sabato 26 novembre 2016

Per Fidel

Fidel: Immagine di Copertina, Rifondazione Comunista, Facebook

Tutte le persone che hanno a cuore le sorti dell'umanità; tutte le persone che credono nei valori più alti della umanità, la dignità, la libertà, la giustizia, l'eguaglianza, la condivisione; tutte le persone che ritengono, sinceramente, in cuor loro, concretamente, con le loro azioni, di battersi per la emancipazione e la liberazione da ogni forma di oppressione e di sfruttamento dell'uomo sull'uomo; ecco, sono tutte queste le persone, moltitudini ad ogni angolo del globo, che avvertono, in cuor loro, e lo manifestano, laddove possibile, il dolore profondo per la scomparsa, quest'oggi, di Fidel Castro.
 
Avvocato e lottatore sociale, per la causa dei diritti e della giustizia, dell'affrancamento e della emancipazione; rivoluzionario e guerrigliero, che non ha esitato di fronte ai passaggi più gravi della storia del suo popolo e del suo Paese, che ha vissuto in prima persona, da protagonista, e di cui ha scritto una pagina memorabile, che sopravviverà alle epoche, da autentico creatore di storia, artefice di trasformazione, protagonista del cambio; capo di stato, leader di partito, costruttore della mobilitazione sociale; ispiratore di alcune tra le pagine più belle di storia della solidarietà internazionale della seconda metà del Novecento e perfino, con le sue riflessioni, in questo scorcio di Duemila.
 
Leader rivoluzionario, a Cuba; promotore, con Chavez, dell'Alba dei Popoli dell'America Latina, nel suo continente; tra gli ispiratori del Movimento dei Non Allineati, nel mondo; colui che ha saputo rivendicare “l'amicizia con tutti i popoli del mondo, anche con quelli i cui governi ci sono nemici”; baluardo contro l'imperialismo e contro l'egemonismo degli Stati Uniti e dei loro alleati, ripetutamente sconfitti, in tutti i loro tentativi di aggressione e di rovesciamento dell'Isola e in tutti i forum internazionali dove sono stati fatti valere i principi della sovranità dei popoli, del rispetto dei diritti, del primato della eguaglianza, della autodeterminazione dei popoli, della non ingerenza nel libero corso dello sviluppo, storico e sociale, dei popoli del mondo; interprete, fedele e coerente, del protagonismo del popolo come protagonismo delle masse popolari, sin da quando rivendicava che:
 
«Intendiamo per popolo, quando parliamo di lotta, la grande massa irredenta, quella a cui tutti offrono e quella che tutti ingannano, quella che anela una patria migliore, più degna, più giusta […] Noi chiamiamo popolo, se di lotta si tratta, i seicentomila cubani che stanno senza lavoro, desiderosi di guadagnarsi il pane con onore, senza dover emigrare dalla propria patria in cerca di sostentamento; i cinquecentomila operai stagionali della campagna che abitano in baracche miserabili, che lavorano quattro mesi e soffrono la fame per il resto dell'anno, dividendo con i propri figli la miseria, che non hanno un fazzoletto di terra per seminare e la cui esistenza dovrebbe muovere a più compassione se non ci fossero tanti cuori di pietra; i quattrocentomila operai industriali e braccianti le cui pensioni sono rapinate, [...] la cui vita è il lavoro perenne, il cui riposo è la tomba; i centomila piccoli agricoltori che vivono e muoiono lavorando una terra che non è loro, contemplandola sempre, tristemente, come Mosè alla terra promessa, per poi morire senza mai giungere a possederla, che devono pagare per i fazzoletti di terra, come servi feudali, una parte dei propri prodotti, che non possono amarla, né migliorarla, né abbellirla, o piantare un cedro o un arancio perché non sanno se un giorno verrà un funzionario a dirgli che deve andarsene; i trentamila maestri e professori, tanto pieni di abnegazione e di sacrifici, e necessari al destino migliore delle future generazioni e che tanto male li si tratta e li si paga; i ventimila piccoli commercianti appesantiti dai debiti, rovinati dalle crisi, ammazzati dalla piaga di funzionari filibustieri e venali; i diecimila giovani professionisti: medici, ingegneri, avvocati, veterinari, pedagoghi, dentisti, farmaceutici, giornalisti, pittori, scultori, etc., che escono dalle aule con i propri titoli, desiderosi di lotta e pieni di speranza, per trovarsi poi in un vicolo senza uscita, tutte le porte chiuse, sorde alle suppliche e sorde al clamore.
 
«Questo è il popolo! Quello che soffre tutte le sue disgrazie ed è capace di combattere con tutto il suo coraggio! A questo popolo non andavamo a dire: “Ti daremo” ma semmai: “Ecco, prendi, lotta ora con tutte le tue forze, perché siano tue la libertà e la felicità!”».
 
Si interrompe il viaggio terreno, si consegna all'orizzonte dei grandi, uno dei giganti del Novecento: Fidel Castro Ruz, Birán, 13 agosto 1926 - L'Avana, 25 novembre 2016: marxista, rivoluzionario. 

lunedì 19 settembre 2016

Quale Sinistra, un testo per interrogarci

Pubblico Dominio, commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=47410088

Appena pubblicato (settembre 2016) nella collana “Atena” delle edizioni Rogas, il volume di Tonino Bucci e Giulio Di Donato, Quale Sinistra, si iscrive nell'ambito della più recente pubblicistica dedicata al tema della sinistra, alle forme e alle pratiche di una moderna ed attuale sinistra politica, alle condizioni e alle condotte dell'agire politico nel tempo presente della crisi e dello smarrimento, e si propone come saggio politico sul tema della “rifondazione della sinistra”, ovvero della praticabilità stessa della sinistra politica “oggi”.
 
In questo senso, l'agile volume (112 pagine) rappresenta un contributo - senza enfasi - importante, sia nel senso di un utile presupposto per successivi approfondimenti ed ulteriori elaborazioni (ed in questo senso rivela forse la sua vitalità più interessante), sia nella direzione di un prezioso strumento di lavoro per quanti, militanti ed attivisti, intellettuali e simpatizzanti, animatori della battaglia politica o protagonisti delle mobilitazioni sociali, sono oggi impegnati nel cimento della costruzione di una nuova soggettività politica della sinistra o - in termini più immediati - di un rinnovato referente politico dell'iniziativa sociale.
 
