mercoledì 26 dicembre 2018

Una «manovra sotto dettatura», la débacle del sovranismo

Presidenza: commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=38210179


Lasciamo stare, per il momento, il gravissimo ed inquietante “sfregio delle istituzioni”, di cui ha parlato Alessandro De Angelis sull’Huffington Post, che si è celebrato con l’approvazione della Legge di Bilancio per il 2019, con la quale «per la prima volta nella storia della Repubblica, in epoca sovranista, il Parlamento, luogo della sovranità, voterà una manovra senza neanche avere il tempo di leggerla».

Sono soprattutto i contenuti della Legge di Bilancio a suscitare inquietudine e preoccupazione, specie per tre ordini di ragioni: l’assenza di misure specifiche riguardanti i provvedimenti - bandiera (reddito di cittadinanza, pensioni di cittadinanza e revisione del sistema pensionistico basata sulla cosiddetta «quota 100»); la totale assenza di provvedimenti riguardanti il lavoro dipendente e la contestuale riduzione del volume degli investimenti pubblici; un nuovo, imponente, piano di dismissioni e privatizzazioni destinato ad impoverire ancora di più il sistema dell’economia pubblica e a ridurre in maniera fortissima il perimetro della presenza dello Stato.


Arrivata a Bruxelles sull’onda dell’entusiasmo e dei proclami a non cedere ai diktat delle tecnocrazie euro-comunitarie, la manovra torna a Roma in versione profondamente riveduta e corretta, con il governo leghista e pentastellato persino umiliato dal fatto che il primo annuncio della quadra sui conti pubblici e sulla legge finanziaria venga dato dal commissario europeo Moscovici, anziché dal premier italiano Conte.


Al rientro in Italia, Conte è costretto perfino a smentire di essersi presentato a Bruxelles “con il cappello in mano”; i vice-premier sono, a loro volta, costretti a rivedere e correggere i proclami della vigilia e le promesse elettorali (internet, oramai, è un vero e proprio campionario di dichiarazioni smentite o contraddette dai numeri e dai risultati); non pochi osservatori fanno notare come si tratti di una legge di bilancio, letteralmente, scritta sotto dettatura di Bruxelles.


Il rapporto deficit PIL non è più al 2.4% ma al 2% (la Commissione Europea aveva proposto l’1.9%); il volume di spesa previsto si riduce di 10 miliardi, con un taglio agli investimenti inizialmente previsti di ben 6 miliardi. Per i paladini del sovranismo, una Caporetto senza precedenti.


Nel merito, la manovra muove circa 30 miliardi di euro e, in termini di volumi finanziari, si articola all’interno di tre grandi comparti: i citati provvedimenti - bandiera; gli interventi di natura fiscale; una nuova ondata di privatizzazioni. Sul reddito di cittadinanza la riduzione dei fondi stanziati è molto consistente e finirà con il ridurre sia la portata sia l’impatto del provvedimento: lo stanziamento si riduce di quasi due miliardi nel 2019, scendendo a poco più di 7 miliardi, con una ulteriore riduzione, per gli anni successivi, di 945 milioni nel 2020 e 683 milioni nel 2021.


Sulla cosiddetta “quota 100” (che, tra l'altro, neanche intacca l'impianto generale del sistema pensionistico, che resta basato sulla Legge Fornero), il taglio è di 2.7 miliardi, cosicché i fondi per questa misura scendono da 6.7 miliardi a 4 miliardi, con un incremento previsto solo nel 2020 e nel 2021. Sempre sul versante pensionistico, il governo impone il blocco dell’indicizzazione, vale a dire la riduzione dell’adeguamento delle pensioni all’andamento dell’inflazione, a danno delle pensioni medie, vale a dire a partire da quelle che superano tre volte il minimo, cioè a partire da poco più di 1500 euro; mentre viene introdotto il cosiddetto «contributo di solidarietà» sulle pensioni alte, vale a dire oltre i 100 mila euro annui.


