobe, ma anche, coraggiosamente, nel consolidamento di una sinistra anti-austerity, espressione di inediti blocchi sociali e popolari, la stessa che ha confermato Syriza al governo della Grecia, che ha espresso una coalizione di sinistra al governo del Portogallo, e che oggi è in grado di raccogliere un consenso superiore al 20% in Spagna, quando Podemos si afferma come terza forza del Paese, rompendo il bipolarismo tra conservatori e socialdemocratici e affermando una terza opzione, al tempo stesso, innovativa e progressista. Sono qui alcune delle premesse fondamentali del manifesto politico per una “sinistra di tutte e di tutti” che, lanciando il suo appuntamento costituente nella assemblea popolare in programma il prossimo 19-21 Febbraio, a Roma, si innesta a crocevia di due istanze convergenti, la rottura della autoreferenzialità dei gruppi dirigenti della frastagliata e frammentata “sinistra a sinistra” del Partito Democratico, e la sintonia con quell’inedito fronte europeo e mediterraneo che, dopo le esperienze di Grecia, Portogallo e Spagna, attende ora l’Italia.
 
Significativamente questo passaggio matura, ben oltre la rottura del tavolo di confronto tra le forze della “sinistra a sinistra” dell’ 11 Dicembre, all’indomani dell’approvazione alla Camera della Legge di Stabilità per il 2016, la legge fondamentale di bilancio, che non solo ha visto una nuova messa in prova del Partito della Nazione, come dimostrano le misure fiscali in essa contenute (abolizione universale dell’IMU-TASI sulla prima casa, riduzione dell’IRAP a carico delle imprese e abolizione, perfino, della tassa sulle imbarcazioni di lusso) e la riduzione del welfare ulteriormente accentuata (tagli complessivi alla sanità per oltre sei miliardi, nuovo blocco del turn-over, stanziamento ridicolo, poco più di duecento milioni, per i contratti dei lavoratori pubblici), ma anche un ulteriore consolidamento a destra del Movimento Cinque Stelle, testimoniato dalle proposte da quest’ultimo sostenute (spesa di dieci milioni per giubbotti anti-proiettile alla polizia, appoggio all’emendamento, proposto dall’estrema destra di Fratelli d’Italia, per coprire assegni di accompagnamento e pensioni di invalidità con soldi sottratti alle politiche di accoglienza per i profughi in Sicilia, astensione sull’emendamento, proposto dalla Sinistra Italiana, per reintrodurre la tassa sulle barche di lusso). Tutto concorre a porre lo scenario politico italiano in sostanziale continuità con quello europeo, laddove le forze della sinistra sono impegnate non solo contro l’austerity variamente interpretata dalle formazioni conservatrici e dalle socialdemocrazie tradizionali, ma anche contro le nuove destre populiste, quando non neo-nazionaliste, come il Front National in Francia e lo UKIP in Gran Bretagna.
 
Sbaglieremmo, tuttavia, a collocare questo “bisogno di sinistra” su un terreno solo difensivo o, peggio ancora, politicistico. A ben vedere, non ha molto senso, se non la tutela di un esistente sempre più difficile e precario, la proposta di una sinistra utile solo a fare argine alla “marea a destra” ed a particolarismi e corporativismi vecchi e nuovi ovvero a riempire, esclusivamente, un “vuoto” nello spazio ampio che il Partito della Nazione lascia sgombro alla sua sinistra. Si tratta, in altri termini, non di definire una collocazione, bensì di ricostruire un immaginario, a sua volta basato non su formule e schemi precostituiti, ma sulle istanze e i bisogni, drammatici e mutevoli insieme, di quel nuovo blocco sociale costituito da produttori di senso e di valore alle prese con lavori instabili o indefinibili, prospettive incerte e chimeriche, tutele sempre più erose dal neoliberismo. Ecco perché appare, finalmente, convincente la proposta della piattaforma per una sinistra “di tutte e di tutti”: perché, appunto, assume in premessa «le condizioni di vita di milioni di persone, colpite dalla crisi e dalle politiche neoliberiste e di austerità», si pone «in sintonia con le sinistre europee che indicano un’alternativa di lotta e speranza», raccoglie, finalmente, la sfida del “cosa” e “come” produrre, del modello di sviluppo e dell’organizzazione della formazione economico-sociale, per «costruire un nuovo welfare ed eliminare la precarietà, restituendo dignità al mondo del lavoro, … e cambiare il modo in cui si produce e il modo in cui si consuma». Un orizzonte progressista per i tempi nuovi, non banalmente solidaristico o neo-socialdemocratico. È giunta ora, più che mai, di guardare avanti.

per la Sinistra di Tutte e di Tutti

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Ci siamo!
Incontriamoci a Roma dal 19 al 21 febbraio.
E' il tempo di cambiare, di mettersi in gioco senza paura.
La convocazione non ha firme, né proprietari. E' di tutti quelli che vogliono cambiare tutto e che non si arrendono. Come la Sinistra che vogliamo.
Usiamolo liberamente, copiamolo, condividiamolo, diffondiamolo.
 
Incontriamoci
Incontriamoci il 19, 20 e 21 febbraio a Roma per ridare senso alla parola “politica” come strumento utile a cambiare concretamente le nostre vite. Incontriamoci per organizzarci e costruire un nuovo soggetto politico, uno spazio aperto, democratico, autonomo.
Non è un annuncio. È una proposta.
Non sarà un evento cui assistere da spettatori.
Non ti chiediamo di venire a riempire la sala, battere le mani e chiacchierare in un corridoio come accade di solito in queste assemblee.
Mettiamoci in cammino per condividere un processo e costruire insieme un nuovo progetto politico innovativo e all'altezza della sfida. Un progetto alternativo alla politica d’oggi, svuotata e auto-referenziale, che ritrovi tanto il legame con la propria storia, quanto la capacità di scrivere il futuro.
 
L’obiettivo
È ora di cambiare questo paese e le condizioni di vita di milioni di persone, colpite dalla crisi e dalle politiche neoliberiste e di austerità, svuotate della capacità di immaginare il proprio futuro. Vogliamo costruire un’alternativa di società, pensata da donne e uomini, fatta di pace e giustizia sociale e ambientale, unici veri antidoti per fermare le destre e l’antipolitica, il terrore di Daesh, i cambiamenti climatici. 
Serve una netta discontinuità con il recente passato di sconfitte e testimonianza, per metterci in sintonia con le sinistre europee che indicano un’alternativa di lotta e speranza. Dobbiamo metterci in connessione con il nostro popolo, con i suoi desideri e le sue paure, con le centinaia di esperienze territoriali e innovative che stanno già cambiando l’Italia, spesso lontani dalla politica.
Bisognerà cambiare molto: redistribuire le ricchezze e abbattere le diseguaglianze sociali e di genere, costruire un nuovo welfare e eliminare la precarietà, restituendo dignità al mondo del lavoro. È ora di cambiare il modo in cui si produce e quello in cui si consuma, il modo in cui si fa scuola e formazione, le politiche per accogliere. 
Intendiamo difendere la Costituzione e i suoi valori, per difendere la democrazia. Il governo Renzi e il PD vanno in una direzione diametralmente opposta e ci raccontano che non c’è un’alternativa. Per noi invece non solo un’alternativa è possibile ma è necessaria ed è basata sui diritti, sull’uguaglianza, sui beni comuni.
Dobbiamo organizzarci. Organizzare innanzitutto la parte che più ha subito gli effetti della crisi, chi ha voglia e bisogno di riscatto, di cambiamento, chi non crede più alla politica; lottando tanto nelle istituzioni quanto nella società. Una forza politica, non un cartello elettorale, che si candidi a governare il paese per cambiarlo e che lo faccia con un profilo credibile, in competizione con tutti gli altri poli esistenti.
 
Partecipa
Probabilmente ti starai facendo alcune domande: “come funzionerà il nuovo soggetto?”, “come si chiamerà?”, “quale sarà il suo programma?”, “è possibile innovare la forma partito?”, “chi sarà il suo o la sua leader?”, “c’è davvero bisogno di un leader? E, se sì, come verrà scelto?” A queste e tante altre domande la risposta è semplice e per questo rivoluzionaria: lo decideremo insieme.
Partecipiamo a questo percorso come persone, “una testa un voto”, riconoscendogli piena sovranità. Abbiamo bisogno di una sinistra di tutti e di tutte: non un percorso pattizio, ma una nuova forza politica che nasca dalla partecipazione diretta di migliaia di persone.
Cambiamo la politica, innoviamo le forme della democrazia, diamo la parola ai cittadini, attraverso una piattaforma digitale per il confronto, la codecisione, la cooperazione e l’azione. Ma non basta: serve restituire protagonismo alla vita dei territori attraverso una campagna di ascolto con assemblee per connettere percorsi e conflitti, scrivere collettivamente il nostro programma, la nostra idea di società, la strada per il cambiamento.
 
Invitiamo tutti e tutte a partecipare, a rimescolare ogni appartenenza, a mettersi a disposizione, fino allo scioglimento delle forze organizzate, sapendo che solo un cammino realmente inclusivo può essere la strada per coinvolgere i tanti che purtroppo sono scettici e disillusi. Sarà importante l’impegno dei rappresentanti istituzionali a tutti i livelli a mettersi al servizio del processo, agendo da terminale sociale.
 
Non vogliamo raccogliere solo le istanze dei singoli, ma anche quelle di tutte le esperienze collettive, le reti sociali, le forze sindacali, l’associazionismo diffuso, i movimenti, che in questi anni hanno elaborato e realizzato proposte concrete ed efficaci.
 
Per questo ci mettiamo in cammino. Non siamo i proprietari di questo percorso, e questo documento non ne vuole determinare gli esiti: proponiamo un obiettivo (costruire un nuovo soggetto di alternativa), un metodo (un cammino fatto di assemblee territoriali e di una piattaforma digitale, adesione individuale, piena sovranità), una data di partenza. Da quella data in poi, sarà chi deciderà di partecipare a indicare la rotta. 
Cominciamo un viaggio che sappia cambiare noi stessi e il mondo che ci circonda.
Mettiamoci in cammino.

