lunedì 30 novembre 2015

La lezione del 13 Novembre

CC BY-SA HonestReporting flickr.com/photos/honestreporting/15908611924

Riprendo, per tracciare qualche linea di riflessione sul futuro che ci aspetta dopo il 13 Novembre di Parigi, le parole dell’appello che, appena qualche giorno fa, Alfonso Gianni lanciava dal suo profilo facebook: «pacifisti di tutto il mondo, mobilitiamoci!». È il calco di un motto di ben altro spessore e portata, come tutti sanno; non di meno, è anche il tentativo di rappresentare una sollecitazione pressante e accorata, che, da democratici, progressisti, marxisti, pacifisti o nonviolenti che siamo, non possiamo permetterci di fare cadere nel vuoto, se davvero intendiamo contrastare la minaccia di una guerra e, con essa, il precipizio di una escalation di vasta portata che rischia di travolgere l’intero Mediterraneo e Vicino Oriente, e se, allo stesso tempo, presumiamo di potere offrire qualche idea, qualche proposta, qualche orientamento, che non vadano nel senso, banale e mortifero, insensato e inefficace, della guerra, ma piuttosto nella direzione, che sembra molto più pregnante e assai più promettente, della estinzione del terrorismo e del superamento della violenza.

Dopo quel vero e proprio atto di “guerra nella guerra”, che è stato l’abbattimento del caccia russo da parte della aviazione turca, è ormai evidente a tutti, ed occorre segnalarlo e ribadirlo, che la linea rossa, di cui si è tanto discusso, tra tavoli diplomatici e confronti accademici, è stata superata: forze della NATO e forze russe, che perseguono obiettivi e strategie diverse non solo sul fronte siriano e che stanno da tempo giocando un risiko delicatissimo in diversi punti caldi del pianeta, si sono scontrate, per la prima volta, direttamente. Da questo momento, dunque, numerosi scenari si aprono e diventano possibili: forse ancora non del tutto probabili, ad ogni apparente evidenza non imminenti, ma senza dubbio possibili. La “terza guerra mondiale” a pezzi, già in corso da tempo, peraltro, almeno a partire dallo scoppio della guerra per procura, a molti riverberi internazionali, sul suolo e nei cieli della Siria (2011), e già entrata nel cuore stesso dell’Europa, con il golpe di Majdan, l’avvento al potere delle formazioni neo-naziste a Kiev e la guerra del Donbass (2014), rischia adesso di precipitare e condensare in una vera e propria escalation, cui la tragedia degli esecrabili attentati terroristici del 13 Novembre a Parigi, rischia di fare da clamoroso detonatore e propellente.

Dopo il 13 Novembre, infatti, la guerra è, ancora più di prima, una clamorosa stortura: ha così poco senso pensare di colpire il terrorismo – che non ha territori e confini consolidati, nella sua miriade di nuclei e di cellule diffuse, sparse potenzialmente ovunque, e i suoi seguaci, quelli effettivi, che sono già nelle segnalazioni dell’intelligence, e quelli potenziali, che in quelle segnalazioni ci dovrebbero finire – sganciando bombe a destra e manca, da far dubitare della sincerità dei proclami e far sorgere il dubbio che altri siano gli interessi retro-stanti e le finalità non-dichiarate. Per questo (non solo, ma anche) è necessaria un’alternativa. Nell’appello dal quale siamo partiti, vengono, in estrema sintesi, richiamate alcune imprescindibili “guide per l’azione”: «l’ONU deve intervenire per spezzare la spirale terrorismo-guerra. Così, l’Unione Europea, se finalmente decidesse di giocare un ruolo per la pace. I movimenti pacifisti di tutto il mondo sono chiamati a mobilitarsi». Si tratta di principi generali che vanno declinati e l’impegno cui sono chiamate oggi le forze, in generale, contro la guerra e per la pace, consiste proprio in questo: abbinare alla mobilitazione civica, alla sensibilizzazione dell’intero spettro dell’opinione pubblica, alla pressione sulle istituzioni per abbandonare la pulsione militare e militarista ed abbracciare piuttosto una soluzione diplomatica e politica, anche una capacità di riflessione e di analisi, di orientamento e di proposta.

