sabato 27 marzo 2021

Il pogrom del Marzo 2004

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Il diciassettesimo anniversario della grave ondata di violenza a sfondo etnico (un vero e proprio “pogrom”) contro i Serbi in Kosovo, che eruppe tra il 17 e il 19 marzo 2004, è stato segnato da un atto commemorativo presso il Teatro Nazionale a Belgrado: l’evento è stato intitolato alla “Giornata della Memoria 17 marzo 2004 - Pogrom in Kosovo e Metohija” e ha visto la partecipazione del presidente Aleksandar Vučić e del ministro del lavoro, dei veterani e delle politiche sociali, Darija Kisić Tepavčević. Nel corso dell’evento commemorativo, sono stati letti testi e sono state proiettate foto, immagini e video legati ai drammatici momenti del pogrom del 2004. Riprendendo alcune delle conclusioni degli organismi internazionali sugli eventi del Marzo 2004, nel corso della commemorazione, Vučić ha ricordato che l’obiettivo del pogrom, e l’intenzione dei nazionalisti e degli estremisti albanesi del Kosovo coinvolti nella violenza, era di fare sì che «non solo non vi fossero più Serbi in Kosovo, ma non vi fosse neanche più nulla a cui fare ritorno». Il pogrom, che scoppiò appena cinque anni dopo la fine della guerra nella regione, eruppe sull’onda delle tensioni etniche acuite dall’uccisione di un giovane serbo e, come motivo/pretesto degli eventi, dall’annegamento di tre ragazzi albanesi kosovari: un incidente, che fu però presentato come un episodio di violenza etnica anti-albanese. Nella prima stima “a caldo”, il 22 marzo 2004, la polizia ha stimato che oltre 50 mila persone abbiano preso parte a oltre 30 episodi di tumulto. Nel corso delle violenze, 27 persone furono uccise, più di 900 rimasero ferite, 935 abitazioni sono state distrutte, e ben 35, tra chiese e monasteri serbo-ortodossi, alcuni dei quali straordinari Patrimoni dell’Umanità, colpiti o distrutti. 

La Nostra Signora di Ljeviš (la “Bogorodica Ljeviška”) a Prizren (Patrimonio dell’Umanità del XIV secolo), incendiata dall’interno, con i preziosi affreschi gravemente danneggiati e l’altare sconsacrato; la Chiesa del Santissimo Salvatore a Prizren (XIV secolo), incendiata; la Cattedrale di San Giorgio a Prizren (1856), incendiata e minata; la Chiesa di San Nicola (Chiesa di Tutić) a Prizren (XIV secolo), incendiata; la Chiesa di San Giorgio (Chiesa di Runović) a Prizren (XVI secolo), incendiata; la Chiesa di San Kyriaki (S. Nedelje) a Potkaljaja, Prizren (XIV secolo), bruciata; la Chiesa di San Panteleimon, a Potkaljaja, Prizren (XIV secolo), bruciata; la Chiesa dei Santi Cosma e Damiano, a Potkaljaja, Prizren (XIV secolo), bruciata. La Chiesa di San Kyriaki (S. Nedelje) a Živinjane, vicino a Prizren, minata e distrutta; il Monastero dei Santi Arcangeli a Prizren, fondato da Stefan Dušan nel XIV secolo, saccheggiato e bruciato; il Seminario Ortodosso e la Corte Vescovile di Prizren (1872), incendiati; la Chiesa di S. Elia a Podujevo (1929), distrutta e profanata, furono perfino profanate le tombe del vicino cimitero serbo e le spoglie disperse. E ancora il Monastero di Devič (1434) a Lauša, non lontano da Skënderaj/Srbica, completamente saccheggiato e incendiato. La commemorazione in Kosovo è stata tenuta dal Patriarca della Chiesa Ortodossa Serba, Porfirije, nel Monastero del Patriarcato di Peć/Peja (fondato nel 1346 da Stefan Dušan e Patrimonio dell’Umanità come estensione del Monastero di Dečani). Eventi commemorativi si sono svolti anche nel Monastero di Gračanica (pure Patrimonio dell’Umanità) e a Kosovska Mitrovica, dove è stato proiettato un video sulle violenze del 2004 e sono state esposte foto di chiese e monasteri in fiamme e di edifici all’epoca presi di mira. 