La Piattaforma dal Sito di ACT

martedì 8 dicembre 2015

La Rivoluzione deve continuare

citystrike.org/2015/12/07/elezioni-venezuela-la-vostra-vittoria-avra-vita-breve

Avevamo seguito con trepidazione la battaglia elettorale in Argentina delle scorse settimane, e guardato con preoccupazione alla sconfitta del candidato presidente del peronismo di sinistra, che avrebbe dovuto rappresentare la continuità con l'esperienza di democrazia solidale incarnata da Christina Kirchner, e alla vittoria, invece, del candidato della destra, Mauricio Macri, tipico esponente della destra neo-liberale, che già promette il ritorno del tempo del neoliberismo, la riduzione dei programmi di investimento sociale e una nuova apertura al capitale finanziario, alle privatizzazioni e all'appeasement verso gli eredi della dittatura.
 
Le contemporanee traversie politiche e istituzionali in Brasile, con una situazione sociale sempre più tesa e la recente apertura della procedura di impeachment contro la presidente brasiliana, del Partito dei Lavoratori, Dilma Rousseff, che aveva raccolto l'eredità politica di Lula e della stagione notevole della trasformazione progressista del Brasile, stavano lì, infatti, ad indicare un deterioramento complessivo del quadro politico in America Latina: non tanto il timore di riuscire a portare drammaticamente indietro le “lancette della storia”, quanto, piuttosto, il segno del ritorno del neo-liberalismo e della destra politica ed economica al potere.
 
Alla vigilia delle elezioni parlamentari del Venezuela, che si sono tenute la scorsa domenica, 6 dicembre, sembrava piuttosto difficile prevedere l'esito: da una parte, i soliti sondaggi della stampa borghese e dei grandi potentati dell'informazione privata, che annunciavano una maggioranza sicura, sebbene non dilagante, alle opposizioni anti-chaviste e anti-bolivariane; dall'altra, i riscontri di amici e compagni, di osservatori e testimoni, “sul campo”, che non solo confermavano la tenuta del PSUV e del fronte bolivariano (il GPP, il Gran Polo Patriotico), ma annunciavano una mobilitazione ad ampi ranghi. Invece è andata peggio delle peggiori previsioni: con una partecipazione superiore al 74%, la MUD vince e con un margine molto ampio.
 
A differenza del Gran Polo Patriotico, che è imperniato intorno a una precisa leadership, quella chavista rappresentata dal PSUV (il Partito Socialista Unificato del Venezuela), e un chiaro programma, scolpito a chiare lettere nella realizzazione del “Socialismo del XXI secolo”, la MUD, la Mesa de Unidad Democratica, non è una formazione dal contorno ben distinto, non ha un suo centro politico né una leadership riconosciuta. È piuttosto un composito ed eterogeneo cartello elettorale, che comprende partiti che vanno dalla destra nazionalista alla socialdemocrazia tradizionale, formazioni della destra violenta e golpista e residuati della IV Repubblica, si coagula intorno a diverse personalità, alcune “istituzionali” come Henrique Capriles, altre “radicali” e già note per le proprie iniziative eversive (Leopoldo Lopez e le tristemente famose “guarimbas”) e un programma minimo: ostilità al socialismo e al chavismo e ritorno a neoliberismo e capitali privati.
 
La vittoria non di meno è netta, e, se si eccettua il referendum costituzionale del 2007, segna anche, dal 1998 ad oggi, la prima e unica sconfitta del movimento bolivariano e delle forze chaviste. La MUD sfiora il 60%, conquista 99 seggi su 167 del parlamento venezuelano; supera ampiamente la maggioranza semplice (84 seggi) e attende l'assegnazione dei restanti 22 seggi, ancora (7 dicembre) non ancora assegnati. Significa due cose: la prima, l'innegabile e inedita sconfitta del PSUV (46 seggi tra quelli già assegnati); la seconda, il pericoloso avvicinarsi della destra a quei due terzi dei seggi, che le assicurerebbero la possibilità, appunto con almeno 112 seggi, di superare il veto presidenziale alle proprie leggi (e quindi minacciare la stessa prosecuzione del socialismo bolivariano) e di convocare un referendum revocatorio, per la “salida” la cacciata dell'odiato Nicolas Maduro, il presidente venezuelano, non con la violenza, ma in forza di legge.
 
Dinanzi al socialismo venezuelano, si prospetta una sfida impegnativa: è vero, come ha ricordato Maduro, che questo passaggio rappresenta, in ogni caso, un successo della democrazia, peraltro la stessa democrazia, appunto, partecipativa, protagonistica e popolare che il socialismo bolivariano ha, per la prima volta, inaugurato nel Paese; è meno vero, come altri commentatori hanno azzardato, che è frutto esclusivamente della “guerra economica” delle oligarchie e dell'imperialismo e della “propaganda ostile” dei grandi media privati. Stiamo parlando, qui, di un significativo spostamento del consenso, non solo da parte delle oligarchie e delle burocrazie, più o meno corrotte e parassitarie, ma anche da parte di vasti segmenti popolari, proletari e, soprattutto, sottoproletari, che pagano il prezzo dell'accaparramento e del sabotaggio, della “scarsità provocata” di generi di prima necessità e di una forte tensione sociale, che aumenta precarietà e sfiducia.
 
In Venezuela, i grandi media sono ancora privati, la diversificazione produttiva è ancora debole (il Paese dipende fortemente dalle esportazioni petrolifere) e le principali catene della distribuzione sono in buona parte in mani private. La stessa destra, responsabile del sabotaggio e della guerra economica, è stata tuttavia premiata dal consenso elettorale, in una dimensione che non è interamente o esclusivamente ascrivibile ai sobillatori esterni e al controllo dell'informazione. Il fronte bolivariano non è riuscito nell'opera di convincimento e di mobilitazione. Ma è con il socialismo bolivariano che il Venezuela è tornato “patria” e i venezuelani hanno riguadagnato la propria “dignità”. Non si possono portare indietro le lancette della storia. Sono lo sviluppo e l'approfondimento del socialismo del XXI secolo la strada, oggi più che mai, da seguire. 

lunedì 30 novembre 2015

La lezione del 13 Novembre

CC BY-SA HonestReporting flickr.com/photos/honestreporting/15908611924

Riprendo, per tracciare qualche linea di riflessione sul futuro che ci aspetta dopo il 13 Novembre di Parigi, le parole dell’appello che, appena qualche giorno fa, Alfonso Gianni lanciava dal suo profilo facebook: «pacifisti di tutto il mondo, mobilitiamoci!». È il calco di un motto di ben altro spessore e portata, come tutti sanno; non di meno, è anche il tentativo di rappresentare una sollecitazione pressante e accorata, che, da democratici, progressisti, marxisti, pacifisti o nonviolenti che siamo, non possiamo permetterci di fare cadere nel vuoto, se davvero intendiamo contrastare la minaccia di una guerra e, con essa, il precipizio di una escalation di vasta portata che rischia di travolgere l’intero Mediterraneo e Vicino Oriente, e se, allo stesso tempo, presumiamo di potere offrire qualche idea, qualche proposta, qualche orientamento, che non vadano nel senso, banale e mortifero, insensato e inefficace, della guerra, ma piuttosto nella direzione, che sembra molto più pregnante e assai più promettente, della estinzione del terrorismo e del superamento della violenza.

Dopo quel vero e proprio atto di “guerra nella guerra”, che è stato l’abbattimento del caccia russo da parte della aviazione turca, è ormai evidente a tutti, ed occorre segnalarlo e ribadirlo, che la linea rossa, di cui si è tanto discusso, tra tavoli diplomatici e confronti accademici, è stata superata: forze della NATO e forze russe, che perseguono obiettivi e strategie diverse non solo sul fronte siriano e che stanno da tempo giocando un risiko delicatissimo in diversi punti caldi del pianeta, si sono scontrate, per la prima volta, direttamente. Da questo momento, dunque, numerosi scenari si aprono e diventano possibili: forse ancora non del tutto probabili, ad ogni apparente evidenza non imminenti, ma senza dubbio possibili. La “terza guerra mondiale” a pezzi, già in corso da tempo, peraltro, almeno a partire dallo scoppio della guerra per procura, a molti riverberi internazionali, sul suolo e nei cieli della Siria (2011), e già entrata nel cuore stesso dell’Europa, con il golpe di Majdan, l’avvento al potere delle formazioni neo-naziste a Kiev e la guerra del Donbass (2014), rischia adesso di precipitare e condensare in una vera e propria escalation, cui la tragedia degli esecrabili attentati terroristici del 13 Novembre a Parigi, rischia di fare da clamoroso detonatore e propellente.

Dopo il 13 Novembre, infatti, la guerra è, ancora più di prima, una clamorosa stortura: ha così poco senso pensare di colpire il terrorismo – che non ha territori e confini consolidati, nella sua miriade di nuclei e di cellule diffuse, sparse potenzialmente ovunque, e i suoi seguaci, quelli effettivi, che sono già nelle segnalazioni dell’intelligence, e quelli potenziali, che in quelle segnalazioni ci dovrebbero finire – sganciando bombe a destra e manca, da far dubitare della sincerità dei proclami e far sorgere il dubbio che altri siano gli interessi retro-stanti e le finalità non-dichiarate. Per questo (non solo, ma anche) è necessaria un’alternativa. Nell’appello dal quale siamo partiti, vengono, in estrema sintesi, richiamate alcune imprescindibili “guide per l’azione”: «l’ONU deve intervenire per spezzare la spirale terrorismo-guerra. Così, l’Unione Europea, se finalmente decidesse di giocare un ruolo per la pace. I movimenti pacifisti di tutto il mondo sono chiamati a mobilitarsi». Si tratta di principi generali che vanno declinati e l’impegno cui sono chiamate oggi le forze, in generale, contro la guerra e per la pace, consiste proprio in questo: abbinare alla mobilitazione civica, alla sensibilizzazione dell’intero spettro dell’opinione pubblica, alla pressione sulle istituzioni per abbandonare la pulsione militare e militarista ed abbracciare piuttosto una soluzione diplomatica e politica, anche una capacità di riflessione e di analisi, di orientamento e di proposta.

