giovedì 26 settembre 2019

L’assurda risoluzione

Unter-den-Linden, Berlin, 3 June 1945
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La sintesi perfetta di ignoranza e propaganda. Questo è ciò che rappresenta quella, al tempo stesso incredibile e vergognosa, Risoluzione del Parlamento Europeo del 19 Settembre scorso sulla importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa, nome in codice Risoluzione 2819 del 2019, nome esteso, con vago ed inquietante tratto orwelliano, «Importanza della Memoria Europea per il Futuro dell’Europa». 

Letta con occhi liberi da retro-sguardi e pregiudizi, si potrebbe dire in una battuta, «nulla si salva»: non c’è praticamente nulla di condivisibile, né dal punto di vista politico, né dal punto di vista storico, nel lungo dettato della risoluzione, tanto è denso l’impasto, appunto, di ignoranza e di propaganda, di cui il testo è farcito. Nel senso letterale del termine: ignoranza, nel senso della completa incomprensione o falsificazione dei dati storici e della più avvertita storiografia sui temi di cui la risoluzione pretende (o finge) di trattare; propaganda, nel senso della palese strumentalizzazione politica che attraverso tale risoluzione si intende istituire, allo scopo di rendere una certa contro-narrazione funzionale ad un preciso disegno egemonico. 

Già discutibile il primo rigo della risoluzione, che parla della «Unione Europea in quanto comunità basata su valori comuni». Scientificamente superata la tesi, contenuta al punto A, della «occupazione di taluni paesi europei per molti decenni a venire» dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Un errore da penna rossa e doppia sottolineatura, considerare, come si fa al punto B, il cosiddetto «patto Molotov-Ribbentrop» come ciò che «ha spianato la strada allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale». Sorprendente parlare, al punto C, di «guerra di aggressione contro la Finlandia» da parte dell’Unione Sovietica dell’epoca. 

Dire, al punto D, che i Paesi dell’Europa centro-orientale, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, siano stati «privati della libertà, della sovranità, della dignità, dei diritti umani e dello sviluppo socio-economico» è, dati e cifre alla mano, una enormità. Chiedere, al punto E, di «condurre indagini giudiziarie in relazione ai crimini dello stalinismo», fa persino sorridere. E si potrebbe continuare, praticamente per ciascuno di tutti i punti successivi, fino ad arrivare, in questo vero e proprio delirio di anti-comunismo, all’obiettivo vero della risoluzione: la «condanna [di] tutte le manifestazioni e la diffusione di ideologie totalitarie, come il nazismo e lo stalinismo» nell’Unione Europea. 

Cioè, detto in altri termini, il tentativo surrettizio e anti-storico di giungere a stabilire una verità ufficiale, questa sì del tutto abusiva, per l’Unione Europea, una pseudo-verità ufficiale che stabilisca che fascismo e comunismo pari sono, che gli “opposti totalitarismi” sono perfettamente equiparabili, che entrambi sono responsabili dell’orrore della Seconda Guerra Mondiale, che il comunismo è un crimine e che i comunisti e le comuniste sono criminali.  

Conforta il fatto che, come tante prese di posizione del Parlamento Europeo, anche questa è prevedibilmente destinata a rimanere carta fluttuante. Preoccupa invece il fatto che questa risoluzione registri una tendenza e sancisca un clima, un orientamento politico generale, assai diffuso tra le odierne classi dominanti dei Paesi membri dell’Unione Europea, violentemente anti-comunista, ferocemente contrario alle istanze di libertà, di giustizia, di piena auto-determinazione e dignità dei popoli, alle istanze, ovviamente e conseguentemente, di lotta all’ingiustizia e allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. 

E fa riflettere il fatto che ancora queste classi dominanti abbiano così intimamente paura dell’ideale e del programma di liberazione e di emancipazione che il comunismo incarna; e siano, al tempo stesso, così strategicamente timorose di ciò che si muove ad Oriente da utilizzare persino tali contorsioni linguistiche e storiografiche, magari per assestare un colpo alla Russia o blandire le classi dirigenti post-comuniste e anti-comuniste dei Paesi centro-orientali dell’Unione Europea. Un colpo, peraltro, sghembo e maldestro.