I successivi approfondimenti e le ulteriori elaborazioni cui il volume naturalmente si offre seguono le chiavi di lettura entro le cui coordinate il testo pare offrire il meglio della propria riflessione, condotta generalmente con un linguaggio piano ed efficace, lontano, il più delle volte, da “politicismi” e “tecnicismi”, ed una prosa elegante e lineare, adeguata a tratteggiare il profilo di un “pensiero lungo” che, pur non potendo il volume scandagliare ed approfondire, si rivela adeguato all'obiettivo della pubblicazione e si pone, in quanto tale, “controcorrente”, alieno, per fortuna, tanto alla “frase ad effetto” quanto al vuoto “luogo comune”.
 
Sebbene i tre piani di lettura che il volume offre siano piuttosto asimmetrici, essi tuttavia sono altrettanto facilmente delineati tra le pagine del “discorso”: in primo luogo, una riflessione sulle forme della politica, a partire dal linguaggio, dalla comunicazione e dal contenuto relazionale dell'agire politico, che occupa le prime pagine del volume e si lega idealmente alla sua conclusione, coerentemente protesa alla individuazione di suggestioni utili (sotto il profilo teorico-politico e nella linea di orizzonte politico-programmatica) per la “Sinistra” che sarà; in secondo luogo, una disamina circa la funzione politica della soggettività, l'orizzonte politico dell'agire umano e la sfera della politica come campo di relazione e pratica dell'organizzazione sociale (con riferimenti più approfonditi ad Aristotele e Machiavelli che a Platone e Marx); in terzo luogo, una ricapitolazione del «come eravamo» e dei presupposti storico-politici e storico-economici della crisi della sinistra e del fallimento delle proposte di sinistra che - nell'Europa continentale in primo luogo - si sono succedute nel corso delle ultime due generazioni, nell'arco degli ultimi, grosso modo, quaranta anni.
 
Gli argomenti che il volume passa in rassegna, sinteticamente e rapidamente, non sono pochi: ciò concorre a stimolare costantemente il lettore e a regalargli una lettura agile e vivace; d'altra parte, lascia senza risposta alcune domande (non male, se pensiamo agli ulteriori approfondimenti che si rendono necessari) ed è costretto a «tagliare con l'accetta» alcune questioni, forse marginali nello scenario più complessivo, ma non per questo meno rilevanti per il lettore italiano. Come ad esempio quando gli Autori affermano che «non se la passa bene la sinistra residua del PD renziano, che ha definitivamente traghettato l'elettorato tradizionale del partito verso altre simbologie e suggestioni, declinate sulla questione del potere e della sua amministrazione» (p. 11); ovvero, poco dopo, quando definisce il maggiore dei partiti della “sinistra a sinistra” del centro-sinistra, «Rifondazione attaccata pervicacemente alla «questione comunista» (p. 12).
 
Non è così, si potrebbe dire semplificando, nell'uno come nell'altro caso. Quella che altri osservatori hanno definito la «mutazione genetica» del PD, lungi dal consistere nella mera sussunzione del suo spettro politico nella «questione del potere e della sua amministrazione» (questione dirimente, ma non esclusiva), consiste invece nel compimento stesso della sua parabola, “in nuce” nel PDS e “deflagrata” al Lingotto, riformista, compimento che fa oggi il PD, meno banalmente che partito neo-liberista o neo-centrista, tra i più coerenti interpreti in Europa del riformismo neoliberale, ispiratore del cosiddetto “centrosinistra degli anni Novanta”, alla Tony Blair (non a caso uno dei punti di riferimento ideologici, con Bill Clinton, dello stesso Renzi).
 
Verrebbe da dire - con una battuta - se questa cornice di riferimento resta valida, magari fosse «Rifondazione attaccata pervicacemente alla «questione comunista». Al contrario, ciò che impedisce oggi a Rifondazione Comunista di porsi credibilmente, da protagonista, al centro di un processo di rigenerazione ed innovazione della sinistra di trasformazione non è tanto l'attaccamento alla «questione comunista» (pur essendosi fortemente ridotta la capacità di innovazione politico-ideale e di interlocuzione con i più recenti fermenti sociali che questo partito è oggi in grado di esprimere), quanto piuttosto la sua incapacità di rigenerazione, di rinnovamento dei gruppi dirigenti, di ridefinizione della sua articolazione organizzativa, di ridefinizione della sua linea e di aggiornamento della sua prospettiva. Non si tratta, cioè, della «questione comunista», ma della riproposizione della questione comunista in quanto aggiornata e adeguata alle contraddizioni del presente.
 
In questo senso, il volume ha il merito di porre a tema la domanda centrale: quale prospettiva offrire alle contraddizioni del presente, ovvero, più semplicemente, quali coordinate entro cui modernamente declinare la questione, vitale per la sinistra, della “emancipazione dal bisogno”, della “liberazione dallo sfruttamento” e, di conseguenza, della trasformazione della società. A tale domanda non si può rispondere - semplicemente - con la declinazione dei principi del socialismo; si deve affrontare il “corpo a corpo” con la realtà, segnata dalla crisi strutturale del capitale, individuare il tono prevalente delle contraddizioni sociali e le matrici salienti delle odierne forme di sfruttamento, oppressione e marginalizzazione, caratterizzare una proposta conseguente, che sappia coniugare la prospettiva del potere politico con quella della liberazione sociale.
 
Se, da una parte, «la politica contemporanea ha restituito attualità alla questione della lingua come rapporto tra élite e popolo e, di conseguenza, la sua crisi può essere letta alla stregua di un disturbo linguistico» (p. 16), dall'altra l'obliterazione del tema dei rapporti di forza all'interno della società e la semplificazione del conflitto a mera questione “tra élite e popolo” apre la strada a una vera e propria aberrazione sociale e politica, quella di fare del popolo il soggetto unitario (che non è) della domanda di cambiamento e di trasformazione.
 
Come giustamente ricordano gli Autori più avanti, la questione sociale precipita non in una domanda di cambiamento “quale che sia”, ovvero in una mera “evocazione” del cambiamento, bensì in una proposta “positiva” di cambiamento sociale e politico, che non lo riduca ad una mera funzione linguistica, bensì lo consolidi in una istanza di trasformazione: non a caso, oggi, «il risveglio della politica in Europa [...] sembra avvenire solo a vantaggio di forze populiste che si alimentano di sentimenti esclusivamente “negativi”, di paura, insicurezza, frustrazione, ansia di perdere senso e identità» (p. 26). 