Continuano ad esistere, purtroppo, tentazioni eurocentriche che non aiutano il confronto e il dialogo e, dunque, non concorrono positivamente a offrire riflessioni e proposte: sono quelle, ad esempio, di chi antepone la destituzione di un governo legittimo, come quello di Assad in Siria, alla riapertura dei canali della diplomazia con tutti gli attori regionali, a partire dalla Siria stessa, nel cui territorio, tra l’altro, la popolazione civile, l’esercito regolare, le formazioni curde a Nord, stanno pagando un pesante tributo di sangue, nella lotta quotidiana contro il terrorismo reazionario (non chiamiamolo islamico, per piacere). Qui l’eurocentrismo di certi giudizi, che pure va nominato, sembra evidente: chi ha diritto di decidere del proprio Paese, in questo caso la Siria: noi “occidentali” o i siriani? O quelle di chi continua a ritenere che la “comunità internazionale” possa ridursi alla “comunità occidentale”, magari “euro-atlantica”, più eventuali propaggini, senza accorgersi che la NATO, di cui la Turchia è parte integrante e alle cui azioni di guerra gli Stati Uniti, non più tardi di qualche giorno fa, hanno continuato a manifestare comprensione, è parte del problema e non della soluzione.

Non c’è prospettiva da offrire che non parta dal dialogo, che consenta di esplorare le vie del superamento della violenza e della trasformazione del conflitto, della definizione di nuovi spazi di convivenza e, in definitiva, della pace: dal confronto con i popoli e le culture della “sponda Sud”, dall’ascolto di proposte e suggerimenti che non imprigionino questa parte del mondo nella gabbia in cui, volontariamente o fatalmente, si è rinchiusa. Questo terreno è un cimento, al tempo stesso, per i movimenti sociali e per le forze politiche, che, nell’analisi dello scenario e nelle proposte da formulare, possono condividere un terreno unitario e strutturare un posizionamento, senza incertezza, contro la guerra (a partire dalla guerra di aggressione) e per la pace (essenzialmente come pace positiva, “pace con giustizia”). Il panorama sembra piuttosto desolante. Le destre, nelle loro varie articolazioni, almeno in Italia, non hanno nulla di positivo da offrire: da Forza Italia, che declina la sua proposta tutta in termini di militarizzazione e rinnovato impegno nelle missioni di guerra che già coinvolgono il nostro Paese, al Movimento 5 Stelle, che, tra il tutto e il contrario di tutto che, di volta in volta, avanza, ha già chiarito che «non sta scritto da nessuna parte che popolazioni diverse debbano vivere sotto la stessa bandiera» e ha pure ribadito che «la classe politica ce l’ha con le forze di polizia, molti carabinieri non sono in grado di colpire un bersaglio in movimento» e servirebbe maggiore controllo «su quei centri che assegnano lo status di rifugiato».

L’eco delle proposte e delle riflessioni della parte più matura del movimento per la pace e contro la guerra sembra invece risuonare in diversi passaggi della mozione presentata dalla “Sinistra Italiana” alla Camera il 24 Novembre, ove si delinea, per la prima volta, un quadro complessivo e una griglia coerente di misure a più livelli, per prevenire la guerra e contrastare il terrorismo senza cedere alle pulsioni militari e securitarie. Si tratta di dodici punti: no alla guerra e ad ogni avventura militare, nella convinzione, vero punto di partenza, che questa spirale guerra-terrorismo va spezzata, che non si può estinguere la violenza e il terrorismo con altra violenza (quella militare) e altro terrore (quello delle bombe); una conferenza regionale di pace con tutti gli attori, direttamente e indirettamente, coinvolti, perché solo un processo all’interno del quale tutti possano riconoscersi potrà alla fine essere riconosciuto da tutti; riconoscimento dello Stato di Palestina, altro, vero, punto di partenza, troppo spesso, nelle ultime settimane, colpevolmente dimenticato; dialogo in Siria, senza la precondizione della destituzione di Assad e in linea con i fondamentali nove punti dell’Intesa di Vienna; blocco di ogni traffico, vendita di armi e finanziamenti a Daesh e i suoi sponsor; diplomazia e coordinamento di intelligence (che non vuol dire schedatura di tutti i cittadini europei); misure per il dialogo inter-culturale e inter-religioso per prevenire la marginalizzazione e la radicalizzazione.

Come si vede, il punto non è reagire e contrattaccare, ma prevenire ed estinguere. Prima di ogni altra cosa, minando alle fondamenta le basi materiali su cui Daesh (che non è fenomeno religioso, ma terrorismo politico, oltre che militare, e dunque esercita un potere e controlla comunità e territori, tra Iraq e Siria) si fonda: un volume di affari stimato in circa 50 milioni di dollari. Come ha ben spiegato Loretta Napoleoni, Daesh ha il controllo di questi territori e, quindi, delle risorse che ospitano, che vuol dire soprattutto petrolio, che poi contrabbanda; ha sostenitori internazionali sia attraverso finanziamenti diretti sia attraverso mercato nero; e i fondi così accumulati vengono investiti non solo in addestramenti e armamenti, ma anche in controllo del territorio e servizi alle comunità poste direttamente sotto il proprio “potere”. Come conclude la stessa Napoleoni: «una vera e propria economia di guerra: un meccanismo che noi europei col tempo abbiamo dimenticato».

Dunque, ha ragione Alfonso Gianni: «mobilitiamoci!». E soprattutto proviamo a farlo in modo capillare ed efficace, perché la lotta contro il terrorismo e la guerra è anche lotta per la democrazia.



Link utili:



L’appello alla mobilitazione:

http://www.sinistralavoro.it/pacifisti-di-tutto-il-mondo-mobilitiamoci



Il documento di Forza Italia:

http://www.gruppopdl-berlusconipresidente.it/?p=35617



La posizione dei Cinque Stelle:

http://www.beppegrillo.it/2014/08/isis_che_fare.html


http://www.corriere.it/politica/15_novembre_19/m5s-battista-ospite-corrierelive-fiumicino-termini-meno-sicuri-0a7c3c1c-8ec4-11e5-aea5-af74b18a84ea.shtml



La mozione di Sinistra Italiana:

http://www.sinistraecologialiberta.it/wp-content/uploads/2015/11/Mozione-Daesh.pdf



L’Intesa di Vienna sulla Siria:

http://www.avvenire.it/Mondo/Pagine/siria-vertice-per-cessate-fuoco.aspx


domenica 15 novembre 2015

Un nuovo spazio di convivenza

Spiridon Ion Cepleanu [CC 4.0] Wikimedia Commons
La spirale guerra-terrorismo, da tempo preconizzata e stigmatizzata dalle forze più avvertite del panorama civile ed intellettuale italiano ed europeo, è entrata prepotentemente nel cuore dell'Europa. E' una spirale che miete morte e distruzione, diffonde allarme e panico nelle nostre strade e nelle nostre città, alimenta a sua volta, come in un perverso corto-circuito, il circolo vizioso dell'isteria xenofoba ed anti-islamica e della reazione poliziesca e sicuritaria. Ciò che va contrastato sono, al tempo stesso, il dilagare del terrorismo, del fanatismo e dell'oscurantismo e la minaccia della regressione della democrazia, dell'inibizione della libertà e della restrizione della convivenza.
 
Il primo pensiero va, naturalmente, alle vittime e a quanti sono stati colpiti nelle stragi di Parigi: 129 morti, 352 feriti, di cui un centinaio, nel momento in cui scriviamo, versano in gravissime condizioni; tra le vittime, 89 solo nella storica sala concerto del “Bataclan”, dove le vittime sono state letteralmente sequestrate, colpite e decimate, una dopo l'altra; mentre, quasi contemporaneamente, altri attentati e nuove morti si consumavano, prima, allo “Stadio di Francia” e alla “Belle Équipe”, e, dopo, al “Comptoir Voltaire” e ad un “Mc Donald's”. Tre commando terroristici, armati e coordinati al punto tale che qualcuno ha riferito dessero l'impressione di essere «commando delle forze speciali», hanno agito in maniera esecrabile e pianificata, colpendo luoghi di socializzazione, non di meno simbolici, per la Francia e per l'Europa.
 
Non è la prima volta che il terrorismo mostra, ferocemente, la propria geometrica capacità di colpire, miscelando brutale violenza ed accurata pianificazione di tattiche militari ed obiettivi politici. Dopo le Torri Gemelle, gli attentati di Londra e Madrid, il massacro di Charlie Hebdo e la strage del Bardo, le bombe contro la più recente manifestazione democratica e pacifista di Ankara, il terrorismo si afferma sempre più come altra faccia della guerra ed apoteosi della violenza, in una spirale che, non casualmente, dopo la strage di Charlie Hebdo e contro il Bataclan che ancora portava in bella vista il suo «Je suis Charlie Hebdo», si scaglia ancora una volta contro la Francia: la Francia della laïcité e delle banlieue in fiamme, la Francia del “multiculturalismo fallito” e delle aggressioni ai Paesi Arabi e del Medio Oriente, Mali, Libia, Siria, in primo luogo.
 
Non solo è necessario reagire al dolore, alla disperazione ed al trauma. E' doveroso rispondere affinché, come tante volte siamo stati costretti a ripetere, mai più luoghi della memoria diventino ancora memoriali di morte e una volta per sempre la spirale della guerra e del terrorismo sia interrotta e spezzata dalla convivenza e dalla reciprocità.
 
Affermare il diritto e la giustizia contro le dinamiche della sopraffazione e la logica del predominio. Realizzare mutualismo e cooperazione che non siano più neo-coloniali ma effettivamente paritari. Concepire la risposta politica e la risposta militare non come reciprocamente intercambiabili, ma come mutuamente escludenti, nella ricerca di soluzioni alle controversie internazionali, e schierarsi senza esitazioni con il dialogo e la politica, contro le armi e la violenza. Inibire il traffico delle armi e il contrabbando che alimenta i signori della violenza e della barbarie.
 
Porsi a fianco delle vittime della guerra e della violenza e rispettare la libertà dei popoli e il diritto alla autodeterminazione, le memorie sociali e culturali che popoli e comunità esprimono in ogni tempo e in ogni luogo. Corpi di interposizione e Corpi di pace, civili, disarmati, nonviolenti, ritiro dagli scenari di guerra e ripristino di condizioni di dialogo, di interazione e di amicizia, verso Sud e verso Est. Sono, troppo spesso, le nostre guerre, i nostri colonialismi e i nostri stereotipi, ad alimentare, da una sponda all'altra del Mediterraneo, miseria, solitudine, rabbia.
 
