sabato 9 aprile 2016

Elezioni 2016: il banco di prova per la Sinistra Italiana

Parte 2: 
la sinistra di progresso e il ruolo dei comunisti

Mettiamo a raffronto le parole e i fatti:

proviamo a verificare la consistenza degli enunciati e misuriamo la credibilità delle proposte su un banco di prova tutto politico, il passaggio complesso delle prossime elezioni amministrative. Un vero e proprio banco di prova per la sinistra in Italia: per le dimensioni (saranno chiamati alle urne i/le cittadini/e di oltre 1300 comuni, con 25 capoluoghi, tra cui: Torino, Milano, Bolzano, Trieste, Savona, Bologna, Ravenna, Rimini, Roma, Caserta, Napoli, Salerno, Cosenza, Cagliari, per un totale di circa 13 milioni di elettori); per la portata (al giro di boa della legislatura, al turno di svolta del governo e alla vigilia del referendum costituzionale che sarà cartina di tornasole della tenuta del disegno renziano); e per la prospettiva (la definizione di un campo della sinistra e la costruzione di una sinistra unitaria non riducibile al centro-sinistra, volutamente con il trattino, in alternativa al PD e al progetto neo-riformista di Matteo Renzi).
Se il PD, come si è provato a delineare in altro contesto, è la forma attuale, storicamente determinata, del riformismo italiano, ormai lontano dalla tradizione laburista e socialdemocratica novecentesca, semmai affine agli odierni riformismi europei a forte ispirazione liberale, la questione che si impone è quella della definizione di un profilo e della affermazione di una autonomia della “sinistra a sinistra” del PD. Molto enunciata, talvolta praticata, la questione della autonomia politica della sinistra non-riformista è, purtroppo, disattesa proprio laddove sarebbe stato più necessario praticarla e forse, persino, più semplice organizzarla.
A Milano, uno schieramento civico “di sinistra”, tra cui SEL, movimento arancione, movimenti verdi, in via ufficiale e ad ampia maggioranza, sostiene Giuseppe Sala: “manager” o, come si diceva un tempo e con maggiore pregnanza, “capitano di industria”, prima in Pirelli poi in Telecom, commissario monocratico di EXPO, dove ha lasciato una scia di polemiche, dalla vicenda degli stage di lavoro non retribuito a quella di un presunto "rosso" di bilancio denunciato dalla stampa ma smentito dal diretto interessato, passando per l'esperienza di city manager milanese in quota centrodestra, con quella che non pochi reputano la peggiore giunta municipale, insieme con quella di Gabriele Albertini, che la città abbia avuto nella sua storia, vale a dire quella di Letizia Moratti.
A Roma, SEL è costretta a smentire l'intenzione di una sua frazione di dare corpo ad una lista di “sinistra del centro-sinistra” a sostegno di Giachetti; mentre altre parti del partito denunciano i limiti della candidatura di Fassina perché “troppo connotata” e “poco inclusiva”. D'altro canto, avere assegnato priorità all'ampliamento del campo di consenso elettorale piuttosto che alla precisazione del profilo politico, ha condannato l'intera sinistra romana ad una sorta di moto perpetuo, un continuo andirivieni tra nomi noti e meno noti al grande pubblico (Fassina, Marino, Bray), con l'unico effetto di logorare persino questo percorso. A Napoli, a riprova della complessità del quadro, è proprio l'aggregazione che muove intorno a Fassina a rompere il percorso unitario della sinistra a sostegno della ricandidatura del sindaco uscente Luigi De Magistris.