Continuano ad esistere, purtroppo, tentazioni eurocentriche che non aiutano il confronto e il dialogo e, dunque, non concorrono positivamente a offrire riflessioni e proposte: sono quelle, ad esempio, di chi antepone la destituzione di un governo legittimo, come quello di Assad in Siria, alla riapertura dei canali della diplomazia con tutti gli attori regionali, a partire dalla Siria stessa, nel cui territorio, tra l’altro, la popolazione civile, l’esercito regolare, le formazioni curde a Nord, stanno pagando un pesante tributo di sangue, nella lotta quotidiana contro il terrorismo reazionario (non chiamiamolo islamico, per piacere). Qui l’eurocentrismo di certi giudizi, che pure va nominato, sembra evidente: chi ha diritto di decidere del proprio Paese, in questo caso la Siria: noi “occidentali” o i siriani? O quelle di chi continua a ritenere che la “comunità internazionale” possa ridursi alla “comunità occidentale”, magari “euro-atlantica”, più eventuali propaggini, senza accorgersi che la NATO, di cui la Turchia è parte integrante e alle cui azioni di guerra gli Stati Uniti, non più tardi di qualche giorno fa, hanno continuato a manifestare comprensione, è parte del problema e non della soluzione.

Non c’è prospettiva da offrire che non parta dal dialogo, che consenta di esplorare le vie del superamento della violenza e della trasformazione del conflitto, della definizione di nuovi spazi di convivenza e, in definitiva, della pace: dal confronto con i popoli e le culture della “sponda Sud”, dall’ascolto di proposte e suggerimenti che non imprigionino questa parte del mondo nella gabbia in cui, volontariamente o fatalmente, si è rinchiusa. Questo terreno è un cimento, al tempo stesso, per i movimenti sociali e per le forze politiche, che, nell’analisi dello scenario e nelle proposte da formulare, possono condividere un terreno unitario e strutturare un posizionamento, senza incertezza, contro la guerra (a partire dalla guerra di aggressione) e per la pace (essenzialmente come pace positiva, “pace con giustizia”). Il panorama sembra piuttosto desolante. Le destre, nelle loro varie articolazioni, almeno in Italia, non hanno nulla di positivo da offrire: da Forza Italia, che declina la sua proposta tutta in termini di militarizzazione e rinnovato impegno nelle missioni di guerra che già coinvolgono il nostro Paese, al Movimento 5 Stelle, che, tra il tutto e il contrario di tutto che, di volta in volta, avanza, ha già chiarito che «non sta scritto da nessuna parte che popolazioni diverse debbano vivere sotto la stessa bandiera» e ha pure ribadito che «la classe politica ce l’ha con le forze di polizia, molti carabinieri non sono in grado di colpire un bersaglio in movimento» e servirebbe maggiore controllo «su quei centri che assegnano lo status di rifugiato».

L’eco delle proposte e delle riflessioni della parte più matura del movimento per la pace e contro la guerra sembra invece risuonare in diversi passaggi della mozione presentata dalla “Sinistra Italiana” alla Camera il 24 Novembre, ove si delinea, per la prima volta, un quadro complessivo e una griglia coerente di misure a più livelli, per prevenire la guerra e contrastare il terrorismo senza cedere alle pulsioni militari e securitarie. Si tratta di dodici punti: no alla guerra e ad ogni avventura militare, nella convinzione, vero punto di partenza, che questa spirale guerra-terrorismo va spezzata, che non si può estinguere la violenza e il terrorismo con altra violenza (quella militare) e altro terrore (quello delle bombe); una conferenza regionale di pace con tutti gli attori, direttamente e indirettamente, coinvolti, perché solo un processo all’interno del quale tutti possano riconoscersi potrà alla fine essere riconosciuto da tutti; riconoscimento dello Stato di Palestina, altro, vero, punto di partenza, troppo spesso, nelle ultime settimane, colpevolmente dimenticato; dialogo in Siria, senza la precondizione della destituzione di Assad e in linea con i fondamentali nove punti dell’Intesa di Vienna; blocco di ogni traffico, vendita di armi e finanziamenti a Daesh e i suoi sponsor; diplomazia e coordinamento di intelligence (che non vuol dire schedatura di tutti i cittadini europei); misure per il dialogo inter-culturale e inter-religioso per prevenire la marginalizzazione e la radicalizzazione.