Un'occasione per confrontarsi su nuove idee di relazione e nuovi spazi di convivenza per la pace si terrà, già il prossimo lunedì 16 novembre, presso la Chiesa del Purgatorio ad Arco, a Napoli, nella conferenza per la Giornata della Tolleranza: www.facebook.com/events/960045054069615 

martedì 3 novembre 2015

Amici dei popoli del mondo, ma sul serio

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Tra le realtà di movimento più vicine all'impegno internazionalista e più attente nella lettura delle questioni internazionali, è ben nota la dinamica, sovente inquinata da presenze sovraniste, nazionalitarie e rosso-brune, della solidarietà alla Siria e, in particolare, l'articolazione del movimento di solidarietà internazionalista, e, al suo interno, del movimento per la pace e contro la guerra. 

Al suo interno, convivono ben più delle due posizioni schematizzate nella polarizzazione “classica” tra il sostegno acritico e ripetitivo alle forze governative e l'appoggio, altrettanto acritico e ripetitivo, ai c.d. "rivoluzionari", quest'ultimo, talvolta, anche da parte di soggetti associativi apparentemente irreprensibili e insospettabili, spinto fino al punto da richiedere “severe sanzioni economiche” contro le autorità siriane o, peggio ancora, l'imposizione di corridoi umanitari che, tuttavia, come coloro i quali le rivendicano non sanno o fingono di non sapere, non concordate con le istituzioni legittime dei territori interessati e al di fuori di un quadro condiviso di legalità internazionale, almeno su scala regionale, si configurano, né più né meno, come un autentico atto di guerra.

Dovremmo attraversare non con “spirito di fazione”, banalizzando le diverse posizioni come tifo, più o meno scomposto o fanatico, per l'una o l'altra delle realtà in campo, ma con aderenza alla realtà, affrontando e cogliendo la sfida della complessità che la tragedia siriana ci rappresenta, questa vicenda, senza indulgere a schieramenti di campo precostituiti, ma partendo dai dati di fatto, che, sono, nei fondamentali, almeno tre:
 
a) il carattere laico e repubblicano del governo attualmente al potere in Siria;
b) il consenso popolare di cui gode (come segnalato da molte evidenze, in positivo, dai riscontri elettorali, in negativo, dai timori del Dipartimento di Stato in merito a possibili elezioni anticipate in una fase transitoria);
c) l'orientamento delle forze progressiste e dei comunisti siriani (in ampia maggioranza a sostegno o in appoggio al governo del Baath) prima ancora di quelle degli altri Paesi. 

Ciò assodato, si può articolare l'analisi a partire dai principi generali (auto-determinazione, internazionalismo, giustizia internazionale) o dalle circostanze congiunturali (posizionamenti, sviluppi internazionali etc.), tenendo presente comunque che un movimento di solidarietà si muove sul piano sociale (e delle relazioni sociali) prima che su quello istituzionale (e di appoggio, più o meno critico, a questo o quel governo). 

Si tratta di una distinzione di non poco conto e niente affatto nominalistica: ci consente di individuare le vere cause della tragedia in corso che solo in parte affondano nella repressione delle proteste della primavera 2011 ma molto più intensamente hanno a che fare con l'intromissione negli affari interni e il pilotaggio di quelle proteste da parte di attori e fondi legati all'imperialismo degli Stati Uniti e alle petro-monarchie del Golfo Persico; e ci permette di fare luce sulle iniziative di società civile siriana in Siria per il superamento del conflitto e la difesa popolare dalla violenza settaria, in buona parte oscurate dai media mainstream che preferiscono dare ruolo e spazio a centrali di “società civile” legate all'Occidente o addirittura basate nei Paesi occidentali, lontane dalla realtà siriana in nome e per conto della quale pure pretendono di parlare. 

Ovviamente, alla luce di queste note di metodo, il compito, di chiarificazione e di sintesi, che spetta alle forze più avanzate del movimento per la pace e contro la guerra di fronte alla tragedia siriana, non è semplice, è impegnativo ma, pur essendo gravoso, non è più (semmai lo è stato in passato) eludibile. Si tratta di riconoscere e di rispettare la autodeterminazione, la autonomia e la libertà dei soggetti che vivono il conflitto nel proprio Paese e che direttamente ne subiscono le conseguenze: riconoscere la legittimità e il consenso di cui (ancora) godono le istituzioni siriane, porsi a fianco dei soggetti, sociali e popolari, più deboli, che sono anche quelli più esposti alla furia del conflitto e della violenza (soprattutto settaria), e costruire percorsi di conoscenza e di condivisione, oltre che di appoggio e di sostegno, per imparare a ri-conoscere bisogni e istanze della società siriana, nelle sue articolazioni più mature, democratiche e avanzate, che, di norma, anche per storia, poco hanno a che fare con gli interessi dell'imperialismo e dei suoi proconsoli. 

Anche in questo caso, si tratta, da un lato, di stigmatizzare la violenza, dall'altro di precisare il perimetro del nostro campo di azione come movimento per la pace e contro la guerra, di fronte alla tragedia siriana; il che non vuol dire imporre l'unica linea (nessun coordinamento si muove in maniera monolitica) bensì escludere quelle posizioni i cui presupposti impediscono la possibilità di una cooperazione basata su principi di rispetto dell'autonomia e dell'autodeterminazione dei popoli. Sappiamo tutti che è difficile, essere, al tempo stesso, inclusivi, plurali e rigorosi, e però è uno sforzo che va compiuto, dal momento che, come giustamente si diceva, l'alternativa, di fatto, ad una sintesi avanzata è il pilatismo o il ne-ne-ismo. Sono tutte tendenze deprimenti, che inibiscono la possibilità di coordinamenti autenticamente inclusivi e di iniziative politicamente efficaci. Tendenze già viste e contrastate, laddove i movimenti hanno avuto modo di intercettarli e misurarli. 

domenica 11 ottobre 2015

È guerra alla pace

Monumento alla Resistenza di Umberto Mastroianni, Cuneo

La tragedia che si è consumata ad Ankara, capitale della Turchia, sabato scorso, 10 ottobre, è una tragedia di proporzioni gigantesche: per la portata della strage e per la gravità delle sue implicazioni. Il corteo dei dimostranti, in quella che intendeva assumere i contorni di una festa della democrazia e della pace, con un corteo ampio e colorato, aveva appena mosso i primi passi, dato corpo alle prime coreografie, intonato i primi canti, i cori e gli slogan: quando la manifestazione, in quanto tale, è stata fatta oggetto di un devastante attacco terroristico, con due bombe che sono esplose nel cuore del corteo, provocando, secondo gli ultimi dati ufficiali, ben 95 morti e 250 feriti. Lo si è detto all'inizio, una strage brutale di proporzioni colossali.

Il corteo doveva rappresentare il momento saliente di una protesta, nella quale si intrecciano tre grandi rivendicazioni: per la pace, contro la nuova escalation di violenza e la nuova aggressione militare di cui il governo turco si sta rendendo responsabile contro il popolo curdo e le sue legittime rappresentanze politiche; per la giustizia sociale e per il lavoro, per migliori condizioni salariali e contrattuali per tutti i lavoratori nel Paese, a partire dalle categorie più apertamente minacciate dalla crisi e della stretta economica, oltre che dalla riduzione dei diritti e degli spazi di agibilità sindacale, che anche la Turchia sta attraversando; per la libertà sindacale e per la democrazia, alla vigilia di una scadenza elettorale tanto importante quanto gravida di tensioni, quella del prossimo 1 novembre, quando si tornerà al voto per nuove elezioni politiche nel Paese.

La manifestazione era dunque una grande manifestazione per la pace e la democrazia. Era stata convocata dalla DISK (la Confederazione dei Sindacati dei Lavoratori Rivoluzionari), KESK (Confederazione dei Sindacati dei Lavoratori Pubblici), TMMOB (la Camera Turca degli Architetti e Sindacati degli Ingegneri) e TTB (la Camera dei Medici della Turchia). Inoltre, la manifestazione ha visto l'adesione e il supporto, ma anche l'attiva e importante partecipazione dell'HDP (il Partito Democratico del Popolo), EMEP (il Partito del Lavoro) e un ampio numero di partiti, organizzazioni politiche e gruppi sociali, collocati nello schieramento delle forze progressiste. Una manifestazione democratica, politica e sociale, ove si univano, alle rivendicazioni sociali dei lavoratori del pubblico impiego, dei dipendenti pubblici, dei professionisti (in primo luogo medici, architetti e ingegneri, ma, ovviamente, non solo), le rivendicazioni politiche, in primo luogo dell'HDP, che rappresenta oggi la forza emergente nel quadro politico turco.

Nato come partito filo-curdo, espressione dello schieramento democratico delle popolazioni curde nel Paese e strumento politico della storica battaglia per l'auto-determinazione e i diritti nazionali dei curdi in Turchia, l'HDP è oggi in realtà espressione di una composizione etnica e sociale molto più ampia e articolata, non solamente i curdi, ma diverse espressioni dello schieramento di sinistra del Paese, un partito di sinistra, di carattere unitario ed ispirazione progressista, che ha saputo conquistare, nelle scorse elezioni politiche del 7 giugno, il 13 per cento dei voti e 80 seggi in Parlamento, impedendo alla destra dell'AKP di conquistare la maggioranza assoluta ed al suo capo, il presidente della repubblica, Recep Tayyip Erdogan, di realizzare il suo progetto autoritario e presidenzialista.

Come è stato sottolineato da vari osservatori, le dichiarazioni “a posteriori” dello stesso Erdogan (“Condanno questo attentato contro l'unità e la pace nel nostro Paese”), stridono con la condotta tenuta dal suo partito in questa fase di transizione e con la scelta di militarizzare lo scontro nel Kurdistan, ponendo fine ai negoziati quinquennali con le forze politiche curde, avviando una vera e propria campagna militare e terroristica contro le regioni curde, con uno schieramento militare e di polizia senza precedenti nel corso degli ultimi anni. Centinaia sono le vittime di questa campagna di terrore scatenata dal governo nel Sud e nell'Est del Paese e si calcola che siano nell'ordine delle migliaia, tra soldati, poliziotti, guerriglieri e civili (tra cui numerose donne, anziani e bambini) le vittime della campagna di terrore realizzata negli ultimi mesi.