Secondo il rapporto OSCE del 2008, “Quattro anni dopo. Sviluppi dei casi di tumulti del Marzo 2004 di fronte al sistema giudiziario penale del Kosovo”, «gli eventi drammatici e violenti del Marzo 2004 hanno rappresentato una grave battuta d’arresto nell’impegno del Kosovo per diventare una società multietnica tollerante che rispetti i diritti delle comunità non maggioritarie e i principi dello stato di diritto». Nel § 4, sotto il titolo “Ritardi”, il rapporto ricorda che «in base al diritto interno, i tribunali devono svolgere i procedimenti senza indugio. Analogamente, gli standard internazionali proibiscono ritardi ingiustificati e prescrivono che i processi debbano essere tenuti in tempi ragionevoli. Questa garanzia sottolinea altresì “l’importanza di rendere giustizia senza ritardi che potrebbero comprometterne l’efficacia e la credibilità”; nei processi, inoltre, evita che gli individui “rimangano troppo a lungo in uno stato di incertezza sul loro destino”. In Kosovo, la mancanza di capacità del sistema giudiziario e l’arretrato dei casi contribuiscono a ritardi nelle indagini e nei procedimenti. La gravità e l’ampiezza degli incidenti verificatisi durante le rivolte del Marzo 2004 hanno imposto alle autorità il dovere di agire con la massima diligenza nell’indagare e nel perseguire i presunti responsabili. Tuttavia, spesso i casi non sono stati completati in modo tempestivo. In particolare, nonostante le raccomandazioni del primo rapporto sui disordini del Marzo 2004, l’OSCE continua a rilevare: a) ritardi ingiustificati nel trasmettere i rapporti di polizia relativi a “nuovi” casi; b) ritardi nell’inizio dei processi principali dopo la conferma del rinvio a giudizio; c) ritardi ingiustificati del tribunale nella emanazione delle sentenze di primo grado». 

Nel § 5, sotto il titolo “Condanne”, il rapporto afferma che «i disordini del Marzo 2004 hanno causato una minaccia e un danno sostanziali alla vita, alla sicurezza generale e alla tolleranza etnica in Kosovo. I tribunali avevano il dovere di inviare un messaggio forte alla popolazione del Kosovo che tali incidenti non sarebbero stati tollerati. L’indulgenza delle sentenze è stata una delle principali critiche contenute nel primo rapporto sui disordini. Nonostante le raccomandazioni contenute in quel rapporto, l’OSCE continua a osservare che i tribunali hanno generalmente emesso condanne clementi. Nella maggior parte dei casi, i tribunali hanno emesso sentenze vicine o addirittura inferiori al minimo legale. Inoltre, i tribunali spesso hanno sospeso l’esecuzione di queste condanne, sostituendo così le pene, già basse, con una pena alternativa». «In molti casi monitorati, la causa delle lievi condanne potrebbe essere stata la mancata considerazione del movente etnico come circostanza aggravante. In altri casi, i tribunali hanno imposto pene basse perché i pubblici ministeri hanno accusato le persone di reati meno gravi di quelli evidenziati dai fatti. L’indulgenza nelle condanne e il ridimensionamento delle motivazioni sono problemi endemici nel sistema giudiziario del Kosovo. Tuttavia, ciò non giustifica i tribunali nel comminare pene ... che non riflettono adeguatamente la gravità dei crimini commessi». Esattamente 17 anni fa, il 23 marzo 2004, durante una visita alla città di Obilić, pesantemente colpita dalle violenze del pogrom, il capo missione UNMIK Harri Holkeri dichiarò che gli estremisti albanesi avevano «un piano già pronto» per le violenze. 