Come si vede, il punto non è reagire e contrattaccare, ma prevenire ed estinguere. Prima di ogni altra cosa, minando alle fondamenta le basi materiali su cui Daesh (che non è fenomeno religioso, ma terrorismo politico, oltre che militare, e dunque esercita un potere e controlla comunità e territori, tra Iraq e Siria) si fonda: un volume di affari stimato in circa 50 milioni di dollari. Come ha ben spiegato Loretta Napoleoni, Daesh ha il controllo di questi territori e, quindi, delle risorse che ospitano, che vuol dire soprattutto petrolio, che poi contrabbanda; ha sostenitori internazionali sia attraverso finanziamenti diretti sia attraverso mercato nero; e i fondi così accumulati vengono investiti non solo in addestramenti e armamenti, ma anche in controllo del territorio e servizi alle comunità poste direttamente sotto il proprio “potere”. Come conclude la stessa Napoleoni: «una vera e propria economia di guerra: un meccanismo che noi europei col tempo abbiamo dimenticato».

Dunque, ha ragione Alfonso Gianni: «mobilitiamoci!». E soprattutto proviamo a farlo in modo capillare ed efficace, perché la lotta contro il terrorismo e la guerra è anche lotta per la democrazia.



Link utili:



L’appello alla mobilitazione:

http://www.sinistralavoro.it/pacifisti-di-tutto-il-mondo-mobilitiamoci



Il documento di Forza Italia:

http://www.gruppopdl-berlusconipresidente.it/?p=35617



La posizione dei Cinque Stelle:

http://www.beppegrillo.it/2014/08/isis_che_fare.html


http://www.corriere.it/politica/15_novembre_19/m5s-battista-ospite-corrierelive-fiumicino-termini-meno-sicuri-0a7c3c1c-8ec4-11e5-aea5-af74b18a84ea.shtml



La mozione di Sinistra Italiana:

http://www.sinistraecologialiberta.it/wp-content/uploads/2015/11/Mozione-Daesh.pdf



L’Intesa di Vienna sulla Siria:

http://www.avvenire.it/Mondo/Pagine/siria-vertice-per-cessate-fuoco.aspx


domenica 15 novembre 2015

Un nuovo spazio di convivenza

Spiridon Ion Cepleanu [CC 4.0] Wikimedia Commons
La spirale guerra-terrorismo, da tempo preconizzata e stigmatizzata dalle forze più avvertite del panorama civile ed intellettuale italiano ed europeo, è entrata prepotentemente nel cuore dell'Europa. E' una spirale che miete morte e distruzione, diffonde allarme e panico nelle nostre strade e nelle nostre città, alimenta a sua volta, come in un perverso corto-circuito, il circolo vizioso dell'isteria xenofoba ed anti-islamica e della reazione poliziesca e sicuritaria. Ciò che va contrastato sono, al tempo stesso, il dilagare del terrorismo, del fanatismo e dell'oscurantismo e la minaccia della regressione della democrazia, dell'inibizione della libertà e della restrizione della convivenza.
 
Il primo pensiero va, naturalmente, alle vittime e a quanti sono stati colpiti nelle stragi di Parigi: 129 morti, 352 feriti, di cui un centinaio, nel momento in cui scriviamo, versano in gravissime condizioni; tra le vittime, 89 solo nella storica sala concerto del “Bataclan”, dove le vittime sono state letteralmente sequestrate, colpite e decimate, una dopo l'altra; mentre, quasi contemporaneamente, altri attentati e nuove morti si consumavano, prima, allo “Stadio di Francia” e alla “Belle Équipe”, e, dopo, al “Comptoir Voltaire” e ad un “Mc Donald's”. Tre commando terroristici, armati e coordinati al punto tale che qualcuno ha riferito dessero l'impressione di essere «commando delle forze speciali», hanno agito in maniera esecrabile e pianificata, colpendo luoghi di socializzazione, non di meno simbolici, per la Francia e per l'Europa.
 