Tale escalation serve anche a militarizzare il “fronte interno”: per riportare alla maggioranza assoluta l'AKP, per bloccare con la violenza la crescita delle formazioni democratiche e progressiste, per riportare l'HDP sotto la soglia del 10%, per impedire a questo partito di superare lo sbarramento ed entrare in forza in Parlamento. Se questo è il disegno criminale delle forze nazionaliste al potere in Turchia, non sorprende, purtroppo, che nove militanti dell'EMEP siano morti nell'attentato, e altri trenta militanti siano stati feriti; non sorprende neanche la dichiarazione del segretario dell'HDP, Selahattin Demirtas, che ha denunciato che le bombe hanno colpito proprio i settori degli attivisti dell'HDP. Quando i ministri dell'Interno e della Sanità del governo turco si sono presentati sul luogo della strage sono stati duramente contestati e respinti dalla folla.

Questo attentato terroristico affianca, dunque, la campagna di terrore scatenata dalla Turchia nel Kurdistan, l'intervento attivo della Turchia a sostegno delle formazioni terroristiche e con compiti di destabilizzazione della Siria, l'attacco, mirato e ripetuto, delle forze della NATO a Kunduz, in Afghanistan, contro il presidio di Medici Senza Frontiere. Non è più sufficiente, oggi, limitarsi ad esprimere il pur necessario dolore e la pur doverosa solidarietà: scendiamo in piazza, denunciamo le complicità, uniamo le voci e gli sforzi contro questa vera e propria “guerra alla pace”. Le forze della pace, della giustizia e della democrazia sono ancora una volta chiamate a dimostrare di essere più forti di quelle della reazione, della violenza e del terrore.

* In foto, il Monumento alla Resistenza dei Partigiani voluto dalla Città di Cuneo e realizzato da Umberto Mastroianni, nella forma di un cristallo/esplosione che guarda in direzione di Boves, città martire. L'opera, iniziata nel 1964, fu ultimata nel 1969, e inaugurata alla presenza di Sandro Pertini, che vi ritornò da Presidente della Repubblica. L'opera, potente ed evocativa, rappresenta, secondo G.C. Argan, un esempio di «poetica della Resistenza»: cuneofotografie.blogspot.it

lunedì 21 settembre 2015

Cosa ci insegna la terza vittoria (in nove mesi) della Sinistra in Grecia

Elections 2012, SYRIZA Rally, Tsipras, flickr: photos/asterios/7000627690


Nessuna intenzione di bypassare analisi articolate e valutazioni rigorose, quanto mai opportune e necessarie con i tempi che corrono, all’insegna della ricomposizione della sinistra, almeno in Italia, della rigenerazione di una cultura politica all’altezza della sfida e della fase, per una sinistra, al contempo, non riformista e non socialdemocratica, ma solida e di governo, e della elaborazione di un pensiero e di una pratica innovativi, radicati nella storia ma lanciati verso il futuro. Affrontata su questo terreno, la (terza in nove mesi) vittoria di Syriza, ci parla di molte questioni, del nostro presente e del nostro futuro, molto più che del nostro passato, e, al tempo stesso, della nostra capacità ri-costruttiva e ri-generativa, per almeno dieci questioni:

1. la sinistra radicale greca è la forza maggioritaria: se la vittoria del 25 gennaio aveva consegnato a Syriza oltre il 36% dei voti, la vittoria del 20 settembre conferma a Syriza il voto di circa il 35% degli elettori; la proposta politica di Syriza rimane, dunque, la più credibile e la più efficace;

2. così come non c’era la maggioranza assoluta il 25 gennaio, così non c’è una maggioranza assoluta nel nuovo parlamento eletto il 20 settembre: il compito di fase di Syriza, al di là della formazione di una nuova maggioranza parlamentare, è quello di potenziare ed estendere la rete del suo insediamento civico e sociale, fatto di una diffusa rete di presidi sociali, di solidarismo e di mutualismo;

3. la maturità delle masse popolari greche, come di tutti i soggetti collettivi alle prese con lotte di progresso e giustizia, delle quali sono artefici e protagonisti, ha offerto una significativa prova di sé, premiando il partito che più coerentemente ha lottato contro l’austerità ed il neo-liberismo e più efficacemente ha indicato le tappe delle nuove battaglie contro le degenerazioni del memorandum, per attutirne l’impatto sociale, per tutelare le misure sociali intraprese dal governo, per rinegoziare il debito;

4. più precisamente, non c’è dubbio che la firma del nuovo memorandum abbia generato disillusione e frustrazione (l’affluenza alle urne è intorno al 55%), ugualmente non c’è dubbio che avere perso una battaglia, combattuta soli contro tutti in Europa, e avere dovuto fronteggiare un tentativo di golpe, ordito dalla oligo-finanza internazionale, non significa essere dei “venduti” o dei “traditori”;

5. diffidare quindi, a proposito dei giudizi contro il presunto “venduto” e “traditore”, di chi fa del massimalismo la propria bandiera (tutta ideologica), al punto di rompere il fronte della comune battaglia di governo contro il neo-liberismo: la sinistra scissionista di Unità Popolare è ferma al 3%;

6. è proprio questa vittoria di Syriza, giunta dopo il memorandum e sette mesi di governo della Grecia, a sconfiggere il golpe prolungato tentato dalle oligo-finanze e da Shäuble, e a preparare il terreno per una nuova iniziativa, per rimettere in piedi la Grecia in una prospettiva di giustizia e di solidarietà;

7. ed è ancora questa vittoria di Syriza a segnare uno spartiacque e fare da apripista in Europa: la prima forza politica della sinistra di alternativa che vince, riesce anche a confermarsi al governo; da una parte, quella che Tsipras ha definito la “sinistra che scappa”, una ridotta testimoniale; dall’altra, la “sinistra di governo”, non riformista né socialdemocratica, che si assume le proprie responsabilità e la sfida del governo;

8. occorre quindi rompere il silenzio: quanti, tra i sostenitori più accesi dell’OXI, assistono oggi da spettatori silenti al nuovo successo di Syriza? Non si vince sempre come vorremmo noi, e non sempre le scelte sono fatte a nostra immagine e somiglianza. Individuare il prevalente. Esplorare e fare esplodere le contraddizioni. Non abbandonarsi ai facili entusiasmi ed ai ripiegamenti deprimenti. Forse questa nuova vittoria di Syriza è anche un esame di maturità (per loro, forse; per noi, sicuramente);

9. “preso il governo, non ancora il potere”, ripetevano i compagni greci prima, durante, e, soprattutto, subito dopo, la vittoria referendaria dell’OXI; sappiamo bene che non basta entrare nella stanza dei bottoni, anche perché oggi, soprattutto nel contesto dell’Unione Europea, alcuni di quei bottoni non sono neanche ad Atene (o a Roma, e così via); semmai, occorre continuare a lottare contro “questa” Unione Europea;

10. infine, Alba Dorata è il terzo partito e consolida le sue posizioni presso disoccupati e sotto-proletariato; tocca ancora una volta alla sinistra ed ai comunisti la ricostruzione, al fondo di una egemonia reale, di un blocco storico e sociale, di una unità delle masse popolari, che sappia respingere ogni infiltrazione ed ogni provocazione della destra fascista e razzista, anche – e soprattutto – quando si presenta nella sua tenuta di “legge ed ordine”.

A queste latitudini, che pullulano di populisti e di demagoghi, di destre nazionalitarie e neo-fasciste, un “avviso ai naviganti” di grande attualità.

lunedì 7 settembre 2015

NO alla NATO

Foto di Twitter/ Robin Monotti ‏@robinmonotti da Pressenza Italia

Il movimento italiano per la pace e contro la guerra, tenendo insieme queste sue due connotazioni, nelle sue più ampie e diversificate articolazioni, si prepara a scendere in piazza e mobilitarsi contro “le più grandi esercitazioni militari della NATO dalla “caduta del muro di Berlino” in poi”. 

Una recente assemblea a Napoli, tenuta lo scorso 2 settembre (report), ha rappresentato il primo momento di elaborazione e di programmazione della mobilitazione nazionale “contro la guerra” e “contro la NATO” che si intende lanciare in contemporanea con lo svolgimento di questi minacciosi e spaventosi “giochi di guerra” dell'imperialismo euro-atlantico sotto le insegne della NATO. 

Si è trattato di un'occasione di incontro e di confronto assai promettente: convocata, congiuntamente, dalla Rete Napoli Nowar, la rete napoletana anti-militarista e anti-imperialista, e dal Comitato Pace Disarmo e Smilitarizzazione del Territorio, il coordinamento cittadino delle organizzazioni pacifiste e nonviolente, la riunione ha registrato la presenza di una cinquantina di attivisti, provenienti sia dalla galassia associativa, che anima e ispira il tessuto sociale e civile partenopeo (dal MIR a Pax Christi, da ALBA Informazione ad Assadakah Napoli, sino a Un Ponte per …, solo per citare alcune tra le numerose presenti), sia dalle realtà di movimento e di conflitto più attive a Napoli (presenti Nowar napoletani e romani, Red Link e la Rete dei Comunisti, i Cobas e lo SKA-Officina 99, la Rete Antirazzista …). 

Per la prima volta da molto tempo, l'assemblea ha costituito un momento di convergenza e di confronto tra realtà distinte, ciascuna impegnata nel proprio percorso e nella propria mobilitazione, e che non sempre, nei tempi più recenti, avevano saputo trovare, pur nella mobilitazione contro le recenti guerre alle porte dell'Europa, occasioni analoghe di incontro; basti pensare, tanto per andare sul concreto, ai casi recenti della Libia e della Siria, a partire dal 2011, su cui si sono consumate e si registrano tuttora visioni distinte e interpretazioni differenti intorno alle cause, le motivazioni e gli attori di tali conflitti, fino ad arrivare al caso più recente, a partire dal 2014, dell'Ucraina, con l'aggressione contro l'autodeterminazione del Donbass e sul ruolo della Russia. 

Come è stato detto nel corso dell'assemblea, dunque, non sarà una mobilitazione, per quanto importante e di rilievo nazionale, a ricomporre l'unità del movimento italiano per la pace, attraversato da distinguo e divisioni ormai annosi, ma una tale mobilitazione può rappresentare, se ben impostata e partecipata, una occasione preziosa per riannodare le fila, ritessere un discorso, ridefinire un terreno, di riflessione e iniziativa, lungo il quale provare nuovamente ad incamminarsi insieme. 