Come è vero che «in tutti i movimenti di protesta nati in Europa negli ultimi anni ed etichettati dal mainstream dei media come populismi [pur con tutte le loro differenze] - da Podemos al M5S - si può rintracciare lo stesso meccanismo di contrapporre nel discorso politico “alto” e “basso”, élite e popolo, governanti e governati (p. 43)», così è almeno altrettanto vero che nel discorso populista si può incardinare un dispositivo di potere (o funzionale al potere), molto meno una efficace politica di trasformazione sociale e di liberazione dei soggetti più esposti, più deboli, più vulnerabili, della società capitalistica (come peraltro la stessa parabola del M5S potentemente conferma). D'altro canto, «ovunque vi siano inquietudini, disagi, aspettative andate a vuoto, gli individui possono dare vita a nuovi soggetti politici. Nessuna comunità può ritenersi al riparo da fratture» (p. 40).
 
Nel passaggio dalla cornice analitica alle indicazioni programmatiche, il volume rivela alcuni altri tratti interessanti. Fa proprio l'orientamento di chi ritiene, con Gramsci, la dialettica tra fattori oggettivi ed elementi soggettivi e la definizione del soggetto sociale della trasformazione gli elementi cruciali di questo cimento rivoluzionario. Assume la prospettiva, diametralmente opposta alla “ragione populista”, della «chiamata alla lotta politica rivolta all'intero mondo dei vecchi e nuovi sfruttati (disoccupati, precari, lavoratori dipendenti, partite IVA alle prese con diminuzione dei diritti e tagli dei compensi etc.), sul modello “proletari (vecchi e nuovi) di ogni dove unitevi e organizzatevi” (p. 72)», come istanza decisiva ai fini della ridefinizione di un blocco sociale di riferimento. Riconosce, sempre a proposito della dialettica tra fattori oggettivi ed elementi soggettivi, che «la rinascita della sinistra è ora suscitata da un evento, da una rottura (il lungo ciclo di lotte sociali in Grecia o l'irruzione degli indignados in Spagna). Nel frattempo, si fa largo un bisogno forte di rottura e radicalità a sinistra, lo stesso che matura anche fuori dai nostri confini, basti pensare al successo di Corbyn in Gran Bretagna e al fenomeno Sanders negli Stati Uniti» (p. 75).
 
E tuttavia cade, nello sforzo di sintesi con cui si cimenta, in una contraddizione, da un lato proponendo di «ripartire dal grado zero della politica, dal suo abc, dal suo senso... più profondo e autentico. Quasi un ritorno alla fine dell’Ottocento» (p. 71); dall'altro, poco oltre, di recuperare l'orizzonte del socialismo come “cruciale” ai fini della emancipazione sociale e della trasformazione generale. Ovviamente, «perché valga ancora il richiamo a un orizzonte di socialismo, inteso come [...] liberazione umana dallo sfruttamento e dalla alienazione, come capacità effettiva e concreta di partecipare all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese […]. Perché senza quella tensione, ... si rischiano nuove subalternità e nuovi ripiegamenti». 
 
Ci si riconnette, per questa via, come accennato più sopra, alla parte iniziale del volume: ma forse, più che superare «divisioni e identità del secolo scorso (riformisti-rivoluzionari, socialisti-comunisti), per recuperare il senso ultimo della propria missione politica» (p. 82), si tratta, soprattutto alla luce delle responsabilità della cosiddetta sinistra “riformista” nel precipizio di crisi, smarrimento ed anonimia nel quale è caduta l'Europa, proprio di precisare il senso di questa missione politica, contro l'asettico riformismo della terza via, del blairismo e del neo-liberalismo, nella direzione, viceversa, di una rigenerata e rinnovata potenzialità rivoluzionaria, in grado di parlare il linguaggio e di comporre le pratiche della giustizia e della libertà. 

mercoledì 15 giugno 2016

Autonomia?

http://napolincomune.it

A questo punto, a mente più fredda, si può tirare un primo bilancio dal primo turno delle elezioni amministrative del 5 giugno, ma anche una qualche valutazione politica "a valle" dei fiumi d'inchiostro spesi, spesso lucidamente, in bilanci, analisi e valutazione dei risultati.

Quanto ai bilanci, non li riproporrò certo in questa occasione; mi limito a riportare alcuni link, che possono costituire, caso mai fossero sfuggiti, utili strumenti di riflessione: almeno intorno ai trend elettorali in voti assoluti (qui); al dimensionamento, in prospettiva nazionale, del risultato dei cinque stelle (qui); all'andamento, a macchia di leopardo, dei risultati conseguiti dalla "sinistra a sinistra" del PD (qui).

Quanto alle valutazioni, è qui che occorrerebbe un "di più", anche da sinistra, di coraggio e di realismo, insieme. E' vagamente auto-assolutorio, infatti, ribadire - o, tanto peggio, enfatizzare - che queste elezioni amministrative non fossero il banco di prova di Sinistra Italiana. E' ovvio che non possono costituire il perimetro entro cui giudicare la validità dell'impresa politica appena messa in campo.

Tuttavia, è almeno altrettanto ovvio che si è trattato di un appuntamento importante, di portata nazionale, lungamente previsto e preparato, su cui misurarsi non solo in termini di "voti assoluti" ma anche in termini di recupero dal non-voto, di qualità della proposta programmatica a livello locale, di efficacia delle candidature avanzate.

I risultati, sotto questi profili, sono a luci ed ombre, spesso deludenti, soprattutto laddove le forze costituenti di Sinistra Italiana si sono presentate divise all'appuntamento elettorale, Milano, per importanza e per rilievo, su tutte. E' stato detto qui, e bene: occorre una revisione del percorso intrapreso e la correzione degli errori compiuti.

Senza cedimenti al populismo e improvvidi endorsement ai cinque stelle; piuttosto, tornando a mettere al centro la questione dell'eguaglianza, a partire dalla messa in discussione degli attuali rapporti di produzione e di potere, il nodo vero in cui precipitano tanto il discorso sul neoliberismo quanto quello sull'austerity.

Non servono "ricette per l'osteria dell'avvenire", ma, appunto, "individuare le contraddizioni" per "basare la rivoluzione su qualcosa di necessario". Occorre impegnarsi nella elaborazione, insieme con i soggetti portatori di bisogni sociali, di un profilo politico e di una griglia programmatica per cogliere "il necessario" su cui gettare "le basi". Solo sulla scorta di un tale profilo (riconoscibile) e di una tale proposta (fondata), si potrà centrare, in maniera costitutiva e non parolaia, il tema della "autonomia".