Non è la prima volta che il terrorismo mostra, ferocemente, la propria geometrica capacità di colpire, miscelando brutale violenza ed accurata pianificazione di tattiche militari ed obiettivi politici. Dopo le Torri Gemelle, gli attentati di Londra e Madrid, il massacro di Charlie Hebdo e la strage del Bardo, le bombe contro la più recente manifestazione democratica e pacifista di Ankara, il terrorismo si afferma sempre più come altra faccia della guerra ed apoteosi della violenza, in una spirale che, non casualmente, dopo la strage di Charlie Hebdo e contro il Bataclan che ancora portava in bella vista il suo «Je suis Charlie Hebdo», si scaglia ancora una volta contro la Francia: la Francia della laïcité e delle banlieue in fiamme, la Francia del “multiculturalismo fallito” e delle aggressioni ai Paesi Arabi e del Medio Oriente, Mali, Libia, Siria, in primo luogo.
 
Non solo è necessario reagire al dolore, alla disperazione ed al trauma. E' doveroso rispondere affinché, come tante volte siamo stati costretti a ripetere, mai più luoghi della memoria diventino ancora memoriali di morte e una volta per sempre la spirale della guerra e del terrorismo sia interrotta e spezzata dalla convivenza e dalla reciprocità.
 
Affermare il diritto e la giustizia contro le dinamiche della sopraffazione e la logica del predominio. Realizzare mutualismo e cooperazione che non siano più neo-coloniali ma effettivamente paritari. Concepire la risposta politica e la risposta militare non come reciprocamente intercambiabili, ma come mutuamente escludenti, nella ricerca di soluzioni alle controversie internazionali, e schierarsi senza esitazioni con il dialogo e la politica, contro le armi e la violenza. Inibire il traffico delle armi e il contrabbando che alimenta i signori della violenza e della barbarie.
 
Porsi a fianco delle vittime della guerra e della violenza e rispettare la libertà dei popoli e il diritto alla autodeterminazione, le memorie sociali e culturali che popoli e comunità esprimono in ogni tempo e in ogni luogo. Corpi di interposizione e Corpi di pace, civili, disarmati, nonviolenti, ritiro dagli scenari di guerra e ripristino di condizioni di dialogo, di interazione e di amicizia, verso Sud e verso Est. Sono, troppo spesso, le nostre guerre, i nostri colonialismi e i nostri stereotipi, ad alimentare, da una sponda all'altra del Mediterraneo, miseria, solitudine, rabbia.
 
Un'occasione per confrontarsi su nuove idee di relazione e nuovi spazi di convivenza per la pace si terrà, già il prossimo lunedì 16 novembre, presso la Chiesa del Purgatorio ad Arco, a Napoli, nella conferenza per la Giornata della Tolleranza: www.facebook.com/events/960045054069615 

martedì 3 novembre 2015

Amici dei popoli del mondo, ma sul serio

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Tra le realtà di movimento più vicine all'impegno internazionalista e più attente nella lettura delle questioni internazionali, è ben nota la dinamica, sovente inquinata da presenze sovraniste, nazionalitarie e rosso-brune, della solidarietà alla Siria e, in particolare, l'articolazione del movimento di solidarietà internazionalista, e, al suo interno, del movimento per la pace e contro la guerra. 

Al suo interno, convivono ben più delle due posizioni schematizzate nella polarizzazione “classica” tra il sostegno acritico e ripetitivo alle forze governative e l'appoggio, altrettanto acritico e ripetitivo, ai c.d. "rivoluzionari", quest'ultimo, talvolta, anche da parte di soggetti associativi apparentemente irreprensibili e insospettabili, spinto fino al punto da richiedere “severe sanzioni economiche” contro le autorità siriane o, peggio ancora, l'imposizione di corridoi umanitari che, tuttavia, come coloro i quali le rivendicano non sanno o fingono di non sapere, non concordate con le istituzioni legittime dei territori interessati e al di fuori di un quadro condiviso di legalità internazionale, almeno su scala regionale, si configurano, né più né meno, come un autentico atto di guerra.