Si diceva, cifre alla mano. Ma anche «parole come pietre». Come quelle di Primo Levi: «I lager tedeschi costituiscono qualcosa di unico nella pur sanguinosa storia dell’umanità: all’antico scopo di eliminare e terrificare gli avversari politici, affiancavano uno scopo moderno e mostruoso, quello di cancellare dal mondo interi popoli e culture». Concludendo con Ernest Hemingway: «Ogni essere umano che ami la libertà deve più ringraziamenti all’Armata Rossa di quanti ne possa pronunciare in tutta la sua vita». 

martedì 24 settembre 2019

Elezioni in Israele: fine dell’era Netanyahu?

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Dunque ci siamo. Con il 98% (rilevazione odierna, al 20 settembre) delle schede scrutinate, l’aggregazione politica denominata Kahol Lavan (Blu Bianco), che aveva indicato alla carica di primo ministro Benny Gantz, pur perdendo, in proiezione, due seggi, rispetto al risultato della precedente tornata dell’aprile scorso, si afferma come primo partito alle elezioni politiche in Israele (33 seggi previsti), candidandosi seriamente ad esprimere la guida della maggioranza che dovrà esprimere il nuovo governo israeliano. Più indietro il Likud di Benjamin Netanyahu, che non solo perde di più in termini di seggi, ma viene superato da Kahol Lavan, attestandosi a 31 seggi previsti. 

È questo, il primo dato, in termini assoluti, delle elezioni politiche che si sono tenute in Israele lo scorso 17 settembre: Kahol Lavan ha raggiunto il 25,6%, il Likud si è fermato al 25% e, considerando che il primo posto era la condizione necessaria per Netanyahu per riproporsi per un nuovo mandato alla guida del Paese e che intanto era confluita nelle sue liste anche la formazione denominata Kulanu di Moshe Kahlon, si può dire che, per la prima volta dopo anni, la sconfitta del Likud e di Netanyahu è stata netta. Al punto da far dire a molti osservatori che l’era Netanyahu è finita. 

Il panorama politico che emerge da queste elezioni riserva però anche altri dati interessanti: se, da un parte, è vero che, viste le percentuali, su quattro elettori israeliani, uno ha votato per Kahol Lavan, uno per il Likud e gli altri due per una delle altre liste in campo, è altrettanto vero, d’altra parte, che questa ripartizione non è omogenea. È netta l’affermazione della «Lista Congiunta» con Hadash (il Fronte Democratico per la Pace e l’Uguaglianza, i comunisti israeliani), Balad, Ta’al e la Lista Araba, che conquista tre seggi in più, marca l’avanzata più netta rispetto ad aprile, e si afferma, coi suoi 13 seggi previsti, come terza forza del panorama politico israeliano, attestandosi ben al di sopra del 10%, soprattutto grazie ad una più intensa mobilitazione dell’elettorato democratico e ad una più significativa partecipazione al voto dell’elettorato arabo israeliano. 

È questo è il secondo dato: se per un verso, Ysrael Beiteinu, la formazione politica della destra di Avigdor Lieberman, supera il 7% e conquista, nelle previsioni, otto seggi, per altro i “vincitori” di questa tornata sono proprio le formazioni della «Lista Congiunta», che entrano, in maniera significativa, da protagonisti nel percorso di formazione della nuova Knesset. Guardando ancora a sinistra, i Laburisti, la storica espressione della socialdemocrazia israeliana, si attestano intorno al 5% con 6 seggi previsti, mentre la nuova formazione «Campo Democratico» (Meretz e Partito Democratico Israeliano con Stav Shaffir e Ehud Barak) supera il 4% con 5 seggi previsti. 

E tuttavia, lo spostamento complessivo a destra del quadro politico, uno dei frutti avvelenati del nazionalismo e delle politiche di destra alimentate e incoraggiate dal ciclo Netanyahu e della intensificazione e radicalizzazione delle politiche di occupazione dei Territori Palestinesi, è più che evidente: Israel Beiteinu sarà il probabile ago della bilancia nella formazione della nuova maggioranza (Lieberman  si è già dichiarato favorevole a un governo di «unità nazionale laica», senza partiti arabi e senza partiti ultra-ortodossi anti-sionisti); lo Shas (ultra-ortodossi sefarditi) si attesta su 9 seggi, l’Ebraismo Unito della Torah (ultra-ortodossi ashkenaziti) si attesta su 8 seggi, Yamina, la nuova formazione della destra estrema, formata da HaBayit HaYehudi (Casa Ebraica) e HaYamin HeHadash (Nuova Destra), che esplicitamente puntava ad aggregare consenso addirittura a destra del Likud, arriva sino a 7 seggi. 

