lunedì 2 aprile 2018

Rojava, autodeterminazione e «unità nella diversità»

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Si è tenuta, il 15 e 16 Marzo, una sessione del Tribunale dei Popoli, convocato a Parigi per giudicare le responsabilità del regime di Erdogan nella aggressione contro le posizioni curde nel Nord Ovest della Siria. La richiesta, avanzata dal procuratore, Jan Fermon, segretario dell’Associazione Internazionale degli Avvocati Democratici, è stata di «condannare Erdogan per crimini di guerra e contro l’umanità».
 
Quello cui si assiste nella Siria del Nord Ovest è un precipitato della catastrofe che sta sconvolgendo la Siria da sette anni, un conflitto dalla portata, politica e militare, gigantesca e dalle implicazioni, strategiche e umanitarie, immani, che sarebbe sbagliato leggere come semplice «guerra civile» o caratterizzare come mera «rivolta armata» contro il potere costituito.
 
Inizialmente indicata come «guerra civile e per procura», la guerra siriana è oggi teatro di un vero conflitto internazionale, in cui ciascuno degli attori gioca la sua partita per ridisegnare il profilo del Paese e ridefinire gli assetti di potere in una regione cruciale, non solo per le risorse naturali, ma anche per la collocazione strategica, come autentica «terra di crocevia».
 
Poco si capirebbe della «strategia del caos» applicata al Medio Oriente, senza indagare il passo dell’egemonismo e dell’imperialismo delle potenze occidentali, in primo luogo gli Stati Uniti, insieme con gli alleati euro-atlantici e le petro-monarchie regionali, impegnate in quello scacchiere. Guerra e crisi, anche in questo passaggio, viaggiano insieme. Il tentativo di ricollocare l’imperialismo a guida USA/NATO, anche in chiave anti-russa ed anti-cinese, nella regione, corrisponde alla volontà di ridefinire assetti di potere e mercati di riferimento in risposta alla crisi strutturale del capitalismo neo-liberista.
 
Sviluppando il disegno di un «Nuovo Ordine Mondiale», l’imperialismo cerca, al tempo stesso, di costruire i contorni di un «Medio Oriente più largo» nel quale, dopo le aggressioni in Afghanistan (2001) e Iraq (2003), la strumentalizzazione delle cosiddette primavere arabe, si registra la clamorosa accelerazione di guerra scatenata in Libia (2011), ancora in Iraq, e quindi in Siria.
 
Come le stesse forze curde sottolineano, del resto, «nominare l’attuale periodo di crisi e di conflitto in Medio Oriente come una “terza guerra mondiale” non è solo un tentativo di sottolineare il coinvolgimento delle potenze internazionali; oltre a tutto questo, è chiaro che la ricostruzione della modernità capitalistica in Medio Oriente avrà conseguenze su scala globale».
 
«La modernità capitalistica … ha messo radici nella forma del primo Stato … e da allora ha subito diverse trasformazioni per sostenersi fino ad oggi». E nello spaccato siriano di questa “terza guerra mondiale”, il tributo delle vittime è gigantesco: grandi sono le perdite tra le file dell’Esercito Siriano, nella difesa della Siria dall’aggressione delle potenze occidentali e delle quinte colonne interne; grandi sono le perdite tra le unità combattenti dei curdi siriani in Rojava, nella difesa dell’auto-governo confederale dalle aggressioni della Turchia e del fondamentalismo reazionario.
 
Questa pratica, sperimentata dalle organizzazioni curde, di un auto-governo confederale o di un «confederalismo democratico», è in grado, peraltro, di parlare anche al di là dei confini della Siria: perché interroga le modalità di ridefinizione dello Stato e di organizzazione del governo del territorio e perché affronta la contraddizione che cova nel nesso tra unità e pluralità, fornendo, quindi, anche una chiave di lettura del principio stesso di auto-determinazione.
 
Com’è noto, infatti, l’auto-determinazione dei popoli è effettivo motore di emancipazione quando è in grado di coniugare la liberazione dall’oppressione con la vocazione alla giustizia e, in particolare, alla giustizia sociale; né auto-determinazione è necessariamente sinonimo di “secessione” (ripudiamo la forma dei micro-stati etnici) bensì, per dirla in breve, «della più grande libertà dentro la più ampia unità».
 
È opportuno mettere in risalto che la lotta alla barbarie del capitalismo, la lotta alla violenza del patriarcato, e la lotta all’oppressione dello stato nazionalista, sono, a ben vedere, la stessa battaglia. L’esperienza delle YPG, come forze curde di auto-difesa territoriale, strutturate in funzione difensiva più che offensiva, allude a questo schema: non una struttura rigida, ma corpi volontari, “attrezzati” con una formazione ideologica di ispirazione laica, democratica e socialista, nel solco della elaborazione del PKK di Ocalan.
 
La sperimentazione, su scala locale, dell’auto-governo nel Rojava, costituisce, a sua volta, potenzialmente, la “forma” di una nuova società, organizzata su base comunitaria e a livello locale, con consigli e assemblee dei civili e dei militari, in cui l’elaborazione e la proposta vanno di pari passo con la critica e l’innovazione.
 
Le strutture dell’auto-governo sono articolate su base territoriale. L’economia è organizzata su base comunitaria ed è orientata a soddisfare i bisogni fondamentali. Il lavoro è rispettato e la parificazione salariale è accompagnata a sostegni per i lavori più faticosi. La donna, nella società, è finalmente equiparata all’uomo e rispettata, nel contesto di una parità difficile da concretizzare, ma che si intende affermare, specie in riferimento al «matriarcato originario» di cui pure parla Ocalan.
 
Anche per questo, riprendendo l’appello delle donne curde alle donne del mondo, «è essenziale che ci organizziamo a un livello universale per creare un sistema di donne, globale ed equo, contro il sistema mondiale capitalista, sessista e patriarcale. Una tattica cruciale del sistema egemonico è la divisione. La nostra forza, tuttavia, deriva dall’unità. Senza rigettare le differenze tra noi, mentre proteggiamo le nostre particolarità ed i nostri colori, non c’è nulla che il movimento globale di liberazione delle donne non possa raggiungere».