martedì 4 settembre 2018

A Cuba, un percorso popolare per aggiornare la costituzione

L'Avana, Cuba: Foto di Gianmarco Pisa

A Cuba, il popolo scrive la sua costituzione. E sceglie, in base alle indicazioni della Assemblea Nazionale (il Parlamento Cubano) due date simboliche entro cui completare questa “redazione popolare partecipata”. Il processo è stato infatti inaugurato il 13 agosto: il giorno in cui Fidel Castro, leader storico della Revolución, avrebbe compiuto 92 anni. Alla fine, l’ultima parola sulla nuova costituzione spetterà al popolo cubano, con un referendum vincolante, convocato per il prossimo 24 febbraio: il giorno che segnò l’inizio, nel 1895, della guerra d’indipendenza contro la Spagna, tappa fondamentale anche nella vicenda di Jose Martì. L’unità del popolo cubano viene così rappresentata attraverso queste simbologie memoriali in un passaggio cruciale della più recente storia cubana, se solo si pensa che l’attuale processo di «revisione costituzionale» interviene ad aggiornare un testo che è ancora quello del 1976, risalente, cioè, a più di quarant’anni fa. 

Per sostenere questo gigantesco processo partecipativo, un milione di copie della proposta costituzionale è stato già distribuito alla popolazione. Saranno più di centotrentamila le assemblee popolari, in cui si discuterà, si studierà, si approfondirà, si integrerà, si modificherà il testo della nuova costituzione. Cuba, dunque, si aggiorna: e lo fa con il tratto socialista della sua dinamica, innescando il ruolo centrale del partito comunista ed attivando la più ampia partecipazione popolare. Lo conferma lo stesso progetto costituzionale, quando, all’art. 5, dichiara il partito comunista, «martiano, fidelista e marxista-leninista, avanguardia organizzata della nazione cubana, … forza dirigente suprema della società e dello Stato». 

Vi è una base marxista nell’approccio proposto: istituire una cornice giuridica generale (una configurazione sovrastrutturale) al quadro economico e sociale rinnovato dal contesto di interventi (il quadro strutturale) che il socialismo a Cuba ha sperimentato nel corso degli ultimi, in buona sostanza, venti anni. Vi è, in generale, un quadro complessivo di diritti: ha fatto notizia la parificazione del matrimonio omosessuale con il matrimonio eterosessuale, quindi la piena legalizzazione del matrimonio omosessuale, ma questo è solo il più appariscente di un quadro che intende consolidare una prospettiva di «tutti i diritti umani per tutti», cioè di unitarietà e indivisibilità dei diritti umani, sia i diritti civili e politici, sia i diritti materiali e culturali. 

La conferma del principio è nitida in questo nuovo progetto costituzionale: la proposta di art. 1, ad esempio, definisce Cuba uno «stato socialista di diritto, democratico, indipendente e sovrano, organizzato con tutti e per il bene di tutti»; il successivo art. 3 conferma che «il socialismo e il sistema politico e sociale rivoluzionario, stabiliti nella presente costituzione, sono irrevocabili»; mentre l’art. 27, richiamando la pianificazione socialista, ricorda che «lo stato dirige, regola e controlla l’attività economica nazionale». La stessa disposizione conclusiva (all’articolo 224) riafferma che «non è possibile sottoporre a revisione i principi riguardanti l’irrevocabilità del socialismo e il sistema politico e sociale come stabiliti dall’art. 3». 

Vi è poi la ridefinizione dell’assetto politico e istituzionale: delineando il profilo di uno stato socialista a modello parlamentare basato sul potere popolare, il progetto costituzionale distingue la figura del Presidente della Repubblica da quella del Presidente del Consiglio (Primo Ministro); il Presidente della Repubblica è eletto dalla Assemblea Nazionale (art. 121) su mandato di cinque anni, rinnovabile una volta sola; il Presidente del Consiglio è altresì designato dalla Assemblea Nazionale su proposta del Presidente della Repubblica (art. 136); l’Assemblea Nazionale, a sua volta, resta «l’unico organo dotato di potere costituente e legislativo» a Cuba (art. 98), consolidando inoltre il ruolo non solo dell’Assemblea, ma anche di tutti gli altri strumenti assembleari organizzati, nei quali si forma e si esprime la volontà popolare.

Vi è infine la ridefinizione dell’assetto economico e sociale: Cuba conferma il carattere socialista del proprio esperimento; propone di sviluppare, approfondire ed attualizzare il sistema socialista; articola, in definitiva, un aggiornamento del socialismo di fronte alle grandi sfide del mondo multipolare e della contraddizione inter-imperialistica per il XXI secolo. Ribadisce (art. 20) «la proprietà socialista di tutto il popolo sui mezzi fondamentali di produzione come forma principale di proprietà». Conferma il carattere pubblico e statale di tutti i comparti strategici o fondamentali dell’economia (suolo e sottosuolo, risorse energetiche e naturali, vie e infrastrutture di comunicazione); riconosce il ruolo del mercato e limita la proprietà privata ai settori minuti, vietando espressamente (art. 22) «la concentrazione della proprietà in persone fisiche o giuridiche non statali, onde garantire i principi socialisti di eguaglianza e di giustizia sociale». Dichiara infine (art. 26) «l’impresa statale socialista il soggetto principale dell’economia nazionale». 