Le prime “dichiarazioni a caldo” dei candidati lasciano intravvedere alcune mosse: all’intenzione di Netanyahu di guidare un governo di «unità nazionale sionista», si è rapidamente contrapposta la presa di posizione di Gantz che, rivendicando il primo posto in termini di voti assoluti e di seggi previsti, ha posto il tema di «un governo di ampia unità liberale». La prospettiva strategica, tuttavia, non sembra cambiare: né va dimenticato che Gantz, capo di stato maggiore delle forze di difesa israeliane (IDF) tra 2011 e 2015, è stato protagonista delle campagne militari contro i palestinesi a Gaza nel 2012 (“Pilastro di Difesa”) e nel 2014 (“Scudo Protettivo”). 

Domenica inizieranno le consultazioni: i Laburisti e Campo Democratico hanno già espresso l’intenzione di indicare Benny Gantz, altrettanto potrebbe fare Ysrael Beiteinu, la Lista Congiunta si esprimerà nelle prossime ore. Resta sullo sfondo la minaccia del “Piano Trump” e di un nuovo approccio coloniale contro il popolo palestinese: al di là del risultato elettorale, non ci sarà alcun orizzonte di vera democrazia e progresso in Israele senza la fine di ogni forma di occupazione e la piena auto-determinazione dei popoli, e della Palestina. 

Israele, 17 settembre: elezioni del tempo di guerra

Scheda elettorale del Partito Laburista israeliano  - "Emet"
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L’ultima in ordine di tempo sul panorama pre-elettorale israeliano è di pochi giorni fa, 26 Agosto, quando la Corte Suprema di Israele ha negato la candidatura di due esponenti dell’ultra-destra sionista, Benzi Gopstein e Baruch Marzel, figure note all’opinione pubblica israeliana. Si tratta di due candidati della formazione Otzma Yehudit (Potere Ebraico), formazione sionista suprematista, appartenente all’ultra-destra del panorama politico ebraico, non semplicemente per le sue posizioni nazionaliste (che, d’altra parte, caratterizzano anche altre formazioni della scena politica israeliana), ma soprattutto per il carattere radicale delle proprie rivendicazioni, che spaziano dalla richiesta di garantire il “carattere ebraico” dello Stato di Israele alla richiesta di una vera e propria espulsione di massa di (veri o presunti) nemici d’Israele, passando per la richiesta, cui purtroppo non si associa solo la loro voce, di rivendicare l’annessione integrale della Cisgiordania, dove vivono più di 2.5 milioni di palestinesi. Tanto per celebrare qualche riferimento storico, l’odierno Otzma Yehudit è l’erede della storica Kach, bandita nel 1994, le cui posizioni ultra-radicali erano ben rappresentate dal loro parossistico rifiuto della democrazia (considerata concezione occidentale contraria alla Halakhah, la legge religiosa ebraica) e dalla loro visione fondamentalista di «stato religioso» (Israele non sarebbe dovuto essere altro che uno stato teocratico fondato sulla Halakhah). 