Che altrimenti sarà sempre schiacciata tra altre parole (isolamento, irrilevanza, autoreferenzialità) e, come altre parole tra parole, consegnata al suo destino e davvero mai, nella concretezza, vissuta e praticata. 

mercoledì 8 giugno 2016

Cosa ci dicono queste elezioni: una riflessione a ragion veduta

Niccolò Caranti [CC BY-SA 3.0 (creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)] Wikimedia

La necessità di articolare una riflessione e dedurre una valutazione dagli esiti delle ultime, recenti, elezioni comunali, il cui primo turno si è celebrato domenica 5 giugno, è contenuta nelle cifre, prima ancora che nelle intenzioni: con 1342 comuni al voto, di cui 26 capoluoghi, che hanno impegnato, anche in città di primaria importanza, oltre 13 milioni di elettori, sono vere infatti entrambe le affermazioni, che si è trattato di un voto “amministrativo” per eleggere i consigli e i sindaci delle città, ma anche di un voto “politico”, vale a dire, per estensione ed impatto, di un voto locale di portata nazionale e dal notevole rilievo politico. Questo rilievo è segnato da almeno tre aspetti su cui la consultazione, con tutto il suo impatto, ha inciso: la ricezione da parte dell'elettorato delle declinazioni locali del progetto renziano, soprattutto laddove le candidature espresse dal PD erano direttamente ispirate dal presidente del consiglio e dalla sua maggioranza; la consistenza delle aree politiche intorno alle quali si svolge, da almeno tre anni a questa parte, il confronto e la dialettica politica nel nostro Paese, vale a dire il PD e quanto ruota attorno alla sua “vocazione maggioritaria” nella variante renziana; la destra, nelle sue due declinazioni attuali, quella berlusconiana “tradizionale” e quella leghista “lepenista”, e il M5S con l'insieme delle pulsioni qualunquiste e protestatarie che in esso si coagulano.

Tra le maggiori città italiane sono state coinvolte nella tornata elettorale del 5 giugno, almeno, Torino, Milano, Trieste, Bologna, Roma e Napoli: da Nord a Sud, simultaneamente, quasi tutte le grandi città e una miriade di centri medi e piccoli consentono dunque di tastare il polso dell'elettorato, di misurare non solo la qualità delle singole proposte elettorali dei candidati sindaco e della moltitudine variegata dei candidati ai consigli municipali, ma anche il carattere delle tendenze politiche salienti, in questa fase, nel nostro Paese, in un anno, peraltro, decisivo per la sua vicenda politica più complessiva, della quale questa tornata viene a fungere da crocevia, tra l'appuntamento referendario dello scorso aprile, sui temi energetici ed ambientali, e quello “diversamente referendario” del prossimo ottobre, sui temi della revisione costituzionale contenuta nel c.d. DDL “Renzi-Boschi”. Quasi ovunque, nelle grandi città, si va al ballottaggio; avanzano tendenze nuove nella fase politica generale, pur nella specificità delle diverse situazioni locali; in alcuni casi emergono indicazioni del tutto innovative ed originali, che potrebbero, se consolidate nel prossimo turno di ballottaggio (19 giugno) e nella stagione politica che si aprirà, segnalare nuove tendenze ed aprire inediti scenari.

A Torino, tutte e tre le tendenze indicate in premessa sembrano confermate: da una parte la divisione e la frammentazione delle destre escludono l'area del centrodestra tradizionale del ballottaggio (i candidati della Lega Nord e di Forza Italia, non superano, rispettivamente, il 9% ed il 6%); dall'altra l'ipotesi della continuità con una esperienza amministrativa consolidata (il PD con il candidato sindaco uscente Piero Fassino al 42%) viene incalzata dall'opzione della protesta e, per alcune istanze, del rinnovamento (con il M5S che, con la candidata Chiara Appendino, arriva al 31%). Al netto delle liste civiche che hanno sostenuto la candidatura di Fassino, il PD a Torino sfiora il 30%, sostanzialmente lo stesso risultato conseguito dal M5S come partito, con un'affluenza al voto segnata da un forte astensionismo e pari ad appena il 57% degli aventi diritto.

A Milano la situazione è invece del tutto diversa: laddove le aree politiche prevalenti riescono a compattarsi e la polarizzazione della campagna elettorale, al netto dell'effettiva alternatività delle proposte di programma, è più marcata, si riafferma la classica contrapposizione «centrosinistra vs. centrodestra» ed il M5S viene escluso dal ballottaggio, fenomeno sul quale influiscono, nel caso milanese, anche altri fattori, quali il giudizio (genericamente positivo) sull'amministrazione uscente, la conseguente riduzione degli spazi politici per una mera opzione protestataria e la qualità della candidatura proposta. I “manager gemelli” (Giuseppe Sala, per il centrosinistra, con il 42%, e Stefano Parisi, per il centrodestra, con il 41%, separati da una forchetta di appena 5 mila voti) si contenderanno al ballottaggio l'elezione a sindaco della fu “capitale morale” del Paese, in uno scenario comunque significativo, in cui il PD non raggiunge il 30%, Forza Italia doppia la Lega Nord (20% contro 12%) e il M5S a malapena supera il 10%, con un'affluenza appena al 55%.

A Trieste è, invece, la destra ad affermarsi al primo turno, anche in questo caso marcando una buona affermazione, ricompattando il campo del centrodestra tradizionale: Forza Italia e Lega Nord, insieme, con i rispettivi alleati, consentono al proprio candidato, Roberto Dipiazza, di superare il 40%, costringendo il PD e gli alleati, a sostegno di Roberto Cosolini, al ballottaggio con un consenso non superiore al 30% ed escludendo, anche qui, il M5S, fermo al 19%, dal secondo turno. Situazione ben diversa a Bologna dove peraltro, a fronte di un calo della partecipazione (ferma al 60%), il candidato del PD, Virginio Merola, sfiora il 40%, col PD attestato al 35%, mentre la costellazione della destra, a sostegno di Lucia Borgonzoni, si ferma al 22%, con la Lega Nord che doppia Forza Italia (il 10% contro il 6%). Anche qui, il M5S è fuori dal ballottaggio, sotto il 17%, in un contesto in cui si registrano, tra gli altri, una significativa perdita di consenso del M5S (pari a ca. il 6%) ed un flusso di voti dallo stesso M5S (pari a ca. il 2%) alla candidata della destra.