Secondo la Corte Europea dei Diritti Umani, trattare la violenza e la brutalità di natura etnica su un piano di parità con casi che non hanno connotazioni razziste significa chiudere un occhio sulla natura specifica degli atti che sono particolarmente distruttivi dei diritti umani fondamentali. La mancata distinzione del modo in cui vengono gestite situazioni sostanzialmente diverse può costituire un trattamento ingiustificato in contrasto con l’art. 14 della Convenzione Europea dei Diritti Umani.

lunedì 15 marzo 2021

Il più grande

JohnArmagh, Pubblico Dominio, Wikimedia Commons


Karl Marx 
(Treviri, 5 maggio 1818 - Londra, 14 marzo 1883)

 

Friedrich Engels | Orazione funebre per Karl Marx


ll 14 marzo, alle due e quarantacinque pomeridiane, ha cessato di pensare la più grande mente dell’epoca nostra. L’avevamo lasciato solo da appena due minuti e al nostro ritorno l’abbiamo trovato tranquillamente addormentato nella sua poltrona, ma addormentato per sempre.

Non è possibile misurare la gravità della perdita che questa morte rappresenta per il proletariato militante d’Europa e d’America, nonché per la scienza storica. Non si tarderà a sentire il vuoto lasciato dalla scomparsa di questo titano.

Così come Darwin ha scoperto la legge dello sviluppo della natura organica, Marx ha scoperto la legge dello sviluppo della storia umana cioè il fatto elementare, sinora nascosto sotto l’orpello ideologico, che gli uomini devono innanzi tutto mangiare, bere, avere un tetto e vestirsi, prima di occuparsi di politica, di scienza, d’arte, di religione, etc.

E che, per conseguenza, la produzione dei mezzi materiali immediati di esistenza e, con essa, il grado di sviluppo economico di un popolo e di un’epoca in ogni momento determinato costituiscono la base dalla quale si sviluppano le istituzioni statali, le concezioni giuridiche, l’arte e anche le idee religiose degli uomini, e partendo dalla quale esse devono venir spiegate, e non inversamente, come si era fatto finora.

Ma non è tutto. Marx ha anche scoperto la legge peculiare dello sviluppo del moderno modo di produzione capitalistico e della società borghese da esso generata. La scoperta del plusvalore ha subitamente gettato un fascio di luce nell’oscurità in cui brancolavano prima, in tutte le loro ricerche, tanto gli economisti classici che i critici socialisti.

Due scoperte simili sarebbero più che sufficienti a riempire una vita. Fortunato chi avesse avuto la sorte di farne anche una sola. Ma in ognuno dei campi in cui ha svolto le sue ricerche — e questi campi furono molti e nessuno fu toccato da lui in modo superficiale — in ognuno di questi campi, compreso quello delle matematiche, egli ha fatto delle scoperte originali.

Tale era lo scienziato. Ma lo scienziato non era neppure la metà di Marx. 

Per lui la scienza era una forza motrice della storia, una forza rivoluzionaria. Per quanto grande fosse la gioia che gli dava ogni scoperta in una qualunque disciplina teorica, e di cui non si vedeva forse ancora l’applicazione pratica, una gioia ben diversa gli dava ogni innovazione che determinasse un cambiamento rivoluzionario immediato nell’industria e, in generale, nello sviluppo storico. Così egli seguiva in tutti i particolari le scoperte nel campo dell’elettricità e, ancora in questi ultimi tempi, quelle di Marcel Deprez.

Perché Marx era prima di tutto un rivoluzionario. 

Contribuire in un modo o nell’altro all’abbattimento della società capitalistica e delle istituzioni statali che essa ha creato, contribuire all’emancipazione del proletariato moderno al quale egli, per primo, aveva dato la coscienza delle condizioni della propria situazione e dei propri bisogni, la coscienza delle condizioni della propria liberazione : questa era la sua reale vocazione. La lotta era il suo elemento. 

