mercoledì 26 dicembre 2018

Una «manovra sotto dettatura», la débacle del sovranismo

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Lasciamo stare, per il momento, il gravissimo ed inquietante “sfregio delle istituzioni”, di cui ha parlato Alessandro De Angelis sull’Huffington Post, che si è celebrato con l’approvazione della Legge di Bilancio per il 2019, con la quale «per la prima volta nella storia della Repubblica, in epoca sovranista, il Parlamento, luogo della sovranità, voterà una manovra senza neanche avere il tempo di leggerla».

Sono soprattutto i contenuti della Legge di Bilancio a suscitare inquietudine e preoccupazione, specie per tre ordini di ragioni: l’assenza di misure specifiche riguardanti i provvedimenti - bandiera (reddito di cittadinanza, pensioni di cittadinanza e revisione del sistema pensionistico basata sulla cosiddetta «quota 100»); la totale assenza di provvedimenti riguardanti il lavoro dipendente e la contestuale riduzione del volume degli investimenti pubblici; un nuovo, imponente, piano di dismissioni e privatizzazioni destinato ad impoverire ancora di più il sistema dell’economia pubblica e a ridurre in maniera fortissima il perimetro della presenza dello Stato.


Arrivata a Bruxelles sull’onda dell’entusiasmo e dei proclami a non cedere ai diktat delle tecnocrazie euro-comunitarie, la manovra torna a Roma in versione profondamente riveduta e corretta, con il governo leghista e pentastellato persino umiliato dal fatto che il primo annuncio della quadra sui conti pubblici e sulla legge finanziaria venga dato dal commissario europeo Moscovici, anziché dal premier italiano Conte.


Al rientro in Italia, Conte è costretto perfino a smentire di essersi presentato a Bruxelles “con il cappello in mano”; i vice-premier sono, a loro volta, costretti a rivedere e correggere i proclami della vigilia e le promesse elettorali (internet, oramai, è un vero e proprio campionario di dichiarazioni smentite o contraddette dai numeri e dai risultati); non pochi osservatori fanno notare come si tratti di una legge di bilancio, letteralmente, scritta sotto dettatura di Bruxelles.


Il rapporto deficit PIL non è più al 2.4% ma al 2% (la Commissione Europea aveva proposto l’1.9%); il volume di spesa previsto si riduce di 10 miliardi, con un taglio agli investimenti inizialmente previsti di ben 6 miliardi. Per i paladini del sovranismo, una Caporetto senza precedenti.


Nel merito, la manovra muove circa 30 miliardi di euro e, in termini di volumi finanziari, si articola all’interno di tre grandi comparti: i citati provvedimenti - bandiera; gli interventi di natura fiscale; una nuova ondata di privatizzazioni. Sul reddito di cittadinanza la riduzione dei fondi stanziati è molto consistente e finirà con il ridurre sia la portata sia l’impatto del provvedimento: lo stanziamento si riduce di quasi due miliardi nel 2019, scendendo a poco più di 7 miliardi, con una ulteriore riduzione, per gli anni successivi, di 945 milioni nel 2020 e 683 milioni nel 2021.


Sulla cosiddetta “quota 100” (che, tra l'altro, neanche intacca l'impianto generale del sistema pensionistico, che resta basato sulla Legge Fornero), il taglio è di 2.7 miliardi, cosicché i fondi per questa misura scendono da 6.7 miliardi a 4 miliardi, con un incremento previsto solo nel 2020 e nel 2021. Sempre sul versante pensionistico, il governo impone il blocco dell’indicizzazione, vale a dire la riduzione dell’adeguamento delle pensioni all’andamento dell’inflazione, a danno delle pensioni medie, vale a dire a partire da quelle che superano tre volte il minimo, cioè a partire da poco più di 1500 euro; mentre viene introdotto il cosiddetto «contributo di solidarietà» sulle pensioni alte, vale a dire oltre i 100 mila euro annui.


Per quanto concerne gli interventi di natura fiscale, la manovra riduce la deducibilità IMU sugli impianti industriali dal 50% al 40%; cancella tutte le agevolazioni IRES per gli enti non commerciali, colpendo direttamente tutto il mondo no-profit (misura sulla quale anche la CEI aveva avanzato forti critiche); introduce la web-tax con l’imposta al 3% sui servizi digitali per le imprese, attive online, con ricavi oltre i 750 milioni e ricavi da servizi digitali oltre i 5.5 milioni; riduce la portata della eco-tax, limitandola alle sole nuove auto di grossa cilindrata e fortemente inquinanti (con imposta crescente a partire da 1.100 euro per l’acquisto di una nuova auto con emissione tra 160 e 175 g/km di CO2); ma soprattutto impone, sotto forma di «clausola di salvaguardia», un gigantesco aumento dell’IVA che viene portata dal 22% a poco più del 25% nel 2020 e al 26,5% nel 2021 (una vera e propria stangata pari a circa 23 miliardi nel 2020 e quasi 29 miliardi nel 2021).


Come se non bastasse, un altro colpo arriva sul versante delle privatizzazioni: vengono previsti in manovra, anche in questo caso attraverso il “maxi-emendamento”, per il 2019, almeno 19 miliardi da privatizzazioni, di cui almeno un miliardo attraverso la svendita degli immobili pubblici, vale a dire una vera e propria (l’ennesima) svendita di patrimonio pubblico e di quote statali nelle grandi imprese.