Se il terreno della “unità” era dunque già perso in partenza, per lo meno a partire dalla disattenta regia politica e dalle sorprendenti modalità di partecipazione alle primarie del centro-sinistra milanese, il terreno della “autonomia” ugualmente fatica a prendere corpo e, purtroppo e sorprendentemente, fa più fatica proprio laddove sarebbe più facile intraprendere questa strada e cioè nei comuni laddove la composizione elettorale è la rappresentazione plastica del progetto renziano; ovvero, detto in altri termini, laddove sarebbe stato maggiore sia lo spazio sia la praticabilità di un'opzione di sinistra, al contempo, popolare e combattiva: vale a dire a Milano, con Sala, dove la lista arancione e la maggioranza di SEL si ridurranno ancora a fare la “sinistra di (questo) centro-sinistra” e a Roma, con Giachetti, dove l'evocazione continua della rinascita del “centrosinistra” - stavolta senza trattino e perfino in accezione ulivista - minaccia di logorare le candidature a sinistra.
E se a Torino la vicenda politica della giunta uscente e il profilo politico della candidatura renziana, unite alla riconoscibilità della candidatura di sinistra con Giorgio Airaudo, hanno consentito la costruzione di un percorso efficacemente autonomo ed unitario a sinistra, le cose non vanno di conserva negli altri comuni maggiori al voto: a Trieste, SEL conferma la propria collocazione dentro il centrosinistra, a differenza di Rifondazione Comunista che se ne colloca, anche polemicamente, al di fuori; a Bologna, la sinistra si è letteralmente frammentata, con una parte che seguirà una lista civica ispirata da Amelia Frascaroli, assessore al welfare, a sostegno di Merola, un'altra che ha dato vita alla “Coalizione Civica” che, in una propria consultazione interna, ha indicato in Federico Martelloni il proprio candidato sindaco, e un'altra ancora, quella che fa riferimento a Rifondazione Comunista, orientata invece a “uscire da sinistra” dalla Coalizione stessa, con una scelta che altre parti dello stesso partito hanno comprensibilmente stigmatizzato come minoritaria e suicida; infine, a Cagliari, si ripete, a parti invertite, l'esperienza di Trieste, dove la sinistra, in via maggioritaria, esprime il proprio appoggio al sindaco uscente, Massimo Zedda, che governa con il PD pur non essendone espressione e per la cui campagna il PD intende “aprire al centro”, replicando così uno schema neo-centrista.
In questo scenario, un “partito” nuovo, forse persino un partito “di tipo nuovo”, proprio nel cimento tortuoso di questa fase politica, intende muovere le prime mosse e, pressoché inevitabilmente, si viene, politicamente e programmaticamente, componendo, al di là delle intenzioni e dei proclami. Da una parte, Sinistra Italiana nasce con l'intento dichiarato di dare corpo ad una nuova aggregazione politica a sinistra, unificare le soggettività politiche e sociali genericamente collocate “a sinistra del PD”, formare, più sulla base della volontà politica dei proponenti che sulla spinta di una reale mobilitazione sociale, “un partito” della sinistra, aperto, plurale, popolare. Dall'altra, sebbene dichiari l'esigenza - alternativamente - del “mescolamento” e della “rigenerazione” delle diverse biografie, storie e culture politiche