Ed ha combattuto con una passione, con una tenacia e con un successo come pochi hanno combattuto. La prima “Rheinische Zeitung ” nel 1842, il “Vorwàrts ! ” di Parigi nel 1844, la “Deutsche Brùsseler Zeitung ” nel 1847, la “Neue Rheinische Zeitung ” nel 1848-49, la “New York Tribune ” dal 1852 al 1861 e, inoltre, i numerosi opuscoli di propaganda, il lavoro a Parigi, a Bruxelles, a Londra, il tutto coronato dalla grande Associazione internazionale degli operai, ecco un altro risultato di cui colui che lo ha raggiunto potrebbe esser fiero anche se non avesse fatto nient’altro.

Marx era perciò l’uomo più odiato e calunniato del suo tempo. I governi, assoluti e repubblicani, lo espulsero, i borghesi, conservatori e democratici radicali, lo coprirono a gara di calunnie. Egli sdegnò tutte queste miserie, non prestò loro nessuna attenzione, e non rispose se non in caso di estrema necessità. E’ morto venerato, amato, rimpianto da milioni di compagni di lavoro rivoluzionari in Europa e in America, dalle miniere siberiane sino alla California. E posso aggiungere, senza timore: poteva avere molti avversari, ma nessun nemico personale.

Il suo nome vivrà nei secoli, e così la sua opera!

 

“Discorso sulla tomba di Marx”, Cimitero di Highgate, Londra, 14 marzo 1883

sabato 13 marzo 2021

Slobodan Milošević: 11 marzo 2006 - 11 marzo 2021


U.S. Air Force Staff Brian Schlumbohm, Pubblico Dominio, Wikimedia


L’11 marzo cade il quindicesimo anniversario della morte in carcere all’Aja di Slobodan Milošević. L’ex presidente serbo e jugoslavo si trovava sotto la custodia del Tribunale ad hoc dell’Aja a Scheveningen, sotto processo, con l’accusa di crimini di guerra commessi nel contesto delle guerre che avevano attraversato e lacerato la Jugoslavia nel corso degli anni Novanta. La lunga parabola umana e politica di Milošević potrebbe sembrare oggi, dunque, materia per storici e cronologie; non di meno, la sua eredità e il suo lascito continuano ad essere divisivi e la situazione dei Paesi post-jugoslavi, attraversati dalle lunghe guerre etno-politiche degli anni Novanta, continua a essere controversa e instabile, come mostrano soprattutto i casi di Bosnia e Kosovo.

Non è inutile dunque riflettere sulla figura, storica e politica, di Milošević. Slobodan Milošević era nato il 20 agosto 1941 a Pozarevac, cittadina della Serbia centrale, non distante da Belgrado, oggi città di poco più di 70 mila abitanti, eppure famosa per essere stata la sede in cui, nel 1718, fu firmata la celebre pace di Passarowitz (nome tedesco della città) tra Venezia e l’Impero Ottomano, all’epoca potenza dominante sui Balcani centrali e meridionali. Pochi anni dopo, nel 1739, il Trattato di Belgrado avrebbe consentito all’Impero Ottomano di riconquistare tutta la Serbia settentrionale, fissando nuovi confini con l’Impero Asburgico sulla linea formata dai fiumi Sava e Danubio, presso Belgrado.
 
Milošević si laureò alla Facoltà di Giurisprudenza di Belgrado nel 1964, unendo alla formazione giuridica la vocazione politica, dal momento che, sin dal 1959, era membro della Lega dei Comunisti di Jugoslavia, nella quale rimase fino alla sua dissoluzione e alla succedanea fondazione del Partito Socialista di Serbia (SPS) nel 1989, di cui divenne presidente. Nelle prime elezioni multipartitiche in Serbia, tenute nel dicembre 1990, come candidato del Partito Socialista, ha ottenuto il 65% dei voti diventando di conseguenza primo presidente eletto della Repubblica di Serbia. È stato eletto Presidente della Repubblica Federale di Jugoslavia (la cosiddetta Terza Jugoslavia, dopo le secessioni repubblicane e la guerra, la “piccola Jugoslavia”, costituita da Serbia e Montenegro, istituita nel 1992 e rimasta formalmente in vita sino all’inizio del 2003) nel 1997, rimanendo in carica fino al fatidico 5 ottobre 2000, quando, sotto la pressione di parte dell’opinione pubblica e per effetto della cosiddetta «Bulldozer Revolution», considerata una delle prime “rivoluzioni colorate” filo-occidentali tra Europa e Asia, sarebbe stato costretto a rassegnare le dimissioni.