L'assemblea napoletana è stata, sotto questo aspetto, per quanto preliminare, assai promettente: gli interventi e le riflessioni, che si sono succeduti, hanno infatti concordemente gravitato intorno a tre elementi salienti, quali 

     1) il carattere della Trident come strumento della riconfigurazione strategica della NATO su tre fronti (Russia e Oriente, Medio e Vicino Oriente, Africa Settentrionale e Centrale) con tre guerre già aperte su ciascuno di questi tre versanti del “tridente” (Donbass, Siria, Libia); 
   2) il Mediterraneo come vera e propria “trident juncture” di questo schieramento di forze, con Napoli al suo centro, operativo, strategico e logistico; 
     3) l'indissolubilità, per il momento storico e la collocazione geopolitica nella quale si situa, del nesso tra guerra e migrazioni e, insieme, tra anti-imperialismo ed anti-razzismo. 

L'operazione NATO “Trident Juncture 2015” sarà effettivamente qualcosa di inedito, un vero e proprio “salto di qualità” nella riconfigurazione strategica della proiezione offensiva della NATO, letteralmente, ai “quattro angoli” del pianeta: si svolgerà dal 28 settembre (in predicato la data del 4 ottobre) fino al 6 novembre, per oltre un mese, coinvolgendo direttamente Italia, Spagna e Portogallo ed estendendo il suo raggio di operazioni all'intero Mediterraneo, ed impegnerà 36 mila uomini, oltre 60 navi e 200 aerei da guerra di 33 Paesi (28 NATO e 5 alleati), con l'obiettivo di testare la forza di intervento rapido - Nato Response Force (NRF) - (40mila effettivi) e il suo corpo d’élite (5mila effettivi), la “Very High Readiness Joint Task Force” (VJTF), in grado di essere schierata in 24-48 ore per rispondere “alle sfide alla sicurezza sui fianchi meridionale e orientale”, cioè ad intervenire militarmente verso la Russia e l'Oriente, il Medio e il Vicino Oriente, l'Africa Settentrionale e Centrale, ovunque gli interessi dell'imperialismo siano minacciati, secondo la logica tradizionale della “guerra preventiva”. 

Napoli, capitale nel Mediterraneo, è il centro di questo inquietante schieramento di forze: il JFC Naples è al comando della “Trident Juncture 2015” e, insieme a Brunssum (Olanda), comanderà la forza di intervento rapido (Nato Response Force) della NATO. Un ennesimo motivo per rilanciare, proprio da Napoli, l'appello alla iniziativa ed alla mobilitazione.

domenica 23 agosto 2015

Conflitto e Consenso: Appunti per la Sinistra

Verificare la risonanza mediatica prodotta da una iniziativa politica è un esercizio accattivante: se non altro, può servire a fare luce sulla qualità della seconda - l'iniziativa politica - quando non sugli artefici della prima - la risonanza mediatica. Nell'epoca della comunicazione globale, virtuale, interattiva, social
qualunque valutazione politica condivisa tende a finire nella sfera pubblica ed alimentare, di conseguenza, il circuito mediatico. L'onda di impatto prodotta dal discorso televisivo con il quale Alexis Tsipras ha annunciato le dimissioni del suo governo e le elezioni anticipate (settembre) ha avuto un effetto di smottamento forse persino maggiore di quello che si sarebbe potuto immaginare.
Soprattutto tra i compagni, a sinistra; o, per meglio dire, in quel campo aperto, vero e proprio cantiere in movimento, dentro il quale si raccolgono le molteplici aggregazioni sociali e politiche che riconoscono il proprio punto di riferimento nei valori della sinistra (eguaglianza e giustizia sociale, centralità del lavoro, vocazione, nazionale e internazionale, alla pace, alla convivenza pacifica, alla amicizia tra i popoli) ed in cui si muovono progetti ed iniziative per riguadagnare alla sinistra il “terreno perduto”, quello dell'organizzazione unitaria e della presenza di massa.
Qui, tra i compagni, scorrendo post e mail, blog e social, le reazioni, visibilmente disparate (e, in qualche caso, disperate), si raccolgono sommariamente in due categorie macro: quella dei “traditi” e quella dei “disillusi”. Da una parte, si rispolvera con banale (e preoccupante) rapidità una categoria che sembrava essere bandita, se non dalla storia, per lo meno dal lessico del movimento operaio, quella del tradimento. La tesi, cioè, che, dopo il varo del programma di Salonicco, la vittoria elettorale del 25 gennaio e l'insediamento del primo governo della sinistra nella storia recente della Grecia, Syriza abbia tradito: abiurato il programma elettorale, svenduto il profilo ideologico formando il governo con il sostegno della destra nazionalitaria, tradito il mandato referendario (lo storico OXI del 5 luglio) con la stipula del terzo, pessimo, Memorandum con le istituzioni europee ultimato appena poche settimane fa (lunedi 10 agosto).
Dall'altra, si precipita con noncuranza (e approssimazione) l'intera azione politica di Syriza al rango della sinistra moderata, una socialdemocrazia tra le altre, uno Tsipras degno di andare a braccetto con un Renzi, o poco ci manca. In questa versione, la scissione da Syriza della sua Piattaforma di Sinistra, che si presenterà alle elezioni di settembre con una propria formazione politica (Unità Popolare), della quale però non faranno parte, da quanto si apprende, né Yannis Varoufakis, né Zoe Kostantopolou, non solo viene salutata con entusiasmo, ma persino proposta come la strada maestra, per la purezza ideologica, contro le nefandezze della mediazione e via computando. Ovviamente, la vicenda politica greca è complessa e difficile, è naturale, di conseguenza, che le onde del riverbero siano molteplici e variegate, e possano perfino sommarsi e rifrangersi.
Sorprende, con amarezza, tuttavia, non tanto la protervia massimalista di chi antepone la purezza ideologica alla sfida politica sul terreno di massa (cioè, detto diversamente, la lettera scarlatta al difficile binomio di “conflitto” e “consenso”, l'uno insieme con l'altro), quanto soprattutto l'incapacità, per dirla in termini letterari, di leggere il “testo” (il fatto politico del Memorandum e l'esito dei negoziati con i cosiddetti “creditori internazionali”) prescindendo completamente dal “contesto” (rappresentato dall'egemonia tedesca sulla unione monetaria e dalla moneta unica, con la sua regolazione politica, come vero e proprio dispositivo mercantilista di comando).
Il contesto è quello che aveva prodotto le condizioni per, nell'ordine: l'uscita della Grecia dall'euro alle condizioni imposte da Shaeuble e dall'establishment tedesco (il tracollo sistemico della Grecia); il prestito-ponte ed una nuova negoziazione europea al posto del piano di ri-finanziamento triennale da 86 miliardi (il collasso economico della Grecia); un volume di almeno 80 miliardi, quasi la metà dell'intera ricchezza della Grecia, di asset da privatizzare allocati in Lussemburgo (la svendita del Paese senza colpo ferire). Ora, è chiaro che il Memorandum è pessimo e l'esito del negoziato ha rappresentato una sconfitta per la sinistra greca; è altresì evidente, alla lettura del testo sullo sfondo del suo contesto (quello vero, non quello che avremmo voluto), che non vi erano alternative praticabili (praticabili) molto migliori, ma molte sicuramente peggiori.
Nelle stesse parole di Tsipras, con estrema e sincera sintesi: "Non abbiamo avuto l’accordo che abbiamo voluto prima delle elezioni di gennaio. Non abbiamo neppure affrontato, però, la reazione che ci eravamo aspettati. In questa battaglia abbiamo fatto concessioni. Ma abbiamo raggiunto un accordo che, date le circostanze prevalentemente negative in Europa, e dato che abbiamo ereditato dal governo precedente l’assoluto aggancio del paese alle condizioni dei memorandum, era il migliore che si poteva ottenere. Ora, siamo obbligati a rispettare l'accordo sottoscritto, ma, contemporaneamente, a dare la battaglia per ridurre al minimo le conseguenze negative".
D'altro canto, un'azione di governo è un'azione di sistema: può cambiare il volto di un Paese, può orientarne la rotta in senso conforme agli interessi, ai desideri e ai bisogni delle masse popolari, può modificarne la collocazione nello scenario regionale, continentale e internazionale. Il governo di Syriza, è bene ricordarlo, non è solo quello di un golpe subito del quale sono state evitate le precipitazioni più catastrofiche; ma è anche quello di un disegno riformatore, non rivoluzionario, diverso e avanzato. Ancora con Tsipras: "Ci avevano chiesto l'abolizione immediata delle pensioni EKAS, la privatizzazione della rete elettrica e della “DEH - Enel”. Queste cose non le abbiamo accettate.
"Avevano chiesto l'applicazione immediata della clausola per il deficit zero per i fondi integrativi dei pensionati. Nell'accordo vi è un riferimento esplicito alla ricerca di misure equivalenti e siamo pronti a questa battaglia. Anche il ritorno dei contratti collettivi e la fine dei licenziamenti collettivi nel settore privato sono tra i nostri obiettivi e penso che raggiungeremo anche questi. I licenziamenti nel settore pubblico sono ormai alle spalle e sono tornati i custodi nelle scuole, le donne delle pulizie e il personale amministrativo nelle università. Negli ospedali non c'è più il ticket dei 5 euro, mentre va avanti la procedura per assumere 4.500 medici ed infermieri, assolutamente necessari, attraverso un concorso pubblico. Non dimentichiamo che abbiamo concordato avanzi primari ampiamente inferiori di quelli del governo precedente".
È questa una lezione per la sinistra? Sicuramente sì, ma non nel senso di chi predica rivoluzioni in casa d'altri, senza intanto fornire risposte e strumenti praticabili (praticabili) al proletariato in casa propria per migliorare le proprie condizioni di vita e di lavoro; semmai, nel senso di attrezzare un percorso, insieme politico e sociale, anche in vista delle scadenze dell'autunno, per riguadagnare alla sinistra italiana il terreno di massa su cui sperimentare la rinnovata dialettica di "conflitto e consenso".

sabato 18 luglio 2015

Venezuela e Grecia: sulla stessa barricata

www.rifondazione.it

Il Presidente della Repubblica Bolivariana del Venezuela, Nicolas Maduro, ha tenuto la puntata n. 34 del programma “Contacto con Maduro”, presso il Liceo Andres Bello, a Caracas. Mi è molto cara questa annotazione, avendo avuto l'occasione e l'onore, nell'ambito di una missione di solidarietà e di interscambio nel Venezuela Bolivariano e Socialista, nel 2010, di incontrare e stringere un protocollo di intesa proprio con questo, prestigioso e pionieristico, liceo. 