Dovremmo attraversare non con “spirito di fazione”, banalizzando le diverse posizioni come tifo, più o meno scomposto o fanatico, per l'una o l'altra delle realtà in campo, ma con aderenza alla realtà, affrontando e cogliendo la sfida della complessità che la tragedia siriana ci rappresenta, questa vicenda, senza indulgere a schieramenti di campo precostituiti, ma partendo dai dati di fatto, che, sono, nei fondamentali, almeno tre:
 
a) il carattere laico e repubblicano del governo attualmente al potere in Siria;
b) il consenso popolare di cui gode (come segnalato da molte evidenze, in positivo, dai riscontri elettorali, in negativo, dai timori del Dipartimento di Stato in merito a possibili elezioni anticipate in una fase transitoria);
c) l'orientamento delle forze progressiste e dei comunisti siriani (in ampia maggioranza a sostegno o in appoggio al governo del Baath) prima ancora di quelle degli altri Paesi. 

Ciò assodato, si può articolare l'analisi a partire dai principi generali (auto-determinazione, internazionalismo, giustizia internazionale) o dalle circostanze congiunturali (posizionamenti, sviluppi internazionali etc.), tenendo presente comunque che un movimento di solidarietà si muove sul piano sociale (e delle relazioni sociali) prima che su quello istituzionale (e di appoggio, più o meno critico, a questo o quel governo). 

Si tratta di una distinzione di non poco conto e niente affatto nominalistica: ci consente di individuare le vere cause della tragedia in corso che solo in parte affondano nella repressione delle proteste della primavera 2011 ma molto più intensamente hanno a che fare con l'intromissione negli affari interni e il pilotaggio di quelle proteste da parte di attori e fondi legati all'imperialismo degli Stati Uniti e alle petro-monarchie del Golfo Persico; e ci permette di fare luce sulle iniziative di società civile siriana in Siria per il superamento del conflitto e la difesa popolare dalla violenza settaria, in buona parte oscurate dai media mainstream che preferiscono dare ruolo e spazio a centrali di “società civile” legate all'Occidente o addirittura basate nei Paesi occidentali, lontane dalla realtà siriana in nome e per conto della quale pure pretendono di parlare. 

Ovviamente, alla luce di queste note di metodo, il compito, di chiarificazione e di sintesi, che spetta alle forze più avanzate del movimento per la pace e contro la guerra di fronte alla tragedia siriana, non è semplice, è impegnativo ma, pur essendo gravoso, non è più (semmai lo è stato in passato) eludibile. Si tratta di riconoscere e di rispettare la autodeterminazione, la autonomia e la libertà dei soggetti che vivono il conflitto nel proprio Paese e che direttamente ne subiscono le conseguenze: riconoscere la legittimità e il consenso di cui (ancora) godono le istituzioni siriane, porsi a fianco dei soggetti, sociali e popolari, più deboli, che sono anche quelli più esposti alla furia del conflitto e della violenza (soprattutto settaria), e costruire percorsi di conoscenza e di condivisione, oltre che di appoggio e di sostegno, per imparare a ri-conoscere bisogni e istanze della società siriana, nelle sue articolazioni più mature, democratiche e avanzate, che, di norma, anche per storia, poco hanno a che fare con gli interessi dell'imperialismo e dei suoi proconsoli. 

Anche in questo caso, si tratta, da un lato, di stigmatizzare la violenza, dall'altro di precisare il perimetro del nostro campo di azione come movimento per la pace e contro la guerra, di fronte alla tragedia siriana; il che non vuol dire imporre l'unica linea (nessun coordinamento si muove in maniera monolitica) bensì escludere quelle posizioni i cui presupposti impediscono la possibilità di una cooperazione basata su principi di rispetto dell'autonomia e dell'autodeterminazione dei popoli. Sappiamo tutti che è difficile, essere, al tempo stesso, inclusivi, plurali e rigorosi, e però è uno sforzo che va compiuto, dal momento che, come giustamente si diceva, l'alternativa, di fatto, ad una sintesi avanzata è il pilatismo o il ne-ne-ismo. Sono tutte tendenze deprimenti, che inibiscono la possibilità di coordinamenti autenticamente inclusivi e di iniziative politicamente efficaci. Tendenze già viste e contrastate, laddove i movimenti hanno avuto modo di intercettarli e misurarli.