giovedì 10 marzo 2022

Il Donbass, il Kosovo e le (apparenti) analogie

vasyatka1, dominio pubblico:
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Lo scenario di guerra in Ucraina, che ha fatto evocare perfino la prospettiva di una guerra per procura di lunga durata, portata avanti dalla NATO in chiave anti-russa, con l’obiettivo di fare impantanare la Russia tra Donetsk e Kiev, ha portato autorità politiche e osservatori internazionali a richiamare alcuni precedenti storici. Il primo, e più recente, è stato evocato perfino esplicitamente, e riguarda l’Afghanistan: le intrinseche difficoltà militari, di ordine tattico, relative a un’avanzata su tre vasti fronti, rispettivamente da Nord, lungo il fronte da Chernihiv a Kharkiv, su una direttrice di oltre 400 km, da Est, in corrispondenza del territorio delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e di Lugansk, nella regione storica del bacino minerario del Donbass, e da Sud, a partire dalla regione, resasi autonoma e federata alla Russia, della Crimea, su una direttrice di oltre 600 km da Mariupol a Odessa; come pure la qualità dei rifornimenti di armi, mezzi e attrezzature militari all’Ucraina da parte delle potenze della NATO, tra cui, in particolare, razzi anti-carro (RPG), sistemi portatili anti-aereo (Stinger), lanciagranate, mitragliatrici, fucili a pompa, adatti per i cosiddetti scenari “di contrasto”, vale a dire per la guerriglia diffusa e urbana, indicano chiaramente che una prospettiva strategica individuata dalla NATO in Ucraina è il c.d. «scenario Afghanistan», con cui costringere le forze militari russe a una campagna di lunga durata, insieme sfiancante e demoralizzante, dura e logorante dal punto di vista militare e, nel medio periodo, controversa e insostenibile sul piano politico.

Allargando la prospettiva dal quadro tattico alla cornice strategica, il riferimento all’Afghanistan non è il solo che possa essere portato a supporto. La campagna militare in corso, il conflitto armato in Ucraina, può essere letto non solo nei termini di un conflitto NATO-Russia in Ucraina, e quindi nel senso della guerra per procura di lunga durata, cui si è fatto sopra riferimento, ma anche nel senso di una guerra di riposizionamento strategico, nella quale particolarmente elevata risulta essere la posta in palio: la messa in discussione dell’attuale mappa politico-strategica dell’Europa e un ridisegno degli equilibri geopolitici e strategici nel Vecchio Continente, equilibri che, in questo frangente storico, alla vigilia dell’inaugurazione della campagna russa in Ucraina, risultano essere particolarmente (e pericolosamente, come si è visto dalle loro conseguenze) favorevoli agli Stati Uniti e sfavorevoli alla Russia. Basta guardare una mappa della presenza militare statunitense all’estero (una presenza colossale, con ben 686 basi in 74 Paesi del mondo e una presenza militare persino all’interno del territorio storico dell’Unione Sovietica, come in Armenia e in Georgia) ed una mappa della presenza militare russa al di fuori dei confini nazionali (in Armenia, Bielorussia, Kazakhstan, Kirghizistan, Tagikistan, in Transnistria, l’autoproclamata Repubblica di Pridnestrovie, e poi in Siria, in Egitto e in Vietnam) per avere un’idea, superficiale ma veritiera, del rapporto di forze, dello squilibrio dei fattori. Un impatto militare e un rapporto di forze tali da mettere in discussione le prospettive di pace del pianeta.