di provenienza, Sinistra Italiana si muove, alla prova dei fatti e alla luce dei riscontri, più come un “aggregatore” che come un “partito”, incerto nella declinazione tanto della “unitarietà” quanto della “autonomia”, disorientato nella regia generale della sua “politica delle alleanze”, ambivalente nella sua opposizione o alterità al “centrosinistra” anziché al “centro-sinistra”, piuttosto che al PD di Renzi anziché alla intera vicenda, riformistica e moderata, della “grande transizione” dai DS (e DL) al PD di cui, come si è visto, Renzi non è epifenomeno, ma organico prosecutore.
Com'è vero che lo scorcio di questa tornata amministrativa mostra plastica ed evidente continuità con il disegno renziano, sia per gli uomini e le donne nei quali si incarna, sia per il carattere e il profilo dei programmi nei quali si traduce, è altrettanto vero che in questo scorcio si coglie una ennesima conferma del carattere palesemente neo-riformista del disegno renziano e di questo centro-sinistra. Si tratta di un disegno diverso dal centrosinistra storico che l'Italia ha conosciuto negli anni Novanta del secolo scorso («l’Ulivo fu un progetto di centrosinistra nitidamente alternativo al centrodestra, l’opposto del “Partito della Nazione”; esso era animato da una tensione inclusiva verso il centro ma anche verso sinistra; i suoi leader si sono caratterizzati per spirito unitario e non divisivo; gli slogan elettorali suonavano così «l’Ulivo una forza che unisce», «il Centrosinistra per unire il Paese»; una tale tensione si doveva esprimere anche e soprattutto in un rapporto positivo con le forze sociali, come si conviene ai partiti socialisti e laburisti un po’ dovunque»). Ma, al tempo stesso, anche un “riformismo dall'alto” in un'epoca segnata da una democrazia post-costituzionale (con «Renzi, che si ispira a una democrazia governante, e un PD quale partito a vocazione maggioritaria»). La recente intervista di Franco Monaco sul Manifesto (19 marzo 2016) fa chiarezza proprio su questo punto.
Può, tutto questo, offrire indicazioni sulla natura e sulla traiettoria della composizione della sinistra e, più complessivamente, dell'articolazione politica della sinistra, che è necessaria e di cui si ha bisogno in questo Paese? Molto più di quanto possa sembrare. Chiarisce la riedizione, nell'Italia di oggi, dell'esistenza di due sinistre, l'una, riformista o neo-riformista, saldamente ancorata al PD (questo PD) sia nella sua declinazione interna sia nella sua variante di “sinistra esterna” e, l'altra, alternativa e rivoluzionaria, sebbene ancora frammentata e marginale sulla scena pubblica. Postula l'esigenza della determinazione di un nuovo blocco sociale e storico, non nei termini della riformistica “alleanza tra i produttori”, bensì in quelli dell'unità sociale e della unificazione politica dei soggetti produttori di valore, lavoratori salariati e intellettuali trasformativi. Dal palco di “Cosmopolitica!” (19-21 febbraio 2016) si è detto chiaramente che Sinistra Italiana non sarà un partito e non potrà definire un mandato ed esprimere una linea sino al suo congresso fondativo di dicembre. È vero ed è giusto. È facile prevedere, tuttavia, che i fatti della politica siano più forti della retorica delle enunciazioni e la vicenda elettorale del 2016 segnerà, in maniera significativa, se non decisiva, le sue sorti.