Roma, in questo quadro, è uno scenario a sé, sul quale non solo precipitano le contraddizioni della precedente fase politica (segnata dallo scandalo della c. d. “Mafia Capitale”) e della più recente stagione commissariale, ma si riverberano anche gli effetti di una vicenda politica particolarmente esposta in chiave nazionale, come dimostrano il risalto mediatico e il profilo delle candidature che qui si sono cimentate. Tutte condizioni ideali per favorire non solo le dinamiche polarizzatrici ma anche le pulsioni protestatarie, ampiamente dimostrate dal successo del M5S, la cui candidata, Virginia Raggi, è prima con il 35% (il M5S ha lo stesso 35%), mentre il centrosinistra ad ispirazione renziana, con Roberto Giachetti, si attesta al 25% (il PD è addirittura al 17%), a fronte di una partecipazione al voto superiore rispetto alla tornata precedente (57%) e di una consistente tendenza “a destra” dell'elettorato, con l'opzione “lepenista” di Giorgia Meloni nettamente in vantaggio su quella “berlusconiana” di Alfio Marchini (praticamente doppiato, 21% contro 11%) e quasi 15 mila voti assoluti (pari all'1.2% dell'intera platea elettorale) ai neofascisti di Casa Pound. Per il M5S è giunta subito l'indicazione di voto, al ballottaggio, da parte della Lega Nord di Matteo Salvini.

Napoli, in chiave completamente diversa rispetto alle indicazioni romane, rappresenta, in questo contesto, l'altra vera novità di queste elezioni: il sindaco uscente, Luigi de Magistris, compone una coalizione ampia, composta da forze democratiche, civiche e di sinistra, sfiorando il 43%; un centrodestra tradizionale costruito intorno a Forza Italia, con la candidatura di Gianni Lettieri, raggiunge il 24%; il centrosinistra ad ispirazione renziana, con la candidatura di Valeria Valente, precipita al 21% e il PD addirittura crolla sotto il 12%, sua peggiore performance; infine a Napoli, il M5S non raggiunge il 10%, mentre la sinistra, nel contesto civico-progressista della coalizione, per quanto trasversale, incarnata dal sindaco, sfiora un notevole 5.5%. Tale opzione civico-progressista, peraltro, risulta performante nei confronti dell'elettorato “a cinque stelle” (per una misura superiore al 6%) ed attraente anche per l'elettorato tradizionale del centro-sinistra (5%).

Teniamo a mente queste indicazioni, nel passare alla lettura dei dati elettorali della sinistra, vale a dire dell'area progressista a sinistra del PD che, laddove si è presentata unita, ha proposto il modello delle “città in comune”, sull'esempio di Podemos e di “Barcelona en Comú”: una proposta che si è rivelata efficace, laddove ha saputo coniugare unitarietà e radicalità, capace cioè di esprimere contenuti forti, avanzati, incisivi e di rappresentarsi come “utile” alla vittoria di un campo, in termini generali, “democratico e progressista”, come nel citato caso di Napoli e nel caso, qui non analizzato, di Cagliari, che ha confermato il sindaco “arancione”, Massimo Zedda, al primo turno (51%) e che ha visto la sinistra conquistare un buon successo (8%); proposta che invece si è rivelata fallimentare dove hanno pesato le divisioni fratricide, come a Milano (Milano in Comune arriva al 3.5%) e le contraddizioni interne, come a Roma (Sinistra per Roma sfiora il 4%). Sebbene Bologna proponga un ulteriore elemento positivo per le forze della sinistra (la “Coalizione Civica” è al 7%), anche a Torino il risultato della lista (Torino in Comune) è assai al di sotto delle aspettative (sotto il 3%), così come le due liste della sinistra a Trieste (dove SEL ha il 2.4% e la “Sinistra Unita” l'1.8%).

È possibile, alla luce dei dati e dei flussi, sin qui illustrati, riassumere il prevalente politico della situazione:

1. in primo luogo, nel tripolarismo di fatto che caratterizza l'attuale scena politica, i due campi tradizionali (“centrosinistra” e “centrodestra” per intenderci) restano i due poli maggioritari e, dove riescono a conseguire una “soglia minima accettabile” di unitarietà al loro interno, ridimensionano fortemente il M5S, al netto, ovviamente, della carica protestataria che tale movimento continua ad incarnare; si tratta di una indicazione non indifferente, confermata peraltro dal computo in voti assoluti e sapendo che le elezioni amministrative privilegiano molto più la qualità della proposta locale piuttosto che la presa di una suggestione nazionale;

2. in secondo luogo, sullo sfondo dei tre campi politici salienti, si agita una scena sociale particolarmente variegata e frastagliata, carica di tensioni e contraddizioni: da un lato si esprime una domanda di cambiamento che le (vere o presunte che siano) innovazioni e modernizzazioni proposte dal PD di Renzi solo in parte sono in grado di intercettare e su cui continua ad insistere la proposta e la propaganda del M5S; dall'altro si esprime al contempo un disagio sociale particolarmente forte, legato alla progressione della crisi economico-sociale, al peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro di larghi strati, soprattutto giovanili e marginali, della popolazione e al deterioramento delle condizioni materiali di esistenza, nei centri urbani grandi e piccoli;

3. in terzo luogo, questo terreno sociale, espressione di sofferenza sociale e disagio diffuso, non ancora riesce a trovare, con tutto quanto si è visto sin qui, un proprio terminale politico, una proposta politica, completa e compiuta, all'altezza, al tempo stesso, della complessità dello scenario di crisi che si manifesta e della durezza della transizione che il Paese, nel suo insieme, sta attraversando. Il risultato delle forze della sinistra in questa tornata amministrativa è molto più una funzione della qualità della proposta politica che viene avanzata che non della omogeneità delle formule nelle quali si viene rappresentando. Più che di contenitori e di formule, si avverte sempre più urgente l'esigenza di una connessione con gli strati del bisogno e delle periferie, di un profilo programmatico netto e riconoscibile, di una collocazione chiara e niente affatto ambigua. 