Durante la trasmissione del programma radiofonico e televisivo, Nicolas Maduro ha tirato le conclusioni del II Congresso Nazionale dell'Organizzazione Bolivariana degli Studenti e delle Studentesse (OBE), al quale più di un migliaio di portavoce degli studenti e delle studentesse delle scuole superiori a livello nazionale hanno partecipato, condividendo e scambiando idee e pratiche, sulle problematiche della scuola, le condizioni degli studenti e delle studentesse, il contributo, innovativo e originale, delle forze studentesche all'avanzamento della Rivoluzione Bolivariana.

Questo evento, così significativo, partecipato, importante, si è svolto a cavallo tra il 12 e il 14 luglio, anniversario della presa della Bastiglia e della Rivoluzione Francese in Europa, momento in cui gli studenti delle scuole superiori hanno presentato le proposte da loro condivise e formulate per contribuire allo sviluppo e all'avanzamento del Venezuela. Nell'occasione, con il proprio discorso alla platea studentesca e giovanile, Nicolas Maduro non si è soffermato, tuttavia, solo sulla vicenda nazionale, ma ha immediatamente allargato la prospettiva all'intera situazione internazionale, in particolare europea, con un riferimento assai significativo ed estremamente pertinente alla Grecia.

“Tutta la nostra solidarietà al popolo greco: è terribile quello che l'Unione Europea ha fatto. Tutta la nostra solidarietà al primo ministro Alexis Tsipras, che è stato sottoposto a una pressione brutale; si dovrebbe solo essere nei panni di Alexis Tsipras per sapere quali sembianze abbia il volto del nuovo fascismo finanziario che ha ricattato la Grecia dicendo: "Firma, o ti uccido". Ciò che hanno fatto la Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale, non ha nome, e noi non possiamo stare in silenzio, siamo a fianco della Grecia, il Venezuela Bolivariano è al fianco del popolo greco”.

“Il capitale finanziario europeo ha imposto una dittatura feroce e misure insopportabili per la Grecia. Hanno punito la Grecia perché la Grecia ha votato NO al neoliberismo”. Perciò, Maduro ha espresso “tutta la nostra comprensione e tutta la nostra vicinanza al premier Tsipras, nel bene e nel male, siamo con Tsipras e con il popolo greco”. Le misure imposte “cercano di saccheggiare la Grecia, depredarla, annullare i diritti sociali, devastarla e succhiarle il sangue, per cinque anni. Nessuno ricorda che alla Germania è stato condonato il debito di guerra, una guerra di cui è stata responsabile e che ha distrutto l'Europa, mentre oggi non intende condonare il debito della Grecia”.

Maduro ha poi proseguito: “Ciò che viene deciso oggi in Grecia, non riguarda solo la Grecia, si sta decidendo il futuro dell'Europa stessa e di gran parte di ciò che accadrà all'umanità nei prossimi 10, 20, 30 anni, in questo modo lo vediamo dal Venezuela”. Questo dimostra che il modello capitalista e predatorio “è esaurito, è alla fine del suo tempo, lo diciamo dalla America Latina”. Ed oggi il Venezuela, insieme con i Paesi dell'ALBA, continua la propria battaglia contro il modello neo-liberale e la guerriglia economica, la devastazione, il sabotaggio, la sottrazione criminale di generi di prima necessità, nel tentativo di affamare il popolo, la guerriglia mediatica di bugie e dis-informazione contro le autorità e contro il popolo del Venezuela, gli argomenti di quella medesima dittatura, oligarchica e finanziaria, che il neoliberismo, statunitense ed europeo, cerca di imporre ai popoli che alzano la testa ed oppongono la propria dignità al ricatto del capitalismo finanziario.

Venezuela e Grecia, oggi, sulla stessa barricata. 

martedì 14 luglio 2015

Non si chiama capitolazione; si chiama golpe.

Bundesarchiv, Bild 101I-164-0368-14A / Jesse / CC-BY-SA

“Preparati” dall'Euro-gruppo sabato 11 luglio, i lavori dell'Euro-summit, durato 18 ore, a cavallo tra il pomeriggio di domenica 12 luglio e lunedì 13 luglio, nel sostanziale accordo di tutti i governi dell'area euro, hanno imposto alla Grecia la linea neoliberista più ottusa, sostanzialmente eversiva, ispirata dal governo tedesco e dalla Bundesbank. Nel documento dell'Euro-gruppo, vale a dire della riunione dei Ministri delle Finanze dei 19 Paesi della moneta unica (Euro-zona), vengono imposte condizioni radicali alla Grecia, del tutto inaccettabili ed inattuabili, pena una autentica catastrofe politica e sociale, con una violenta recrudescenza dell'austerità, che si sarebbe, ancora una volta, scaricata sui ceti deboli e le classi popolari, e una vera svendita del patrimonio pubblico del Paese.

Vi si prevede, a garanzia della nuova linea di finanziamento e della copertura delle rate debitorie, la collocazione separata di asset pubblici greci, per un valore non inferiore agli 80 miliardi di euro, in un fondo separato, fuori dal territorio nazionale (Lussemburgo); l'imposizione di misure draconiane e di un ferreo controllo internazionale, da parte delle istituzioni finanziarie, su tutte le misure intraprese dal governo greco, anche con effetto retroattivo; e, infine, la possibilità, formalmente regolata, in caso di inadempienza anche parziale nel conseguimento dei risultati previsti, di imporre l'uscita unilaterale ed esclusiva della Grecia dall'area euro per un periodo di cinque anni. Su tale documento, tuttavia, non è stato conseguito l'accordo, dal momento che non si è registrata l'unanimità tra i ministri finanziari dell'area euro, e questo è il motivo per il quale il documento è stato sottoposto, in bozza, ai lavori del successivo Euro-summit.

A quest'altezza, dunque, al netto del fatto che tali imposizioni eversive non abbiano conseguito l'unanimità dell'area euro, è importante sottolineare il mandato politico che esse hanno istruito: la posta in gioco era chiaramente messa nei termini, dettati in primo luogo dalla Germania e dai suoi più stretti alleati, gravitanti nell'area nominale del marco tedesco e in quella che era e resta l'area di mercato tedesca (Slovacchia, Polonia, Repubbliche Baltiche, Olanda e Finlandia, il cui parlamento ha addirittura, con voto finale, negato al governo finlandese la autorizzazione a negoziare un nuovo piano di finanziamento per la Grecia, il che implicherà, nelle prossime settimane, un nuovo ricorso al voto parlamentare, per nulla scontato) della svendita del patrimonio greco, della limitazione della sovranità politico-economica del Paese e della più stretta morsa monetaristica e liberistica sul Paese, pena la sua unilaterale e rovinosa fuoriuscita dall'euro.

Questo è il punto di partenza e il contesto di riferimento all'interno del quale si svolge il negoziato, che, come si è detto, è durato 18 ore, nell'ambito dell'Euro-summit, vale a dire il vertice dei capi di governo di Paesi Euro. Le 18 ore di negoziato e la strenua resistenza da parte delle autorità greche producono un testo che è, evidentemente, molto peggiore del “piano Tsipras”, ma anche molto diverso da quel vero e proprio documento di “capitolazione unilaterale” che le istituzioni avevano prodotto in sede di Euro-gruppo. Nel documento finale del Summit, approvato all'unanimità e con il quale si avviano le procedure parlamentari e si gettano le basi per una nuova linea di finanziamento per la Grecia, vengono sostanzialmente radicalizzate tutte le proposte, contenute nel piano Juncker, in merito alla revisione del sistema pensionistico, alla riforma dell'IVA, alla ridefinizione del sistema del lavoro (contratti e licenziamenti), e alle privatizzazioni, con la collocazione di asset pubblici in un fondo nazionale, che sarà tuttavia sotto il controllo del governo greco e il monitoraggio delle autorità internazionali, basato in Grecia, per una valore totale non di 80 ma di 50 miliardi di euro (25 per la ricapitalizzazione del sistema bancario, 12.5 per il debito e 12.5 per gli investimenti).

Viene inoltre imposto un crono-programma di approvazione parlamentare, con le quattro misure prioritarie da approvare entro il 15 luglio e il successivo stock di misure entro il 22 luglio, quale presupposto all'erogazione di un nuovo, canale di finanziamento, pari a 82 miliardi in tre anni, per alleggerire l'onere debitorio e rilanciare gli investimenti produttivi. Si tratta, in sostanza, di un “terzo memorandum”, che non ha nulla a che vedere con il Programma di Salonicco, si situa in piena continuità con le misure odiose del precedente governo Samaras, ma evita alla Grecia sia la strozzatura economica e finanziaria (che avrebbe determinato il crollo dell'intero sistema bancario e l'abbattimento dell'intero welfare state), sia la capitolazione politica e istituzionale (che, a ben vedere, rappresentava il vero obiettivo, soprattutto della Germania). Ora, se le misure economiche del piano rappresentano una radicalizzazione delle proposte negoziali, il carattere eversivo del pacchetto imposto alla Grecia si mostra in due passaggi del testo: il ritorno del monitoraggio da parte delle istituzioni finanziarie sulle misure in discussione e il ripristino della legislazione concordata, con le autorità europee e il FMI, anche in campo pubblico e sociale. Si è consumato, insomma, in sede europea, un vero e proprio golpe bianco, attraverso l'asfissia economica della Grecia, ispirato dalle autorità tedesche, ma a cui nessun Paese europeo s'è opposto.