Approfondimenti online:

Un interessante approfondimento sulla vicenda della sinistra a Milano a cura di Gad Lerner;
Una ricostruzione sulla vicenda complessa della sinistra a Bologna a cura di Davide Turrini;
La lettura di Daniela Preziosi, in particolare sulla vicenda romana, tra Milano e Roma;
F. Monaco, “Sulla scissione del PD do' ragione a D'Alema”, Il Fatto, 15 marzo 2016 (in Gad Lerner)
Su “cantolibre”, il reportage su Sinistra Italiana e il ciclo dal titolo “Non gliela diamo”
 

mercoledì 6 aprile 2016

Elezioni 2016: il banco di prova per la Sinistra Italiana

Parte 1: 
il PD e il riformismo del XXI secolo

(pubblicato con modifiche in: lefrivista.it)

Esiste una enunciazione diffusa, particolarmente in voga “a sinistra”, che vede nel progetto renziano la forma della compiuta degenerazione del PD, una deriva rispetto alla sua originale vocazione e alla sua naturale ispirazione, vale a dire quella di “unire i riformismi e le forze popolari di questo Paese”, portando a sintesi l'esperienza post-comunista di tradizione laburista e l'esperienza post-democristiana di tradizione cattolico-solidaristica. Non c'è, in politica, oggi, in Italia, nulla di più falso e, non a caso, l'argomento sembra andare per la maggiore negli ambienti della sinistra riformista interna al PD e, in qualche caso, della sinistra PD in uscita o già uscita dal PD. È la manifestazione di una “falsa coscienza”, peraltro vagamente auto-assolutoria.
È una tesi “sghemba”, che dimentica i contenuti del congresso del PDS del 1997, quello tutto giocato lungo l'asse della modernizzazione della sinistra e della critica alla tradizione laburista ed alla sua concretizzazione sindacale, quella per cui «stimoli e critiche nascono dalla preoccupazione che il sindacato e la sinistra non sappiano al meglio rappresentare il mondo dei lavoratori e anche di quelli che un lavoro non ce l’hanno», come dalla relazione conclusiva dell'allora segretario Massimo D'Alema. Oblitera, senza dubbio, la relazione di Walter Veltroni al Lingotto, quella del congresso dei DS del 2000, che rimarcava il proprio compito prioritario nel fare diventare «il riformismo maggioritario» e addirittura assumeva in sé l'intera griglia politica del liberalismo, rimarcando che «del liberalismo democratico abbiamo fatto nostra, in modo irreversibile, la cultura dei diritti umani, il valore universale della democrazia, la centralità del tema della libertà, la considerazione dell'individuo, il valore dell'inclusione, l'accettazione senza riserve dell'economia di mercato, la valutazione positiva della competizione insieme all'importanza delle regole, delle procedure, delle forme».
E rimuove, infine, quel vero e proprio “decalogo del riformismo italiano”, incarnato dai DS, che fu tracciato nel successivo congresso, stavolta a Roma, sotto la segreteria di Piero Fassino, nel 2005, per cui «riformismo è cultura di governo, è pragmatismo in luogo di ideologismo, è riconoscimento dei meriti accanto al rifiuto dell'ingiustizia, è, soprattutto, senso di responsabilità istituzionale quando si è alla guida del Paese come quando si è all'opposizione. Ma non è, non è mai stato e non può essere l'equidistanza geometrica tra destra e sinistra, l'incapacità di esprimere giudizi netti, il rifiuto di testimoniare altri valori e altri principi». Perfino assumendo, in queste tesi, un punto di vista esplicitamente liberal-socialista, quello della “alleanza del merito con il bisogno”, che era stato annunciato da Claudio Martelli alla conferenza socialista di Rimini del 1982. Non si faticherà, allora, a riscontrare, alla luce di questa sia pur sommaria ricapitolazione, analogie e continuità con quanto dichiarato dall'ultimo segretario, Matteo Renzi, dell'ultima trasfigurazione politica di quella stagione, il PD, nella sua relazione politica ai gruppi parlamentari (3 novembre 2015), per cui: «io sostengo che la vocazione della sinistra riformista è, come avrebbe detto il grande statista svedese, combattere la povertà e non la ricchezza. La sinistra ideologica non vincerà, mai. Al massimo aiuta la destra a vincere».
Come ha ribadito Leonardo Scimmi, in un suo recente commento significativamente intitolato “Il riformismo socialista: da Marx a Bernstein fino a Matteo Renzi?”, pubblicato su “L'Avanti” del 1° agosto 2014: «La sinistra deve indicare la via per il progresso e non cadere nella trappola dell’odio di classe che può aver presa su un elettorato ignorante come erano i contadini russi della rivoluzione bolscevica, ma che mal si adatta alla società italiana di oggi dove, seppur poveri o precari, i cittadini sono per lo più educati e scolarizzati e si aspettano qualcosa di più sofisticato che una mera presa della Bastiglia». Più chiari davvero non si potrebbe.