Cambiare lo stato e aggiornare l’economia, con la più ampia adesione e partecipazione popolare, e mantenendo i principi marxisti e l’orientamento socialista. Ancora una volta, dunque, da Cuba, un messaggio importante ed innovativo. 

lunedì 3 settembre 2018

Se Israele diventa lo «Stato Nazionale del Popolo Ebraico»

Foto di Eddie Gerald - Geophotos -  Pubblico Dominio, via Wikimedia Commons

L’ultima, in ordine di tempo, legge fondamentale dello Stato di Israele, approvata lo scorso 18 luglio, peraltro con una risicata maggioranza alla Knesset, il Parlamento israeliano, definisce, per la prima volta in questi termini, Israele come «Stato Nazionale del Popolo Ebraico», con una nettezza tale, nella forma e nei contenuti, da fare di questa designazione persino il titolo della legge. Iniziando dunque a mettere in fila le questioni, si tratta di una legge fondamentale dello Stato di Israele: com’è noto, infatti, Israele non ha una unica legge costituzionale o «carta costituzionale», bensì il suo corpus costituzionale, vale a dire il quadro normativo fondamentale, gerarchicamente superiore alle leggi ordinarie, è rappresentato dall’insieme della Dichiarazione di Indipendenza del 1948 e da una serie di leggi fondamentali, le quali possono essere modificate solo attraverso l’approvazione di altre leggi fondamentali ed in base alla medesima procedura.  

Come leggi fondamentali, esse vengono a definire i caratteri di base della statualità israeliana e dovrebbero avere contenuto generale e godere di ampio consenso: non così quest’ultima legge, la quale, come si diceva, dopo lungo e articolato dibattito, nel Parlamento e nel Paese, è stata approvata con una maggioranza risicata e non ha mancato di destare molte critiche, spesso aspre, fuori e dentro Israele. Critiche, come si accennava sopra, «nella forma» e «nella sostanza». Questa legge rischia, infatti, di aprire un dibattito costituzionale senza fine e, soprattutto, un vulnus costituzionale senza precedenti: ponendosi a fianco della Dichiarazione di Indipendenza, che sancisce l’uguaglianza dei diritti dei cittadini e delle cittadine di Israele senza distinzione di sesso, etnia, religione, quest’ultima legge restringe la portata di tali diritti, definisce Israele stato nazionale del popolo ebraico e dichiara esplicitamente che appartiene esclusivamente al popolo ebraico il diritto di autodeterminazione nazionale di cui lo Stato di Israele è, per l’appunto, espressione. Dunque, si passa da un principio di “universalità dei diritti” ad un principio di “esclusività dei diritti” (per lo meno di alcuni di questi, per quanto amplissimi e fondamentali, a partire, appunto, dal diritto di autodeterminazione dei popoli); si passa da uno stato di tutti i suoi cittadini e le sue cittadine, almeno in termini di diritto, ad uno stato etnico (mono-etnico), con, in aggiunta, la problematicità di definire, al di fuori di una caratterizzazione meramente culturale o confessionale, la stessa specificità del popolo ebraico. Problematicità testimoniata anche dall’acceso dibattito sul ruolo di Israele all’interno della Diaspora.  

Se, per un verso, com’è stato segnalato da alcuni critici, non vi è sostanzialmente «nulla di nuovo» in questa legge, se non la ricapitolazione di una serie di norme già previste (come quella che dichiara Gerusalemme capitale dello Stato di Israele, scritta in una precedente legge fondamentale del 1980), o la messa in fila di una serie di pratiche già vigenti (a partire da quelle che organizzano l’attività coloniale di Israele nei Territori Palestinesi Occupati); per altro, numerose manifestazioni di protesta hanno visto protagonisti non solo i vari critici israeliani della legge (come è noto, vi è uno strato non-sionista o post-sionista non insignificante all’interno della stessa società israeliana), ma anche le differenti componenti nazionali, in primo luogo gli arabi israeliani e i drusi. Se il trattamento riservato alle minoranze e il rispetto dei diritti delle minoranze sono cartine di tornasole (questo ci dice persino il pensiero “liberale”) della qualità della democrazia, il dettato di questa legge fondamentale rischia allora di ridurre e di restringere pesantemente (al di là dei molti e variegati dubbi già da tempo nutriti, a proposito, da più parti) la qualità della democrazia israeliana e di minacciare significativamente il rispetto e la tutela dei diritti umani per tutti e tutte in Israele.

Se è vero, infatti, che la legge non pregiudica la situazione corrente della lingua araba, al momento della entrata in vigore della legge, pur attribuendole un semplice status speciale, riservando all’ebraico lo status di lingua ufficiale dello Stato; è anche vero, d’altra parte, che questa legge eleva perfino a rango costituzionale il colonialismo sionista: sin dall’inizio distingue tra uno stato di Israele e una terra di Israele, rivendicata come patria storica del popolo ebraico e all’interno della quale sorge il territorio dello stato. E, poco più avanti, non manca di mettere in risalto il fatto che lo Stato attribuisce valore nazionale allo sviluppo dell’insediamento ebraico ed agisce per incoraggiare e per promuove la sua realizzazione e il suo consolidamento. La colonizzazione dei Territori Palestinesi dunque viene puntellata, resa carattere fondamentale dello Stato di Israele, e, di conseguenza, in prospettiva, reso sempre più difficile il ricorso alla giustizia da parte delle rappresentanze palestinesi. 

Un diritto di autodeterminazione, quello del popolo ebraico, attivato contro un altro diritto di autodeterminazione, quello del popolo palestinese. Il contrario di ciò che servirebbe alla causa della giustizia e dei diritti umani, ovviamente nel senso di tutti i diritti, per tutti.