sabato 9 aprile 2016

Elezioni 2016: il banco di prova per la Sinistra Italiana

Parte 2: 
la sinistra di progresso e il ruolo dei comunisti

Mettiamo a raffronto le parole e i fatti:

proviamo a verificare la consistenza degli enunciati e misuriamo la credibilità delle proposte su un banco di prova tutto politico, il passaggio complesso delle prossime elezioni amministrative. Un vero e proprio banco di prova per la sinistra in Italia: per le dimensioni (saranno chiamati alle urne i/le cittadini/e di oltre 1300 comuni, con 25 capoluoghi, tra cui: Torino, Milano, Bolzano, Trieste, Savona, Bologna, Ravenna, Rimini, Roma, Caserta, Napoli, Salerno, Cosenza, Cagliari, per un totale di circa 13 milioni di elettori); per la portata (al giro di boa della legislatura, al turno di svolta del governo e alla vigilia del referendum costituzionale che sarà cartina di tornasole della tenuta del disegno renziano); e per la prospettiva (la definizione di un campo della sinistra e la costruzione di una sinistra unitaria non riducibile al centro-sinistra, volutamente con il trattino, in alternativa al PD e al progetto neo-riformista di Matteo Renzi).
Se il PD, come si è provato a delineare in altro contesto, è la forma attuale, storicamente determinata, del riformismo italiano, ormai lontano dalla tradizione laburista e socialdemocratica novecentesca, semmai affine agli odierni riformismi europei a forte ispirazione liberale, la questione che si impone è quella della definizione di un profilo e della affermazione di una autonomia della “sinistra a sinistra” del PD. Molto enunciata, talvolta praticata, la questione della autonomia politica della sinistra non-riformista è, purtroppo, disattesa proprio laddove sarebbe stato più necessario praticarla e forse, persino, più semplice organizzarla.
A Milano, uno schieramento civico “di sinistra”, tra cui SEL, movimento arancione, movimenti verdi, in via ufficiale e ad ampia maggioranza, sostiene Giuseppe Sala: “manager” o, come si diceva un tempo e con maggiore pregnanza, “capitano di industria”, prima in Pirelli poi in Telecom, commissario monocratico di EXPO, dove ha lasciato una scia di polemiche, dalla vicenda degli stage di lavoro non retribuito a quella di un presunto "rosso" di bilancio denunciato dalla stampa ma smentito dal diretto interessato, passando per l'esperienza di city manager milanese in quota centrodestra, con quella che non pochi reputano la peggiore giunta municipale, insieme con quella di Gabriele Albertini, che la città abbia avuto nella sua storia, vale a dire quella di Letizia Moratti.
A Roma, SEL è costretta a smentire l'intenzione di una sua frazione di dare corpo ad una lista di “sinistra del centro-sinistra” a sostegno di Giachetti; mentre altre parti del partito denunciano i limiti della candidatura di Fassina perché “troppo connotata” e “poco inclusiva”. D'altro canto, avere assegnato priorità all'ampliamento del campo di consenso elettorale piuttosto che alla precisazione del profilo politico, ha condannato l'intera sinistra romana ad una sorta di moto perpetuo, un continuo andirivieni tra nomi noti e meno noti al grande pubblico (Fassina, Marino, Bray), con l'unico effetto di logorare persino questo percorso. A Napoli, a riprova della complessità del quadro, è proprio l'aggregazione che muove intorno a Fassina a rompere il percorso unitario della sinistra a sostegno della ricandidatura del sindaco uscente Luigi De Magistris.
Se il terreno della “unità” era dunque già perso in partenza, per lo meno a partire dalla disattenta regia politica e dalle sorprendenti modalità di partecipazione alle primarie del centro-sinistra milanese, il terreno della “autonomia” ugualmente fatica a prendere corpo e, purtroppo e sorprendentemente, fa più fatica proprio laddove sarebbe più facile intraprendere questa strada e cioè nei comuni laddove la composizione elettorale è la rappresentazione plastica del progetto renziano; ovvero, detto in altri termini, laddove sarebbe stato maggiore sia lo spazio sia la praticabilità di un'opzione di sinistra, al contempo, popolare e combattiva: vale a dire a Milano, con Sala, dove la lista arancione e la maggioranza di SEL si ridurranno ancora a fare la “sinistra di (questo) centro-sinistra” e a Roma, con Giachetti, dove l'evocazione continua della rinascita del “centrosinistra” - stavolta senza trattino e perfino in accezione ulivista - minaccia di logorare le candidature a sinistra.