Gli Stati Uniti dispongono attualmente di 74 mila militari di stanza in Europa, di cui 36 mila in Germania e 12 mila in Italia, il che significa che quasi i due terzi degli effettivi statunitensi in Europa si concentrano in questi due Paesi, ciò derivando sia da ragioni di ordine storico (due Paesi usciti sconfitti dalla seconda guerra mondiale e sui quali si è costruita l’architrave strategica della presenza militare statunitense nel Vecchio Continente) sia da ragioni di ordine strategico (i due Paesi sovrintendono rispettivamente al versante orientale e al versante meridionale della proiezione offensiva dell’Alleanza Atlantica). A partire dal 2014, in particolare, con il golpe di Euromaidan e il cambiamento dell’assetto politico-istituzionale dell’Ucraina, la NATO ha costituito e consolidato, in maniera massiccia e insistente, una propria presenza armata sul versante orientale, fino a minacciare direttamente i confini occidentali della Russia: il vertice di Varsavia del 2016 ha portato alla costituzione di quattro gruppi tattici in Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia; dal 2015 è stata costituita anche una Divisione Multinazionale Sud Est in Romania, peraltro sotto la guida del Joint Force Command di Lago Patria, presso Napoli; dal 2017 i gruppi tattici sono alimentati da un totale di oltre 4.600 militari da più di 20 Paesi, in un quadro complessivo di oltre 40 mila soldati della c.d. «NATO Response Force».

Punta di diamante del dispiegamento della NATO in Europa, con proiezione a Est e a Sud, rispettivamente verso la Russia e la Cina e in direzione del «Mediterraneo vasto», la cosiddetta regione dell’Africa settentrionale e centrale, del Vicino Oriente e del Medio Oriente (MENA), quindi in corrispondenza dei versanti cruciali e degli antagonisti strategici dell’imperialismo nord-americano, è la sua presenza nei Balcani e, in particolare, in Kosovo. La «guerra celeste» della quale aveva giustamente parlato Pietro Ingrao all’epoca della guerra dai cieli e dell’aggressione della NATO alla Repubblica Federale di Jugoslavia del 1999, continua a dispiegare potentemente i propri effetti, se è vero che, tutt’oggi, le forze aeree della NATO sovrintendono allo spazio aereo di Albania, Montenegro e Macedonia del Nord e una presenza militare di interposizione della NATO, composta di oltre 3 mila effettivi, è di stanza in Kosovo nell’ambito dell’operazione multinazionale denominata KFOR. Sempre il Kosovo ospita la base statunitense di Camp Bondsteel, ritenuta da più parti, con i suoi quasi 4 kmq di estensione, la più grande base militare statunitense all’estero dai tempi della guerra del Vietnam; e un riferimento alla guerra del Kosovo è stato richiamato anche nel discorso di Putin del 24 febbraio, quando ha ricordato che «senza alcuna autorizzazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, hanno condotto una sanguinosa operazione militare contro Belgrado, utilizzando aerei e missili nel cuore dell’Europa. Diverse settimane di bombardamenti sulle città, sulle infrastrutture che sostengono la vita».

È interessante osservare come un passaggio in tal senso sia stato riportato anche dagli organi di stampa quando, illustrando alcuni contenuti dell’incontro del presidente russo con il cancelliere tedesco, è stato riferito che gli ucraini stanno compiendo «un genocidio» delle minoranze russe, la NATO non può allargarsi fin qui. Da altre parti, si ribadisce il principio di autodeterminazione dei popoli o si riporta che, come violazione fu l’intervento della NATO contro la Serbia con la motivazione (vera o presunta) della protezione della popolazione albanese del Kosovo, così violazione costituisce oggi l’intervento della Russia in Ucraina che, tra le motivazioni, ha anche la protezione dei civili russofoni in Donbass. A ben vedere, l’analogia regge solo a una lettura superficiale dei due scenari. Intanto, i contesti sociali, politici e istituzionali sono molto diversi al punto da suggerire, già solo per questo, a una lettura meno approssimativa, di non cedere alla tentazione di fuorvianti paragoni. Alla vigilia dell’aggressione della NATO contro la Repubblica Federale di Jugoslavia (Serbia e Montenegro), il Kosovo era una provincia della Serbia, abitata prevalentemente da albanesi, con una serie di altre comunità etniche non maggioritarie, tra le quali la più consistente era (ed è) quella dei serbi: dunque una provincia multietnica, con una forte maggioranza albanese, in uno Stato, quello serbo, pur esso con diverse componenti, ma in cui l’elemento serbo costituisce quello ampiamente maggioritario. Un contesto multietnico, che già aveva uno status di autonomia, ridotto sin dalla fine degli anni Ottanta e compromesso dalla recrudescenza del conflitto serbo-albanese della seconda metà degli anni Novanta, nel quadro territoriale della Serbia e nel contesto della sovranità della Jugoslavia dell’epoca.