Come ha riferito il Ministro del Lavoro del governo Renzi, in una sua recente intervista al “Corriere della Sera” (16 marzo 2016), la portata ideologica e la gittata strategica del progetto renziano si misurano nella ridefinizione dei termini stessi della sinistra politica in una chiave tendenzialmente post-socialdemocratica e neo-riformistica; in altri termini, il progetto renziano punta ad incarnare, della categoria stessa della sinistra, la sua versione riformistica, secondo una interpretazione coerente con il “governo capitalistico della crisi” e una dinamica caratterizzata dalla forte accelerazione delle misure decisionali. Un riformismo dall'altro, come si era già visto più volte nell'Europa continentale, come viceversa non si era mai visto nella storia d'Italia.
La natura sociale di questo disegno è volutamente, perfino ostentatamente, interclassista; il blocco sociale su cui si basa ed a cui fa riferimento è composto da una nuova alleanza dei produttori, soprattutto i lavoratori dei settori innovativi, il ceto medio intellettuale e professionale, e l'imprenditoria dinamica, quella frazione della borghesia capitalistica più incline all'investimento innovativo e più aperta alla competizione inter-nazionale. L'alleanza dei produttori è il terreno naturale su cui il progetto gioca le sue carte: come ricorda lo stesso ministro Giuliano Poletti infatti: «non vogliamo un assistenzialismo universale, vogliamo un sostegno al reddito affiancato da una rete territoriale che comprenda Regioni, Comuni, Volontariato, e non [...] una semplice elemosina. Il cittadino non dipende dal sussidio: prende un impegno [...] con i contribuenti: deve mandare i bambini a scuola, deve impegnarsi in un percorso di formazione e, se gli offrono un lavoro, lo deve fare. [...] Dove non arriva lo Stato perché non ha i soldi, dove non arriva il mercato perché non ci guadagna, arriverà il Terzo Settore; [...] non sarà più l'appendice della buona volontà ma il vero motore del sistema».
Non a caso, coerentemente con queste coordinate, il progetto renziano supera il principio della unitarietà, della universalità e del carattere pubblico e statale dell'intero welfare system e ne propone una radicale re-interpretazione in chiave di compartecipazione pubblico-privato, che, al tempo stesso, ne riduca la portata universalistica, ne ri-orienti le priorità sulle fasce prioritarie di bisogno e sui servizi minimi essenziali e ne ri-definisca gli attori in termini di regia pubblica e organizzazione privata: «nessuno aveva mai pensato ad un piano universale per la lotta alla povertà, nessuno aveva mai fatto l'alternanza scuola-lavoro, nessuno aveva mai dato valore così profondo all'associazionismo, al volontariato, alla società civile. Ora abbattiamo le tasse sul salario di produttività e le eliminiamo sul welfare aziendale: se l'azienda dà al lavoratore un voucher per l'asilo nido, lo Stato non prende un centesimo, ma risparmia perché il suo impegno si alleggerisce. [...] Nascerà un Programma Erasmus del Servizio Civile, che si potrà fare anche all'estero: ogni lo svolgono 50 mila giovani all'anno; devono diventare almeno 100 mila. La povertà da sconfiggere non è solo economica ma educativa: i primi 150 milioni da investire arrivano dall'accordo siglato con le fondazioni bancarie».
Detto in sintesi: il progetto renziano oggi è la più completa e compiuta espressione della ragione fondativa e del profilo fondamentale del PD stesso, incarna nella maniera più tesa ed esauriente la natura del riformismo italiano nel contesto del riformismo europeo e costituisce la declinazione odierna, attuale e pertinente, della socialdemocrazia, non molto dissimile, peraltro, tra Roma, Parigi e Bruxelles. Di questo progetto, peraltro, i vincitori delle primarie del centro-sinistra per le elezioni amministrative, nella maggiori città, sono piena e coerente espressione: basterebbero, siano passati o meno per le primarie, i nomi di Fassino a Torino, di Sala a Milano, di Merola a Bologna, di Giachetti a Roma e della Valente a Napoli, per confermarlo: una schiera di candidati renziani, d'origine o convertiti. Né vale tanto, misurata su questo banco di prova, la pretesa della cosiddetta autonomia territoriale: non esiste un PD locale diverso da un PD nazionale, esiste viceversa una base diffusa del PD che non sempre si riconosce nella linea e nella pratica politica della maggioranza renziana. Ma questo è un altro discorso e chiama in causa, semmai, la responsabilità dell' “altra” sinistra, quella che per ora definiremmo “non-riformistica”, a maturare un proprio profilo ed affermare una propria autonomia.


Approfondimenti online:

Sulla relazione D'Alema e il Congresso PDS del 1997;
Sulla documentazione inerente al Congresso Fondativo dei DS del 2000;
Sulla documentazione inerente al Congresso di Roma, dei DS, del 2005;
C. Martelli, “Per una alleanza riformista tra il merito e il bisogno”, Rimini, 1982;
Il discorso di M. Renzi ai gruppi parlamentari del 3 novembre 2015;
G. Poletti, “Il nostro governo il più a sinistra della storia”, Corriere della Sera, 16 marzo 2016.