E se a Torino la vicenda politica della giunta uscente e il profilo politico della candidatura renziana, unite alla riconoscibilità della candidatura di sinistra con Giorgio Airaudo, hanno consentito la costruzione di un percorso efficacemente autonomo ed unitario a sinistra, le cose non vanno di conserva negli altri comuni maggiori al voto: a Trieste, SEL conferma la propria collocazione dentro il centrosinistra, a differenza di Rifondazione Comunista che se ne colloca, anche polemicamente, al di fuori; a Bologna, la sinistra si è letteralmente frammentata, con una parte che seguirà una lista civica ispirata da Amelia Frascaroli, assessore al welfare, a sostegno di Merola, un'altra che ha dato vita alla “Coalizione Civica” che, in una propria consultazione interna, ha indicato in Federico Martelloni il proprio candidato sindaco, e un'altra ancora, quella che fa riferimento a Rifondazione Comunista, orientata invece a “uscire da sinistra” dalla Coalizione stessa, con una scelta che altre parti dello stesso partito hanno comprensibilmente stigmatizzato come minoritaria e suicida; infine, a Cagliari, si ripete, a parti invertite, l'esperienza di Trieste, dove la sinistra, in via maggioritaria, esprime il proprio appoggio al sindaco uscente, Massimo Zedda, che governa con il PD pur non essendone espressione e per la cui campagna il PD intende “aprire al centro”, replicando così uno schema neo-centrista.
In questo scenario, un “partito” nuovo, forse persino un partito “di tipo nuovo”, proprio nel cimento tortuoso di questa fase politica, intende muovere le prime mosse e, pressoché inevitabilmente, si viene, politicamente e programmaticamente, componendo, al di là delle intenzioni e dei proclami. Da una parte, Sinistra Italiana nasce con l'intento dichiarato di dare corpo ad una nuova aggregazione politica a sinistra, unificare le soggettività politiche e sociali genericamente collocate “a sinistra del PD”, formare, più sulla base della volontà politica dei proponenti che sulla spinta di una reale mobilitazione sociale, “un partito” della sinistra, aperto, plurale, popolare. Dall'altra, sebbene dichiari l'esigenza - alternativamente - del “mescolamento” e della “rigenerazione” delle diverse biografie, storie e culture politiche di provenienza, Sinistra Italiana si muove, alla prova dei fatti e alla luce dei riscontri, più come un “aggregatore” che come un “partito”, incerto nella declinazione tanto della “unitarietà” quanto della “autonomia”, disorientato nella regia generale della sua “politica delle alleanze”, ambivalente nella sua opposizione o alterità al “centrosinistra” anziché al “centro-sinistra”, piuttosto che al PD di Renzi anziché alla intera vicenda, riformistica e moderata, della “grande transizione” dai DS (e DL) al PD di cui, come si è visto, Renzi non è epifenomeno, ma organico prosecutore.
Com'è vero che lo scorcio di questa tornata amministrativa mostra plastica ed evidente continuità con il disegno renziano, sia per gli uomini e le donne nei quali si incarna, sia per il carattere e il profilo dei programmi nei quali si traduce, è altrettanto vero che in questo scorcio si coglie una ennesima conferma del carattere palesemente neo-riformista del disegno renziano e di questo centro-sinistra. Si tratta di un disegno diverso dal centrosinistra storico che l'Italia ha conosciuto negli anni Novanta del secolo scorso («l’Ulivo fu un progetto di centrosinistra nitidamente alternativo al centrodestra, l’opposto del “Partito della Nazione”; esso era animato da una tensione inclusiva verso il centro ma anche verso sinistra; i suoi leader si sono caratterizzati per spirito unitario e non divisivo; gli slogan elettorali suonavano così «l’Ulivo una forza che unisce», «il Centrosinistra per unire il Paese»; una tale tensione si doveva esprimere anche e soprattutto in un rapporto positivo con le forze sociali, come si conviene ai partiti socialisti e laburisti un po’ dovunque»). Ma, al tempo stesso, anche un “riformismo dall'alto” in un'epoca segnata da una democrazia post-costituzionale (con «Renzi, che si ispira a una democrazia governante, e un PD quale partito a vocazione maggioritaria»). La recente intervista di Franco Monaco sul Manifesto (19 marzo 2016) fa chiarezza proprio su questo punto.
Può, tutto questo, offrire indicazioni sulla natura e sulla traiettoria della composizione della sinistra e, più complessivamente, dell'articolazione politica della sinistra, che è necessaria e di cui si ha bisogno in questo Paese? Molto più di quanto possa sembrare. Chiarisce la riedizione, nell'Italia di oggi, dell'esistenza di due sinistre, l'una, riformista o neo-riformista, saldamente ancorata al PD (questo PD) sia nella sua declinazione interna sia nella sua variante di “sinistra esterna” e, l'altra, alternativa e rivoluzionaria, sebbene ancora frammentata e marginale sulla scena pubblica. Postula l'esigenza della determinazione di un nuovo blocco sociale e storico, non nei termini della riformistica “alleanza tra i produttori”, bensì in quelli dell'unità sociale e della unificazione politica dei soggetti produttori di valore, lavoratori salariati e intellettuali trasformativi. Dal palco di “Cosmopolitica!” (19-21 febbraio 2016) si è detto chiaramente che Sinistra Italiana non sarà un partito e non potrà definire un mandato ed esprimere una linea sino al suo congresso fondativo di dicembre. È vero ed è giusto. È facile prevedere, tuttavia, che i fatti della politica siano più forti della retorica delle enunciazioni e la vicenda elettorale del 2016 segnerà, in maniera significativa, se non decisiva, le sue sorti.