Lo scenario che adesso si apre assume pertanto caratteri ultimativi: la radicalizzazione dello scontro imposta alla Grecia è anche una risposta politica al referendum greco e segna un vero e proprio salto di qualità nella strategia eversiva dei poteri forti del neoliberismo finanziario; questo salto di qualità mette profondamente in discussione la possibilità di una relazione paritaria tra Paesi sovrani all'interno della Euro-zona e indica la sostanziale impossibilità di politiche socialmente avanzate o adeguatamente redistributive all'interno della Euro-zona vigente; lo stesso diktat della Germania apre malumori e contraddizioni, riconsegnando questo Paese ad alcune delle pagine più tragiche della sua storia e riaprendo la porta a spettri catastrofici del passato. Per Syriza si apre ora lo scenario plausibile, con il mandato istituzionale all'approvazione delle misure indicate, di salvaguardare, quanto più sia possibile, l'unità del partito e delle masse popolari e consolidare tutte quelle misure che possano alleggerire le pesanti condizioni di vita delle classi popolari e del proletariato greco e, in conseguenza del mutato scenario interno e, soprattutto, internazionale, indire elezioni anticipate, consolidando la propria egemonia ed inibendo le strumentalizzazioni e lo sciacallaggio, interno e internazionale (da Alba Dorata al Front National, dalla Lega Nord ai Cinque Stelle, in Italia), imbastiti sulla vicenda. Nella ridda di dichiarazione, spesso sconclusionate, delle ultime ore, vale la pena riprendere le note di Pierre Laurent, Presidente della Sinistra Europea:

«Un accordo che è un compromesso è stato trovato … dai capi di stato della zona euro. Questo accordo scarta lo scenario della “Grexit” e l'asfissia finanziaria della Grecia, voluti da Schaeuble e Merkel, che fino all'ultimo hanno tentato la messa sotto tutela integrale della Grecia, la negazione della sua sovranità, la sua sottomissione alle potenze finanziarie, la sua vendita pezzo per pezzo. Se è stato firmato un accordo, è grazie al coraggio del primo ministro greco. Per la prima volta, un capo di governo ha avuto il coraggio di affrontare le potenze dominanti che pensano che tutto gli è permesso in Europa. Il sostegno del suo popolo non ha cessato di aumentare da gennaio per questa ragione... Alcune delle concessioni fatte sono state imposte all'ultimo minuto. Non dimentichiamoci che questo è avvenuto sotto la minaccia e dopo due settimane di chiusura delle banche.

Il governo greco ha fatto una scelta responsabile, quella di permettere prima di tutto la stabilità finanziaria sostenibile del Paese e l'investimento per l'occupazione e la riconversione produttiva del Paese. Il debito sarà riscaglionato e i tassi di interessi rinegoziati. Alexis Tsipras ha confermato l'intenzione di addossare gli sforzi maggiori sui greci più ricchi e di proteggere le classi popolari. La BCE deve immediatamente decidere la riapertura dei rubinetti per le banche greche. L'Europa vive momenti storici. Le pressioni e le umiliazioni subite da Alexis Tsipras e dal popolo greco durante tutto il week-end sollevano delle difficili questioni per tutti noi, per il futuro stesso della cooperazione nella zona euro. La lotta per l'uguaglianza, il rispetto della democrazia, la solidarietà, la riconquista del potere sulla finanza deve proseguire. Si tratta di una questione essenziale per un futuro solidale nell'Unione Europea. Tutti gli Europei hanno interesse ad amplificare il loro sostegno a questa battaglia e le loro lotte contro l'austerity nel proprio Paese. Invito tutte le forze democratiche e di sinistra a lavorare insieme ad un progetto comune per fare uscire l'Europa della tempesta liberista».

mercoledì 8 luglio 2015

Fidel Castro ad Alexis Tsipras

Foto di Antônio Milena/ABr - Agência Brasil. Licenza CC BY 3.0. WC 




Mi congratulo calorosamente per la sua brillante vittoria politica, i cui dettagli mi sono noti grazie al canale TeleSur.
 
La Grecia è molto familiare tra i Cubani. Ci ha insegnato la Filosofia, l'Arte e le Scienze dell'età antica, al tempo dei nostri studi scolastici, e, insieme con quelle, la più complessa tra tutte le attività umane: l'arte e la scienza della politica.
 
Il suo Paese, specialmente il valore che ha dimostrato nella situazione attuale, suscita ammirazione tra tutti i popoli dell'America Latina e del Caribe, di questo emisfero del mondo, al vedere come la Grecia, di fronte alle aggressioni provenienti dall'estero, difende la sua identità e la sua cultura.
 
Noi non dimentichiamo che, un anno dopo l'attacco di Hitler alla Polonia, Mussolini ordinò alle sue truppe di invadere la Grecia, e che questo coraggioso Paese ha respinto l'aggressione e ha fatto retrocedere gli invasori, costringendo al dispiegamento dei blindati tedeschi in direzione proprio della Grecia, deviandoli dal loro iniziale obiettivo.
 
Cuba conosce il valore e il coraggio delle truppe russe che, unite alle forze del potente alleato, la Repubblica Popolare Cinese, e le altre nazioni del Medio Oriente e dell'Asia, provano sempre ad evitare la guerra, e non permetteranno mai alcuna aggressione militare, senza che segua una risposta puntuale e contundente.
 
Nell'attuale situazione politica del pianeta, quando la pace e la sopravvivenza della nostra specie sembrano appese ad un filo, ogni decisione deve essere accuratamente ponderata ed applicata, in modo che nessuno possa dubitare dell'onestà e della serietà con la quale i dirigenti più responsabili e seri lottano oggi per affrontare le calamità che minacciano il nostro mondo.
 
Le auguriamo - stimato compagno Alexis Tsipras - il più grande dei successi.

 
Fraternamente,

Fidel Castro Ruz

5 luglio 2015

lunedì 6 luglio 2015

Cinque cose che ci insegna il NO della Grecia

facebook.com/napolicontsipras

In queste ore, all'indomani dello strepitoso successo dell'OXI - NO - al referendum greco contro l'austerity neoliberista e le ricette delle autorità finanziarie, fiumi d'inchiostro vengono versati per “leggere” il risultato, tradurlo nelle proprie “lingue” nazionali, interpretarne le conseguenze.

Molte analisi, di parte democratica e progressista, “da sinistra”, sono convergenti e convincenti: la linea, del resto, è stata tracciata proprio da Tsipras e da Syriza, che non solo hanno ispirato la rotta del governo greco, ma anche fornito la chiave di lettura, per quello che si è mosso sinora e, in prospettiva, per quello che si muoverà nei prossimi giorni. Non si è trattato di un referendum contro l'Unione Europea (da non confondere con l'Europa, per piacere) o contro l'Euro, anzi, semmai, di un referendum per un'altra Unione Europea, non dominata dalle oligarchie finanziarie e dall'egemonia tedesca, ma come vera unione dei popoli europei, basata su una democrazia effettiva e operante.

Si è trattato di un referendum contro l'ultimatum imposto dai cosiddetti “creditori internazionali” al governo greco; vale dire, un referendum contro le misure, imposte alla Grecia, in primo luogo, dal Fondo Monetario, dall'Eurogruppo e dal governo tedesco (conservatori e socialdemocratici, in Germania, governano insieme, bene ricordarlo), tutte coerenti con l'approccio monetaristico, tecnocratico e neo-liberista dell'attuale direzione politica dell'Unione Europea. In Grecia, il 65% degli aventi diritto si è presentato alle urne e l'OXI - NO - ha vinto “a valanga”, sfiorando il 62%, con punte superiori al 70% nelle regioni a più forte insediamento popolare e di classe, più povere. Da Maastricht in avanti, la prima sconfitta “sul campo” del neo-liberismo europeo. Un NO storico.

Un NO che insegna, se è vero ciò che abbiamo richiamato sin qui, almeno (ma soprattutto) 5 cose:

1. L'ordine neo-liberale imposto dai Trattati e dall'egemonia tedesca e delle oligarchie finanziare, si può sconfiggere. Il “neo-liberismo” non è un destino naturale, un compimento auto-evidente, un esito della storia; né tanto meno la “fine della storia”. La vulgata neo-liberista che ci hanno imposto come una vera e propria cappa ideologica, cornice dominante, espressione dell'odierna articolazione dei rapporti di forza e dell'attuale composizione delle classi dirigenti europee, può essere sconfitta. In Grecia, con il NO, È Stata Sconfitta. Si apre la strada impervia della prospettiva dell'altra Europa.

2. Le masse popolari possono fare la storia: anzi, fanno la storia. Partecipazione ai seggi, esito del voto, risultato persino al di là delle previsioni, propaganda attiva per il sì non solo della Germania, ma addirittura della Commissione Europea e di tutte (tutte) le tecnocrazie comunitarie, terrorismo psicologico, politico e mediatico e manipolazione delle informazioni e, perfino, dei sondaggi, non hanno prodotto l'esito da “lorsignori” auspicato. Le masse popolari e le forze progressive hanno resistito e hanno vinto. È un passaggio storico che apre una prospettiva inedita, segnata dalle masse.

3. La “sinistra” si ri-appropria della sua “parola”. La vittoria del NO segna infatti uno spartiacque chiaro: intanto tra europeismo democratico ed anti-europeismo demagogico (non si votava contro l'Unione Europea e contro l'Euro) e quindi più profondamente tra la sinistra della democrazia, della solidarietà tra i popoli e della giustizia sociale in Europa e la destra del razzismo, della divisione tra i popoli e dell'egoismo individuale. È evidente la differenza tra chi ha condiviso, sin dall'inizio, la battaglia di Syriza in Grecia (e, domani, di Podemos in Spagna) e chi ha cercato solo di trarne beneficio nella politichetta nazionale. Contro le destre e le socialdemocrazie, rinasce la Sinistra.

4. Il mondo è molto più ampio del suo margine europeo. Dal primo momento, e a maggior ragione nel corso delle trattative, Syriza ha aperto porte e finestre ad un europeismo ed un internazionalismo di tipo nuovo: rifiutando le imposizioni della Trojka, ripudiando le sanzioni europee contro la Russia, aprendo un dialogo inedito con la Russia e la Cina, ridando freschezza e spessore alla parola “Mediterraneo”, dialogando con Venezuela e LatinAmerica, ispiratori di progresso e giustizia sociale.

5. Eppoi Tsipras è un “ragazzo di Genova”, si è venuto formando, politicamente, come tanti di noi, anche con il movimento dei Social Forum e l'altermondialismo, rappresenta per la mia generazione la conquista del campo della politica delle istanze della trasformazione. Siamo come ad un nuovo inizio.