L’aggressione della NATO del 1999, in violazione del diritto internazionale come da più parti ribadito, celebrata come «intervento umanitario» per proteggere la popolazione albanese kosovara, ha portato alla separazione di fatto del Kosovo, sebbene la sua indipendenza non sia riconosciuta dalla comunità internazionale e la risoluzione 1244 (1999), approvata alla fine della guerra e tuttora in vigore, riconosca il Kosovo nel quadro dell’integrità territoriale della Serbia. La risoluzione stessa, del resto, ingloba i cosiddetti principi di Bonn: la «immediata e verificabile fine della violenza e della repressione in Kosovo»; il «ritiro dal Kosovo delle forze militari, paramilitari e di polizia»; il «dispiegamento in Kosovo di efficaci presenze internazionali civili e di sicurezza ... ratificato e approvato dalle Nazioni Unite» e «capace di garantire il raggiungimento degli obiettivi comuni»; lo «stabilimento di un’amministrazione provvisoria per il Kosovo da decidere dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per assicurare le condizioni di una vita pacifica e normale per tutti gli abitanti del Kosovo»; il «ritorno libero e in sicurezza di tutti i profughi e gli sfollati e l’accesso senza ostacoli per l’assistenza e le organizzazioni umanitarie»; un processo politico verso lo stabilimento di un accordo che dia una cornice politica provvisoria per un sostanziale autogoverno per il Kosovo, tenendo pienamente in considerazione gli accordi di Rambouillet e i principi di sovranità e integrità territoriale della Repubblica Federale di Jugoslavia e degli altri Paesi della regione e la smilitarizzazione dell’UÇK [il c.d. «Esercito di Liberazione del Kosovo», la guerriglia separatista albanese kosovara per la quale è stato insediato nel 2015 un Tribunale Speciale all’Aja per giudicarne crimini di guerra e crimini contro l’umanità]»; infine, un «approccio complessivo allo sviluppo economico e alla stabilizzazione delle crisi nella regione».

Per quanto riguarda invece il Donbass, le due province di Donetsk e Lugansk sono abitate da popolazioni russofone, legate per tradizioni storiche e rapporti economici alla Russia; la loro autonomia è formalmente prevista negli Accordi di Minsk del 2014, firmati non solo da rappresentanti di Russia e Ucraina, ma anche delle repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk, e dall’OSCE (l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa); il riconoscimento delle due repubbliche autoproclamate da parte delle autorità russe è avvenuto appena lo scorso 21 febbraio, giusto alla vigilia dell’inaugurazione della campagna militare russa in Ucraina, intrapresa anche con la motivazione (vera o presunta) della difesa delle popolazioni di lingua russa delle due regioni e ufficialmente sollecitata proprio da una richiesta di supporto e protezione militare da parte delle autoproclamate repubbliche. Al di là dei sopra richiamati rapporti economici (e politici) e delle note tradizioni storiche (e culturali), esiste, peraltro, anche un legame di carattere formale: come ha ricordato la stampa internazionale, infatti, «sono oltre 720 mila i passaporti russi emessi nelle province separatiste di Donetsk e Lugansk dall’aprile 2019... Questi documenti sono stati rilasciati ai residenti con una procedura accelerata, ridotta ad un paio di mesi, e sono stati ottenuti da circa il 18% della popolazione del Donbass». Inoltre, non secondari sono i legami sociali e, non di rado, familiari; sempre tra le testimonianze raccolte, infatti, «I parenti (in Russia) ci dicono che Putin non ci abbandonerà e tutto andrà bene, ha dichiarato una pensionata del luogo. Molti vedono come un’opportunità i benefici collegati all’ottenimento del documento: viaggi in Russia, ad esempio, ma anche l’accesso all’assistenza sanitaria gratuita».