In Israele, dunque, si torna alle urne, fatto, peraltro, del tutto singolare nella sua storia: già lo scorso 9 aprile si sono tenute elezioni politiche e, al netto della sostanziale parità tra i due blocchi principali, la destra del Likud (che aveva candidato ancora Benjamin Netanyahu alla carica di primo ministro) e il «grande centro» di Blu Bianco - Kahol Lavan (aggregazione politica di recente formazione, con Benny Gantz candidato alla carica di primo ministro), che avevano entrambi conseguito poco più di un milione e cento mila voti, pari al 26% delle preferenze, corrispondenti a 35 seggi ciascuno sui 120 che compongono il parlamento unicamerale (la Knesset), si era riuscito a costituire in parlamento una maggioranza di destra, grazie al buon risultato delle altre formazioni politiche della destra israeliana, sia laiche, come Ysrael Beiteinu, sia religiose, come lo «Shas» (sefardita) e il «Giudaismo Unito della Torah» (askenazita). Ma la maggioranza, costituitasi in parlamento, non si è rivelata capace poi di vincere la sfida del governo, a causa delle contraddizioni esplose all’interno della destra israeliana, sia tra il Likud e gli alleati minori, sia tra i partiti laici e religiosi, sul tema assai divisivo dell’obbligo del servizio militare per gli Haredim, che ne sono attualmente esenti. È stato proprio Ysrael Beiteinu, d’altra parte, come ha ricordato Ronen Hoffman, professore di Scienze Politiche a Herzliya, a «non aderire al governo proposto da Netanyahu dopo le ultime elezioni, impuntandosi su alcune questioni legate al rapporto stato/religione (tra cui la proposta di legge sulla leva obbligatoria dei giovani Haredim, ultra-ortodossi)»; decisione delicatissima, in prospettiva, se si considera che, secondo altri dati, proprio gli Haredim potrebbero presto diventare il 20% della popolazione di Israele. 

Ciò che si muove «a destra» e «a sinistra» del quadro politico israeliano, di qui all’appuntamento elettorale del 17 settembre, non è insignificante e per la prima volta mette in discussione la centralità del Likud nel panorama politico israeliano e la fiducia di Netanyahu di essere confermato primo ministro. A destra, la cosiddetta Nuova Destra, che alle elezioni del 9 aprile non aveva raggiunto il quorum, si è unita a Casa Ebraica e a Unione Nazionale per formare il partito della «Destra Unita». A sinistra, la nascita del «Campo Democratico», che vede insieme il Meretz (sinistra sionista), il Partito Democratico Israeliano, da poco creato dall’ex primo ministro Ehud Barak e da Stav Shaffir, uscita dal Partito Laburista, potrebbe costituire un’alternativa a Blu Bianco, ma anche un possibile alleato, in una futura coalizione che provi a orientare al centro, contro il Likud, l’asse della politica israeliana. La novità è rappresentata da un nuovo progetto di «unità a sinistra», con la formazione della «Lista Congiunta», con Hadash (il Fronte Democratico per la Pace e l’Uguaglianza, i comunisti israeliani), Balad, Ta’al e la Lista Araba. Inutile ribadire che i sondaggi, tanto più dopo gli esiti del 9 aprile, lasciano il tempo che trovano; meno irrilevante richiamare lo sfondo su cui il voto si colloca e l’importanza di un’affermazione delle forze progressiste ed orientate alla pace: è appena di pochi giorni fa (1 Settembre) la dichiarazione di Netanyahu di volere «annettere ad Israele» l’intera Cisgiordania occupata. Il tutto, sullo sfondo della perdurante occupazione coloniale, alla luce della nuova, drammatica, escalation a Gaza, e alle viste del cosiddetto, assai poco promettente, «Piano Trump».

giovedì 5 settembre 2019

Il “giorno del giuramento”: una considerazione politica

Credit: Presidenza del Consiglio dei Ministri [CC BY 4.0]
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Il “giorno del giuramento” e la “lista dei ministri” sono sicuramente i temi del giorno, quelli che attirano l’attenzione dell’opinione pubblica ed innescano le sottolineature mediatiche. Tuttavia, se è vero che è presto per esprimere un giudizio sulla “trazione politica” del Conte bis, è possibile avanzare alcune osservazioni in prospettiva, sui dati disponibili, su quanto effettivamente e concretamente si conosce. Ovviamente, con una premessa, doverosa per chi si pone alla lettura delle cose politiche non con lo sguardo dell’osservatore o dell’analista, ma con il cimento di chi intende, anzitutto, conoscere per comprendere, e quindi riflettere per agire, contribuendo, nella misura ciascuno delle proprie possibilità, alla «trasformazione  dello stato di cose presente». 