Dopo il primo turno del 24 settembre e prima che si potesse svolgere regolarmente il secondo turno di ballottaggio, con un’azione programmata e organizzata, anche con l’intervento di veri e propri commando ben addestrati, il 5 ottobre 2000 il parlamento serbo a Belgrado fu assaltato e devastato e Milošević costretto alle dimissioni, lasciando il posto al candidato della DOS (cosiddetta Opposizione Democratica Serba, un insieme di formazioni di varie ispirazioni, liberali, conservatrici, monarchici, nazionalisti, clericali) Vojislav Kostunica. Al primo turno, Kostunica aveva ottenuto il 48.96% dei voti, mancando di poco il 50% richiesto per la vittoria al primo turno; Slobodan Milošević aveva ottenuto il 38.62%. Il secondo turno fu regolarmente indetto per l’8 ottobre, ma il 5 ottobre la sollevazione violenta trasformò la transizione elettorale in un golpe di fatto. 
 
Le sedi dei partiti della sinistra furono assaltate e saccheggiate, militanti socialisti e rappresentanti sindacali spesso aggrediti, furono bloccati e sequestrati i beni del SPS, che si trovò poi ad affrontare una vera ondata repressiva, e, ben presto, anche una damnatio memoriae. Nel giro di pochi giorni, il 31 ottobre, l’allora portavoce e futuro premier della DOS, Zoran Djindjić, dichiarò che Milošević sarebbe dovuto comparire in tribunale «diverse volte», con le accuse di frode elettorale, di esportazione illegale di fondi all’estero e di una serie di omicidi. La restaurazione, iniziata con i 35 milioni di dollari di provenienza statunitense ai partiti e alle organizzazioni dell’opposizione di destra nell’anno precedente le elezioni del 24 Settembre 2000, culminò con l’arresto di Milošević a Belgrado, dove aveva continuato a risiedere, il 1 aprile 2001, con l’accusa di frode finanziaria. 
 
Come riportò la BBC, «l’arresto coincide con la scadenza della deadline imposta dagli Stati Uniti al governo jugoslavo per porre agli arresti l’ex presidente o rischiare di perdere gli ingenti aiuti economici americani e i prestiti del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale». Già il 28 giugno 2001 Milošević veniva però estradato al Tribunale dell’Aja: in questa imbastitura politico-giudiziaria perfino la scelta delle date corrispose a un chiaro messaggio simbolico, trattandosi, il 28 giugno, del Vidovdan, una delle feste più sentite nella memoria collettiva del popolo serbo. Milošević è stato incriminato per crimini di guerra in Kosovo e Metohija, per crimini di guerra e genocidio in Bosnia ed Erzegovina e per crimini di guerra in Croazia, ma, a causa della morte in carcere, il processo non è giunto a sentenza. Moltissime le ombre sul processo, arrivato peraltro a un punto morto; altrettante le ombre sulla legittimità stessa dell’istituzione del Tribunale ad hoc.

La sua istituzione è controversa, perché non è un’emanazione dell’Assemblea Generale né il risultato di un consenso di natura pattizia, bensì è stato istituito dal Consiglio di Sicurezza con la risoluzione 827 del 1993; la sua stessa giurisdizione compromessa dal fatto che abbia preso in carico casi risalenti al periodo 1991-1993 in violazione del principio nullum crimen sine lege, trovandosi a giudicare casi commessi prima della sua stessa istituzione; infine, ha sollevato l’obiezione di essere un vero e proprio “tribunale dei vincitori”, pilotato di fatto dagli Stati Uniti e dal consenso atlantico, anche in ragione del numero sproporzionato di imputati serbi rispetto agli imputati di altre nazionalità. 
 