A questi aspetti si è fatto più volte riferimento nelle comunicazioni che hanno preceduto e accompagnato, e, dal punto di vista russo, sostenuto e legittimato, l’avvio della campagna militare in territorio ucraino. Gli Accordi di Minsk sono giunti infatti, come si è ricordato poc’anzi, nel 2014, a valle della conflittualità diffusa «a macchia di leopardo» e delle continuative aggressioni militari da parte di settori delle forze armate e di battaglioni militari ucraini contro le aree a prevalente popolazione russofona dell’Ucraina, in particolare, appunto, nel Sud e nell’Est del Paese. In questo senso, recuperando la traccia iniziale, sarebbe più pertinente considerare l’attuale iniziativa militare russa in Ucraina come ulteriore fase militare in un contesto di guerra più ampio e duraturo, che data appunto al 2014. La guerra ucraina, più di altre vicende recenti, rappresenta un formidabile esempio, da questa parte di quella che fu la «cortina di ferro», di narrazione ideologica, in cui i fatti vengono accuratamente selezionati, le motivazioni proditoriamente nascoste, persino lo scenario dei fatti e dei protagonisti ampiamente mistificato. Per questo è utile focalizzare alcuni elementi-chiave della vicenda nel suo complesso, in modo da consentire un ordine alla lettura degli eventi, e quindi precisazione dello scenario e accuratezza nella ricostruzione dei fatti.

L’Ucraina non è nuova a sollevazioni di piazza come quelle che l’hanno accompagnata nel corso dell’inverno 2013-2014 e che sono poi culminate nel febbraio 2014 con il colpo di stato di Euromaidan. Tra quelle la cui eco perdura nell’attualità, finendo persino per assurgere a paradigma dell’insurrezione per la “libertà” e la “democrazia”, la c.d. «rivoluzione arancione» (2004) di Jushenko e Tymoshenko portò alla ribalta un nuovo potere (neo-liberale e filo-atlantico) e si concluse negativamente, dal momento che la sostituzione delle oligarchie al potere non soddisfece le aspirazioni che pure aveva suscitato e non concorse ad alcun miglioramento effettivo del regime di democrazia e di libertà di cui pure si erano riempiti gli slogan e le bandiere. Il successivo ritorno al potere (2010), con Janukovich, della frazione antagonista della borghesia nazionale e delle oligarchie locali, con i propri interessi materiali e le proprie ricadute territoriali, avrebbe dovuto di per sé mettere, una volta per tutte, in chiaro la fragilità e la delicatezza degli equilibri di potere in Ucraina: che è, al tempo stesso, uno Stato limes, a crocevia tra Oriente e Occidente; uno Stato diviso, tra una parte occidentale - a maggioranza ucrainofona e storicamente vicina all’Europa Centrale - e una parte orientale russofona, storicamente legata alla Russia e ai suoi interessi; e uno Stato cuscinetto, non (ancora) aderente alla NATO e non (ancora) in condizione di completare il proprio percorso di adesione all’Unione euro-asiatica che invece vede già coinvolti altri Paesi ex sovietici, come Russia, Bielorussia e Kazakhstan, pur ospitando l’Ucraina, nella penisola di Crimea, una significativa presenza militare russa a Sebastopoli. Qui, in Crimea, subito dopo il golpe, la popolazione ha votato, nel referendum del 16 marzo 2014, con un’affluenza dell’84% e una percentuale a favore pari al 95%, per l’autonomia e la federazione alla Russia.