Si diceva una volta di convergenze programmatiche e di equilibri più avanzati. Non c’è dubbio che, ad una planata sulla superficie della composizione del nuovo governo, rappresentano elementi positivi l’estromissione della Lega dalla “stanza dei bottoni” e l’argine opposto alla pretesa salviniana di “pieni poteri”: si può dire che, temporaneamente, la minaccia di una svolta autoritaria e perfino di una torsione potenzialmente anti-democratica, plebiscitaria, accentuatamente «sovranista», sia stata sventata. Non del tutto sventato, invece, il precipizio del «diciannovismo» che è il vero rischio di fronte al quale è posto, in questa congiuntura politica, il Paese: il rischio, cioè, che dalla crisi e dalla “contundente fragilità” del quadro politico si esca con una ulteriore svolta a destra, pericolosa non solo per gli equilibri democratici, ma per la stessa agibilità delle lotte e del conflitto sociale, per gli spazi di tutela e i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, delle masse popolari. 

E per contrastare queste tendenze, non basta un governo o una mera “riconfigurazione” del quadro politico e degli equilibri parlamentari: è necessaria una mobilitazione democratica e una iniziativa sociale radicale, avanzata, progressiva, che non solo guardi alla “difesa della democrazia” ma che soprattutto si batta per “ampliare la democrazia”, aumentare gli spazi democratici, ri-orientare in senso progressivo la democrazia costituzionale. È il primo terreno, non l’unico, su cui “incalzare” il Conte bis, cui affiancare la consapevolezza, e questo è il secondo terreno, che non solo non si tratta di un “governo amico” ma che i contenuti fondamentali su cui intende esercitare la sua azione ne delineano un profilo sostanzialmente moderato, su cui esercitare, come pure si è detto da parte delle forze della sinistra di alternativa, opposizione sociale ed opposizione politica. 

Se ne trova ampiamente traccia, per restare a ciò che è puntualmente documentabile, nelle cosiddette “Linee di Indirizzo Programmatico per la formazione del nuovo governo”, quelle in 25 punti, a parte il 26° dedicato a Roma, licenziate lo scorso 3 settembre. Anzitutto (in passato si sarebbe detto un vero e proprio “Preambolo”) si legge che (§ 1) «sarà perseguita una politica economica espansiva, senza compromettere l’equilibrio di finanza pubblica» rilanciando la strategia (§ 9) dei «margini di flessibilità» da concordare con la nuova Commissione Europea: nulla di nuovo, si direbbe, alla luce di quello che anche tutti (tutti) i governi precedenti (Renzi, Gentiloni, il “vecchio” Conte) hanno fatto (o provato a fare), salva la considerazione per cui non è con simili “ritocchi” o “aggiustamenti” che si può davvero garantire una autentica politica espansiva e piani di investimento di portata strategica per le infrastrutture necessarie e per lo Stato Sociale. 

Inoltre, i progetti più controversi e pericolosi (addirittura vere e proprie bandiere del «sovranismo» in versione salviniana), vale a dire i cosiddetti “Decreti Sicurezza”, la «disciplina in materia di sicurezza», non saranno abrogati, ma semplicemente «aggiornata seguendo le recenti osservazioni formulate dal Presidente della Repubblica» (§ 15). Rischia, perfino, di aprirsi una nuova stagione di grandi riforme costituzionali, con il potenziale slittamento verso una vera e propria “legislatura costituente”, laddove si propone «la riduzione del numero dei parlamentari avviando, contestualmente, un percorso per incrementare le garanzie costituzionali, di rappresentanza democratica, assicurando il pluralismo politico e territoriale» (§ 10). E, come se non bastasse, si continua a mettere mano alla disarticolazione dell’unità materiale della Repubblica, non nel senso formale della sua unità repubblicana, ma nel senso sostanziale dell’universalità e dell’unitarietà dei diritti e delle protezioni sociali, ribadendo che «è necessario completare il processo di autonomia differenziata» e tornando sulla annosa questione della soppressione degli «enti inutili» (§ 17). 

Al di là della lista dei ministri e di questa specie di “albo delle figurine”, dei volti e dei nomi, e fatta salva come sempre la rispettabilità e il prestigio di questo e di quello, non è davvero questione di nomi, ma di sostanza, sostanza politica: di fronte alla quale, per le forze progressiste, si staglia il compito della opposizione, e, in prospettiva, in maniera unitaria e credibile, efficace, la proposta dell’alternativa.