Peraltro, nella sentenza emessa il 24 marzo 2016 dal Tribunale ad hoc contro Radovan Karadžić, § 3460, p. 1303, «per quanto riguarda le prove presentate in relazione a Slobodan Milošević e alla sua appartenenza alla comune impresa criminale, la Camera ricorda che [Milošević] ha condiviso e avallato l’obiettivo politico dell’accusato [Radovan Karadžić] e della leadership serbo-bosniaca di preservare la Jugoslavia e impedire la separazione o l’indipendenza della Bosnia-Erzegovina e ha collaborato strettamente con l’accusato durante questo periodo. La Camera ricorda inoltre che Milošević ha fornito assistenza sotto forma di personale, provviste e armi ai serbi bosniaci durante il conflitto. Tuttavia, sulla base delle prove dinanzi alla Camera riguardo agli interessi divergenti emersi tra la leadership serbo-bosniaca e la leadership serba durante il conflitto e, in particolare, le ripetute critiche e la disapprovazione di Milošević delle politiche e delle decisioni prese dall’accusato e dalla leadership serbo-bosniaca, la Camera non è soddisfatta che vi fossero prove sufficienti presentate in questo caso per ritenere che Milošević fosse d’accordo con il piano comune».

«Ma non per questo rinunceremo alla Jugoslavia e ci stabiliremo in una terra più felice e più ricca. Queste sono piuttosto ragioni ancor più valide per rimanere nel nostro Paese e renderlo più ricco e più felice. È possibile, ma attraverso una condizione obbligatoria: realizzare la completa separazione delle forze del socialismo, della fratellanza e unità, e del progresso dalle forze del separatismo, del nazionalismo e del conservatorismo». La restaurazione si compì, tuttavia, soprattutto sul versante economico e sociale. La DOS, dopo la caduta di Milošević, trasformò radicalmente, in senso regressivo, la struttura della Serbia attraverso cinque capitoli di “riforme”: una estesa privatizzazione delle imprese di proprietà statale e sociale; l’introduzione della piena convertibilità del dinaro serbo; la più ampia liberalizzazione del commercio estero; la chiusura e la dismissione delle banche statali in perdita e l’ingresso di banche e capitali esteri nel mercato interno, misure che ebbero, tra gli altri, l’effetto di fare esplodere la disoccupazione; un nuovo diritto del lavoro ispirato ai criteri liberali di mercato. Non meno di tremila furono le imprese privatizzate. Solo durante il governo Djindjić (2001-2003, proseguito fino al 2005 dopo il suo assassinio, con Nebojša Čović e Zoran Živković), oltre 1.400 aziende sono state privatizzate. Particolarmente oscuri almeno ventiquattro casi, per i quali sono stati avanzati sospetti di abuso di posizione ufficiale di alti funzionari statali e di corruzione, nonché danni alle finanze pubbliche.

È impensabile emergere dal dramma della guerra con la demonizzazione o con la vittimizzazione a sfondo etnico. Così come difficile immaginare di traguardare un orizzonte di pace e di progresso senza, da un lato, una compiuta democrazia, e, dall’altro, una efficace protezione dei diritti sociali, dell’inclusione sociale, dei lavoratori e delle lavoratrici. «Le disuguaglianze e il mancato rispetto di tutti i diritti umani hanno il potere di erodere tutti e tre i pilastri dell’ONU: pace e sicurezza, sviluppo, diritti umani. [...] Le disuguaglianze minacciano la nostra opportunità di realizzare uno sviluppo sostenibile e inclusivo. Le disuguaglianze suscitano rimostranze e disordini; alimentano odio, violenza e minacce alla pace; costringono le persone a lasciare le loro case e i loro Paesi. Le disuguaglianze minano il progresso sociale e la stabilità economica e politica. Ma i diritti umani costruiscono la speranza. Legano l’umanità, con principi condivisi e un futuro migliore, in netto contrasto con le forze divisive e distruttive della repressione, dello sfruttamento, del capro espiatorio, della discriminazione e delle disuguaglianze». Tessere il filo della memoria, e una ricerca lucida e serena sugli eventi tragici degli anni Novanta e oltre, continuano a rappresentare ponti, anche in questa circostanza, nella direzione della «pace con giustizia».