La stessa ricostruzione della insurrezione di Euromaidan svela la falsa coscienza dei circuiti occidentali legati all’Unione Europea e all’Alleanza Atlantica: è difficile leggere questa insurrezione, se non in specifiche sue parti iniziali, come una sollevazione per la libertà e la democrazia nel Paese, essendo stata scatenata dalla mancata conclusione di un accordo negoziale che avrebbe dovuto portare l’Ucraina ad aderire non a un semplice «Accordo di Associazione» con l’UE, bensì a un «Accordo Globale Strutturato di Libero Scambio», per la stipula del quale le cancellerie europee avevano imposto alle autorità ucraine la liberazione immediata di Yulija Tymoshenko, colei che era stata una delle protagoniste della «sollevazione arancione», poi salita al potere ed incriminata per corruzione, malversazione e abuso d’ufficio. Si intravedono dunque, sin dall’inizio, gli elementi che avrebbero determinato la precipitazione della crisi ucraina: le tensioni legate al suo avvicinamento all’UE e, soprattutto, alla NATO; lo scontro di potere interno con la questione etnolinguistica sullo sfondo e pronta ad esplodere (anche perché “economicamente strutturata”, dal momento che circa il 20% della produzione industriale del Paese è basato nell’Est russofono); le intromissioni interessate e le ingerenze esterne che avrebbero non solo configurato una grave violazione della sovranità ucraina ma anche un potente detonatore all’esplosione della successiva crisi.

In questa cornice, la «sollevazione di Maidan» assume ben presto i tratti di un vero e proprio «golpe di Euromaidan»: continui finanziamenti europei e occidentali per sostenere la lunga durata della sollevazione; continui interventi di personalità e funzionari europei e nord-americani per sobillare la protesta e, finanche, incalzare la caduta del governo legittimo; e, infine, la vera e propria organizzazione militare della protesta con fazioni e battaglioni dell’ultra-destra nazionalista e “banderista” (che si richiama apertamente alla figura di Stepan Bandera, criminale di guerra, collaborazionista della Germania nazista durante la seconda guerra mondiale e fautore di uno Stato ucraino indipendente dichiaratamente filonazista e hitleriano), con aperte simpatie naziste, a partire da “Svoboda” (la cui denominazione originaria era quella di Partito Nazionalsocialista di Ucraina) a organizzare l’assalto ai palazzi del potere. Il resto è cronaca: il parlamento sotto schiaffo dell’insurrezione; la messa in stato d’accusa e il rovesciamento del governo legittimo in carica; l’avvento al potere di una nuova élite, inquietante, un misto di neoliberismo e neofascismo in veste ucraina, nel cuore dell’Europa. L’assalto, il 2 Maggio 2014, alla Casa del Sindacato a Odessa, ad opera, con altri, di “Settore Destro”, altro gruppo neo-nazista, è forse la pagina più tragica di questo scenario. Non solo per il suo portato simbolico, nel pieno della crisi ucraina e dello svolgimento militare che ha interessato le regioni centro-orientali del Paese, a cavallo tra due “luoghi” particolarmente simbolici della storia di questo Paese e di tutte le realtà democratiche, quali il Primo Maggio della Festa dei Lavoratori e il 9 Maggio della Giornata della Vittoria, nella quale tutte le popolazioni ex-sovietiche celebrano la vittoria contro la barbarie nazista. Ma anche per il suo portato materiale, quello di una spietata caccia all’uomo, un «pogrom politico», culminato in un’aggressione brutale che ha messo a ferro e fuoco l’intero Palazzo dei Sindacati e colpiti a decine i democratici e gli antifascisti che vi si erano rifugiati, dando corso a una vera mattanza, indicatore della violenza che ha profondamente allignato fin dentro le stanze del potere a Kiev, sin dalla destituzione di Janukovich e prima delle successive elezioni presidenziali che avrebbero portato alla presa del potere di Poroshenko e Jatseniuk.