Approfondimenti online:

Un interessante approfondimento sulla vicenda della sinistra a Milano a cura di Gad Lerner;
Una ricostruzione sulla vicenda complessa della sinistra a Bologna a cura di Davide Turrini;
La lettura di Daniela Preziosi, in particolare sulla vicenda romana, tra Milano e Roma;
F. Monaco, “Sulla scissione del PD do' ragione a D'Alema”, Il Fatto, 15 marzo 2016 (in Gad Lerner)
Su “cantolibre”, il reportage su Sinistra Italiana e il ciclo dal titolo “Non gliela diamo”
 

mercoledì 6 aprile 2016

Elezioni 2016: il banco di prova per la Sinistra Italiana

Parte 1: 
il PD e il riformismo del XXI secolo

(pubblicato con modifiche in: lefrivista.it)

Esiste una enunciazione diffusa, particolarmente in voga “a sinistra”, che vede nel progetto renziano la forma della compiuta degenerazione del PD, una deriva rispetto alla sua originale vocazione e alla sua naturale ispirazione, vale a dire quella di “unire i riformismi e le forze popolari di questo Paese”, portando a sintesi l'esperienza post-comunista di tradizione laburista e l'esperienza post-democristiana di tradizione cattolico-solidaristica. Non c'è, in politica, oggi, in Italia, nulla di più falso e, non a caso, l'argomento sembra andare per la maggiore negli ambienti della sinistra riformista interna al PD e, in qualche caso, della sinistra PD in uscita o già uscita dal PD. È la manifestazione di una “falsa coscienza”, peraltro vagamente auto-assolutoria.
È una tesi “sghemba”, che dimentica i contenuti del congresso del PDS del 1997, quello tutto giocato lungo l'asse della modernizzazione della sinistra e della critica alla tradizione laburista ed alla sua concretizzazione sindacale, quella per cui «stimoli e critiche nascono dalla preoccupazione che il sindacato e la sinistra non sappiano al meglio rappresentare il mondo dei lavoratori e anche di quelli che un lavoro non ce l’hanno», come dalla relazione conclusiva dell'allora segretario Massimo D'Alema. Oblitera, senza dubbio, la relazione di Walter Veltroni al Lingotto, quella del congresso dei DS del 2000, che rimarcava il proprio compito prioritario nel fare diventare «il riformismo maggioritario» e addirittura assumeva in sé l'intera griglia politica del liberalismo, rimarcando che «del liberalismo democratico abbiamo fatto nostra, in modo irreversibile, la cultura dei diritti umani, il valore universale della democrazia, la centralità del tema della libertà, la considerazione dell'individuo, il valore dell'inclusione, l'accettazione senza riserve dell'economia di mercato, la valutazione positiva della competizione insieme all'importanza delle regole, delle procedure, delle forme».
E rimuove, infine, quel vero e proprio “decalogo del riformismo italiano”, incarnato dai DS, che fu tracciato nel successivo congresso, stavolta a Roma, sotto la segreteria di Piero Fassino, nel 2005, per cui «riformismo è cultura di governo, è pragmatismo in luogo di ideologismo, è riconoscimento dei meriti accanto al rifiuto dell'ingiustizia, è, soprattutto, senso di responsabilità istituzionale quando si è alla guida del Paese come quando si è all'opposizione. Ma non è, non è mai stato e non può essere l'equidistanza geometrica tra destra e sinistra, l'incapacità di esprimere giudizi netti, il rifiuto di testimoniare altri valori e altri principi». Perfino assumendo, in queste tesi, un punto di vista esplicitamente liberal-socialista, quello della “alleanza del merito con il bisogno”, che era stato annunciato da Claudio Martelli alla conferenza socialista di Rimini del 1982. Non si faticherà, allora, a riscontrare, alla luce di questa sia pur sommaria ricapitolazione, analogie e continuità con quanto dichiarato dall'ultimo segretario, Matteo Renzi, dell'ultima trasfigurazione politica di quella stagione, il PD, nella sua relazione politica ai gruppi parlamentari (3 novembre 2015), per cui: «io sostengo che la vocazione della sinistra riformista è, come avrebbe detto il grande statista svedese, combattere la povertà e non la ricchezza. La sinistra ideologica non vincerà, mai. Al massimo aiuta la destra a vincere».
Come ha ribadito Leonardo Scimmi, in un suo recente commento significativamente intitolato “Il riformismo socialista: da Marx a Bernstein fino a Matteo Renzi?”, pubblicato su “L'Avanti” del 1° agosto 2014: «La sinistra deve indicare la via per il progresso e non cadere nella trappola dell’odio di classe che può aver presa su un elettorato ignorante come erano i contadini russi della rivoluzione bolscevica, ma che mal si adatta alla società italiana di oggi dove, seppur poveri o precari, i cittadini sono per lo più educati e scolarizzati e si aspettano qualcosa di più sofisticato che una mera presa della Bastiglia». Più chiari davvero non si potrebbe.
Come ha riferito il Ministro del Lavoro del governo Renzi, in una sua recente intervista al “Corriere della Sera” (16 marzo 2016), la portata ideologica e la gittata strategica del progetto renziano si misurano nella ridefinizione dei termini stessi della sinistra politica in una chiave tendenzialmente post-socialdemocratica e neo-riformistica; in altri termini, il progetto renziano punta ad incarnare, della categoria stessa della sinistra, la sua versione riformistica, secondo una interpretazione coerente con il “governo capitalistico della crisi” e una dinamica caratterizzata dalla forte accelerazione delle misure decisionali. Un riformismo dall'altro, come si era già visto più volte nell'Europa continentale, come viceversa non si era mai visto nella storia d'Italia.
La natura sociale di questo disegno è volutamente, perfino ostentatamente, interclassista; il blocco sociale su cui si basa ed a cui fa riferimento è composto da una nuova alleanza dei produttori, soprattutto i lavoratori dei settori innovativi, il ceto medio intellettuale e professionale, e l'imprenditoria dinamica, quella frazione della borghesia capitalistica più incline all'investimento innovativo e più aperta alla competizione inter-nazionale. L'alleanza dei produttori è il terreno naturale su cui il progetto gioca le sue carte: come ricorda lo stesso ministro Giuliano Poletti infatti: «non vogliamo un assistenzialismo universale, vogliamo un sostegno al reddito affiancato da una rete territoriale che comprenda Regioni, Comuni, Volontariato, e non [...] una semplice elemosina. Il cittadino non dipende dal sussidio: prende un impegno [...] con i contribuenti: deve mandare i bambini a scuola, deve impegnarsi in un percorso di formazione e, se gli offrono un lavoro, lo deve fare. [...] Dove non arriva lo Stato perché non ha i soldi, dove non arriva il mercato perché non ci guadagna, arriverà il Terzo Settore; [...] non sarà più l'appendice della buona volontà ma il vero motore del sistema».
Non a caso, coerentemente con queste coordinate, il progetto renziano supera il principio della unitarietà, della universalità e del carattere pubblico e statale dell'intero welfare system e ne propone una radicale re-interpretazione in chiave di compartecipazione pubblico-privato, che, al tempo stesso, ne riduca la portata universalistica, ne ri-orienti le priorità sulle fasce prioritarie di bisogno e sui servizi minimi essenziali e ne ri-definisca gli attori in termini di regia pubblica e organizzazione privata: «nessuno aveva mai pensato ad un piano universale per la lotta alla povertà, nessuno aveva mai fatto l'alternanza scuola-lavoro, nessuno aveva mai dato valore così profondo all'associazionismo, al volontariato, alla società civile. Ora abbattiamo le tasse sul salario di produttività e le eliminiamo sul welfare aziendale: se l'azienda dà al lavoratore un voucher per l'asilo nido, lo Stato non prende un centesimo, ma risparmia perché il suo impegno si alleggerisce. [...] Nascerà un Programma Erasmus del Servizio Civile, che si potrà fare anche all'estero: ogni lo svolgono 50 mila giovani all'anno; devono diventare almeno 100 mila. La povertà da sconfiggere non è solo economica ma educativa: i primi 150 milioni da investire arrivano dall'accordo siglato con le fondazioni bancarie».
Detto in sintesi: il progetto renziano oggi è la più completa e compiuta espressione della ragione fondativa e del profilo fondamentale del PD stesso, incarna nella maniera più tesa ed esauriente la natura del riformismo italiano nel contesto del riformismo europeo e costituisce la declinazione odierna, attuale e pertinente, della socialdemocrazia, non molto dissimile, peraltro, tra Roma, Parigi e Bruxelles. Di questo progetto, peraltro, i vincitori delle primarie del centro-sinistra per le elezioni amministrative, nella maggiori città, sono piena e coerente espressione: basterebbero, siano passati o meno per le primarie, i nomi di Fassino a Torino, di Sala a Milano, di Merola a Bologna, di Giachetti a Roma e della Valente a Napoli, per confermarlo: una schiera di candidati renziani, d'origine o convertiti. Né vale tanto, misurata su questo banco di prova, la pretesa della cosiddetta autonomia territoriale: non esiste un PD locale diverso da un PD nazionale, esiste viceversa una base diffusa del PD che non sempre si riconosce nella linea e nella pratica politica della maggioranza renziana. Ma questo è un altro discorso e chiama in causa, semmai, la responsabilità dell' “altra” sinistra, quella che per ora definiremmo “non-riformistica”, a maturare un proprio profilo ed affermare una propria autonomia.


Approfondimenti online:

Sulla relazione D'Alema e il Congresso PDS del 1997;
Sulla documentazione inerente al Congresso Fondativo dei DS del 2000;
Sulla documentazione inerente al Congresso di Roma, dei DS, del 2005;
C. Martelli, “Per una alleanza riformista tra il merito e il bisogno”, Rimini, 1982;
Il discorso di M. Renzi ai gruppi parlamentari del 3 novembre 2015;
G. Poletti, “Il nostro governo il più a sinistra della storia”, Corriere della Sera, 16 marzo 2016.