Peraltro, aggravando ulteriormente l'impianto della manovra, viene esteso, sino al 15 novembre 2019, il blocco delle assunzioni a tempo indeterminato nel pubblico impiego, presso le articolazioni della pubblica amministrazione: presidenza del consiglio, ministeri, enti pubblici non economici, agenzie fiscali e università.


Inutile girarci intorno: una compiuta manovra di destra, che avvantaggia piccole e medie imprese, piccole e medie partite IVA, e, in generale, il Nord rispetto al Mezzogiorno; e penalizza fortemente i settori economici che maggiormente sviluppano innovazione e ricerca, e poi gli enti locali e il terzo settore, il Mezzogiorno, i pensionati (come si è visto, anche i pensionati medi, non ricchi) e tutto il lavoro dipendente. 

martedì 11 dicembre 2018

Nel Settantesimo della DUDU



Nell’occasione del 70° anniversario della promulgazione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, vale davvero la pena, nella temperie di tempi cupi ed inquietanti minacce che attraversiamo, richiamare alcuni dei principi, fondamentali, universali, al cui rispetto e alla cui realizzazione la Dichiarazione ci sollecita.

Approvata dalla Assemblea Generale delle Nazioni Unite, appunto il 10 dicembre 1948, con la risoluzione 217 A, la Dichiarazione è un documento importante, che, per quanto di natura non vincolante (si tratta di una risoluzione dell’Assemblea Generale, non del Consiglio di Sicurezza), è assunta ormai come parte integrante del diritto internazionale e come pilastro del diritto internazionale dei diritti umani. Le circostanze storiche dalle quali è maturata, all’indomani delle immani devastazioni della Seconda Guerra Mondiale, della minacciosa inquietudine della catastrofe nucleare e della eclatante tragedia della Shoah; l’indiscutibile valore morale di cui è dotata; l’eredità lunga, che essa fa propria e supera, delle precedenti dichiarazioni, a partire dalla Declaration of Rights del 1689, dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789, dai Quattordici Punti di Wilson, fanno di questa Carta un punto di riferimento cruciale ed essenziale.

Nel 1948, al momento della sua approvazione, tra gli otto Paesi astenuti, anche Unione Sovietica e Jugoslavia si astennero. Molto significative le osservazioni sovietiche: «La dichiarazione non dovrebbe limitarsi ai diritti di cittadinanza formalmente stabiliti e non dovrebbe semplicemente proclamare l’eguaglianza dei diritti umani, ma anche garantire la loro osservanza attraverso strumenti concreti e definiti». Inoltre: «la Dichiarazione non conteneva alcun riferimento alla questione, di primaria importanza, del diritto di tutte le nazioni all’auto-determinazione» e, in particolare, «all’eguaglianza di tutte le nazioni e di tutti i popoli e al fatto che le differenze di colore, lingua, livello culturale o di sviluppo nazionale non possono giustificare in alcun modo il venire meno del principio della eguaglianza tra le nazioni». Infine: «l’unico limite necessario all’esercizio della libertà è il limite alla propaganda fascista e all’attività fascista. Asserire che la prevenzione della propaganda fascista è impraticabile dal punto di vista del principio della completa libertà è assurdo tanto quanto immaginare di applicare lo stesso principio nei confronti di leggi restrittive riguardo a diversi tipi di attività criminali, assassinii, furti, devastazioni». La esigenza, cioè, della esigibilità dei diritti umani.

La forza della Dichiarazione, oltre che nel confronto tra le nazioni in merito alla redazione di un contenuto universale di tutela dei diritti umani, è anche nei presupposti che ne sono alla base che, allo stesso tempo, individuano il catalogo dei diritti come una esigenza storica e delineano un mondo di cooperazione internazionale. Sin nel Preambolo, infatti, è messo in evidenza che «il riconoscimento della dignità umana e dei diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo; […] è indispensabile promuovere lo sviluppo di rapporti amichevoli tra le Nazioni; e […] una concezione comune di questi diritti e di questa libertà è della massima importanza per la piena realizzazione di questi impegni». L’esigenza di una più stringente tutela giuridica del catalogo dei diritti sarebbe maturata quasi due decenni dopo con l’approvazione, nel 1966, di due Trattati Internazionali: il Patto internazionale sui diritti civili e politici e il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali.

Questi cataloghi impegnano le persone e le organizzazioni. La Dichiarazione sul diritto e la responsabilità degli individui, dei gruppi e degli organi della società di promuovere e proteggere le libertà fondamentali e i diritti umani universalmente riconosciuti, adottata dall’Assemblea Generale con la Risoluzione 53/144, l’8 marzo del 1999, lo afferma esplicitamente: «Tutti hanno il diritto, individualmente e in associazione con altri, di promuovere e lottare per la protezione e la realizzazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali a livello nazionale ed internazionale» (art. 1) e «Tutti hanno diritto, individualmente ed in associazione con altri, di partecipare ad attività pacifiche contro le violazioni dei diritti umani e delle libertà fondamentali» (art. 12). Non a caso è universalmente nota come Dichiarazione dei Difensori dei Diritti Umani.

Immagine: Carlos Reusser Monsalvez

Ni olvido, ni perdón. El mural es un Tributo a las Madres de Plaza de Mayo. El boceto fue realizado por el muralista Lucas Quinto y fue pintado por alumnos de la Escuela de Adultos Nº 29 de La Boca, junto al profesor Leonardo Reitman.Se ubica en la Plazoleta Bomberos Voluntarios (calles Lamadrid y Garibaldi), en el barrio La Boca, Buenos Aires: www.flickr.com/photos/carlosreusser/6249554033