Non che la violenza, nell’Ucraina del dopo-Maidan, si esprima solo in termini politici e militari; essa si sviluppa in maniera altrettanto catastrofica e dolorosa sul terreno strutturale e culturale, come dimostrano l’apertura del governo post-Maidan, alle prese con il precipizio economico, l’inflazione galoppante e il crollo della valuta locale, ai piani di «aggiustamento strutturale» del Fondo Monetario Internazionale che minacciano di ripetere, in terra ucraina, gli esperimenti già compiuti in altri Paesi, portati al collasso materiale e al depauperamento sociale; e come attestano le ulteriori iniziative promosse dal governo golpista, dalla messa al bando del Partito Comunista di Ucraina alla proposta di porre fuorilegge, con un disegno di legge liberticida e maccartista su cui torneremo, la stessa “ideologia comunista”, nella propaganda e nei simboli, nella stampa e nelle effigi, nella sua divulgazione e nella sua diffusione. Tra le iniziative ultra-nazionaliste, promosse dal governo, vi sono state anche quelle di minacciare direttamente ogni istanza di autonomia proveniente dalle regioni orientali e, perfino, di bandire l’insegnamento e l’uso della lingua russa come lingua co-ufficiale sull’intero territorio nazionale e di cancellare i riferimenti alla storia e alla cultura russa. La famigerata Legge sulla lingua (Legge n. 5670-D), approvata il 25 aprile 2019, sottrae a tutte le lingue parlate che non siano l’ucraino, russo compreso, lo status di lingue regionali e limita pesantemente il loro utilizzo nella sfera pubblica a tutti i livelli. Come è stato ricordato, «nel testo, il russo non è mai nel documento, al contrario, per esempio, dell’inglese, nominato ben diciotto volte. Andrij Parubij, presidente della Rada, il Parlamento ucraino, definì la legge una «questione di sicurezza nazionale». Una legge che ha fatto percepire alla popolazione russofona l’intenzione deliberata del governo ucraino di attuare una politica di ucrainizzazione». È appena il caso di ricordare che si tratta dello stesso Andrij Parubij che, presidente del Parlamento ucraino tra il 2016 e il 2019, era stato nel 1991 tra i fondatori del Partito Nazionalsocialista di Ucraina, nel cui programma figurano, tra le altre, la segnalazione dell’appartenenza etnica e la messa al bando del comunismo.

Prima ancora delle ragioni geopolitiche, che determinano gli interessi russi e sono alla base dell’orientamento ufficiale russo nella vicenda ucraina, sono state anche queste minacce e aggressioni ai diritti e alla vita stessa, in particolare nei confronti delle popolazioni del Donbass, ad avere fatto, letteralmente, precipitare la situazione. La guerra, lunga e sanguinosa, che ha opposto per anni l’esercito lealista, espressione del governo golpista con le sue milizie ultra-nazionaliste, tra i cui i famigerati battaglioni Azov e altri gruppi paramilitari di feroce ispirazione neonazista, contro le milizie autonomiste, è stata una guerra perdurante e complessa proprio per questo sovrapporsi ed affastellarsi, sovente magmatico e contraddittorio, di ragioni e di interessi. Il tutto in uno scenario regionale nel quale, a fronte di un’ostilità politico-istituzionale tra Russia e Ucraina ormai polarizzata, ora sfociata in conflitto armato, i legami storici e culturali tra i due popoli, russo e ucraino, sono, per quanto nulla affatto lineari, di lunga durata. Il richiamo al passato ancestrale, ai legami storici, alle mitologie nazionali, com’è noto, rappresenta sempre un terreno instabile e scivoloso, dopo secoli di scambi e interazioni, relazioni e conflitti tra questi popoli, tali da rendere difficili, se non impossibili, nette e radicali «identificazioni nazionali». Non di meno, la definizione di una «immagine del nemico» (rappresentata dagli interessi russi e dal presidente russo) e la costruzione di un nuovo «discorso pubblico» per legittimare i rinnovati assetti di potere nell’Ucraina post-Maidan (con una connotazione nazionalista talmente radicale da accompagnarsi a un’inquietante legittimazione di contenuti e personalità di ispirazione nazista e a una feroce propensione antidemocratica e anticomunista, che, con la nuova legge sulla «decomunistizzazione» del 2015, ha portato all’abbattimento di 2380 monumenti e statue di epoca sovietica, 1320 statue in onore di Lenin, e a rinominare 987 centri abitati) giocano un ruolo di primissimo piano.

In questo contesto, tornando all’oggi, l’obiettivo strategico dell’iniziativa militare russa, stando alle dichiarazioni ufficiali, è quello della «smilitarizzazione» e della «denazificazione» dell’Ucraina, e ha direttamente a che vedere, quindi, con gli effetti del golpe di Euromaidan del 2014 e con la prospettata adesione del Paese alla NATO (sancita addirittura nella Costituzione ucraina sin dal 2019), più che con ambizioni territoriali o (vere o presunte) finalità umanitarie. In questo contesto, storico e politico, la prospettata adesione del Paese alla NATO (sancita dalla ratifica del Piano di Adesione dell’Ucraina in occasione del Vertice di Bucarest del 2008 e confermata dal Vertice di Bruxelles del 2021) non può mancare di suscitare reazioni e destare preoccupazioni. Né può mancare di destare inquietudine l’orientamento politico-ideologico di settori delle autorità ucraine post-Maidan, che ha avuto una sua ulteriore rappresentazione con il voto sulla risoluzione (2021) dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite contro la glorificazione del nazismo, con due soli contrari, gli Stati Uniti e, appunto, l’Ucraina; la proclamazione (2014) di Stepan Bandera come “eroe nazionale”; perfino la celebrazione della sua data di nascita come festa nazionale. Ancora tra il dicembre 2021 e il gennaio 2022 pressoché tutte le proposte diplomatiche avanzate dalla Russia venivano respinte dalla controparte USA-NATO. Pertanto, se grave è la violazione da parte russa dell’integrità territoriale dell’Ucraina, altra via non v’è per la risoluzione del conflitto se non di carattere politico, a partire tuttavia da una lettura che sia all’altezza della delicatezza e della complessità dello scenario in questione e che sia capace di ricostruire con precisione la concatenazione e la gerarchia delle responsabilità, e di conseguenza, operando per ridurre l’escalation, bloccare l’invio di armi, soldati e attrezzature militari, fermare l’espansionismo della NATO, principale causa scatenante dell’odierna situazione di guerra, e prendendo seriamente in considerazione bisogni e interessi legittimi di tutte le parti, per inquadrare una soluzione politica, pacifica, di «mutuo beneficio», nel quadro di una diversa «architettura di pace e di sicurezza» (una Helsinki 2.0) per l’intera Europa. Al contempo, lotta contro la guerra e contro le premesse della guerra; diplomazia popolare e «pace con giustizia».

Riprendendo, cioè, quanto scritto da Jan Oberg, «come considerazione finale, prendo del tutto le distanze da tutti quelli che condannano questa mossa russa ma non hanno mai condannato tutte quelle azioni internazionali, violente, illegali - altrettanto, se non di più - da parte della NATO o di membri della NATO, vuoi in Jugoslavia (molto peggio in ogni aspetto per gli oltre settanta giorni rispetto a quanto successo finora in Ucraina), in Afghanistan, Iraq, Libia, Yemen, Siria - e via elencando. E prendo del tutto le distanze dall’uniformità estremamente piatta e veemente di questo coro massiccio e uniforme di condanna - l’illimitata russofobia, l’ipocrisia, la pervasiva noncuranza per l’analisi del conflitto e l’assenza di ogni esame di coscienza e di autocritica, come pure la monotona narrazione dei media mainstream basata su contraffazione, omissione e ignoranza delle fonti».
 
08.03.2022