Per quanto concerne gli interventi di natura fiscale, la manovra riduce la deducibilità IMU sugli impianti industriali dal 50% al 40%; cancella tutte le agevolazioni IRES per gli enti non commerciali, colpendo direttamente tutto il mondo no-profit (misura sulla quale anche la CEI aveva avanzato forti critiche); introduce la web-tax con l’imposta al 3% sui servizi digitali per le imprese, attive online, con ricavi oltre i 750 milioni e ricavi da servizi digitali oltre i 5.5 milioni; riduce la portata della eco-tax, limitandola alle sole nuove auto di grossa cilindrata e fortemente inquinanti (con imposta crescente a partire da 1.100 euro per l’acquisto di una nuova auto con emissione tra 160 e 175 g/km di CO2); ma soprattutto impone, sotto forma di «clausola di salvaguardia», un gigantesco aumento dell’IVA che viene portata dal 22% a poco più del 25% nel 2020 e al 26,5% nel 2021 (una vera e propria stangata pari a circa 23 miliardi nel 2020 e quasi 29 miliardi nel 2021).


Come se non bastasse, un altro colpo arriva sul versante delle privatizzazioni: vengono previsti in manovra, anche in questo caso attraverso il “maxi-emendamento”, per il 2019, almeno 19 miliardi da privatizzazioni, di cui almeno un miliardo attraverso la svendita degli immobili pubblici, vale a dire una vera e propria (l’ennesima) svendita di patrimonio pubblico e di quote statali nelle grandi imprese.


Peraltro, aggravando ulteriormente l'impianto della manovra, viene esteso, sino al 15 novembre 2019, il blocco delle assunzioni a tempo indeterminato nel pubblico impiego, presso le articolazioni della pubblica amministrazione: presidenza del consiglio, ministeri, enti pubblici non economici, agenzie fiscali e università.


Inutile girarci intorno: una compiuta manovra di destra, che avvantaggia piccole e medie imprese, piccole e medie partite IVA, e, in generale, il Nord rispetto al Mezzogiorno; e penalizza fortemente i settori economici che maggiormente sviluppano innovazione e ricerca, e poi gli enti locali e il terzo settore, il Mezzogiorno, i pensionati (come si è visto, anche i pensionati medi, non ricchi) e tutto il lavoro dipendente. 

martedì 11 dicembre 2018

Nel Settantesimo della DUDU



Nell’occasione del 70° anniversario della promulgazione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, vale davvero la pena, nella temperie di tempi cupi ed inquietanti minacce che attraversiamo, richiamare alcuni dei principi, fondamentali, universali, al cui rispetto e alla cui realizzazione la Dichiarazione ci sollecita.

Approvata dalla Assemblea Generale delle Nazioni Unite, appunto il 10 dicembre 1948, con la risoluzione 217 A, la Dichiarazione è un documento importante, che, per quanto di natura non vincolante (si tratta di una risoluzione dell’Assemblea Generale, non del Consiglio di Sicurezza), è assunta ormai come parte integrante del diritto internazionale e come pilastro del diritto internazionale dei diritti umani. Le circostanze storiche dalle quali è maturata, all’indomani delle immani devastazioni della Seconda Guerra Mondiale, della minacciosa inquietudine della catastrofe nucleare e della eclatante tragedia della Shoah; l’indiscutibile valore morale di cui è dotata; l’eredità lunga, che essa fa propria e supera, delle precedenti dichiarazioni, a partire dalla Declaration of Rights del 1689, dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789, dai Quattordici Punti di Wilson, fanno di questa Carta un punto di riferimento cruciale ed essenziale.

Nel 1948, al momento della sua approvazione, tra gli otto Paesi astenuti, anche Unione Sovietica e Jugoslavia si astennero. Molto significative le osservazioni sovietiche: «La dichiarazione non dovrebbe limitarsi ai diritti di cittadinanza formalmente stabiliti e non dovrebbe semplicemente proclamare l’eguaglianza dei diritti umani, ma anche garantire la loro osservanza attraverso strumenti concreti e definiti». Inoltre: «la Dichiarazione non conteneva alcun riferimento alla questione, di primaria importanza, del diritto di tutte le nazioni all’auto-determinazione» e, in particolare, «all’eguaglianza di tutte le nazioni e di tutti i popoli e al fatto che le differenze di colore, lingua, livello culturale o di sviluppo nazionale non possono giustificare in alcun modo il venire meno del principio della eguaglianza tra le nazioni». Infine: «l’unico limite necessario all’esercizio della libertà è il limite alla propaganda fascista e all’attività fascista. Asserire che la prevenzione della propaganda fascista è impraticabile dal punto di vista del principio della completa libertà è assurdo tanto quanto immaginare di applicare lo stesso principio nei confronti di leggi restrittive riguardo a diversi tipi di attività criminali, assassinii, furti, devastazioni». La esigenza, cioè, della esigibilità dei diritti umani.

La forza della Dichiarazione, oltre che nel confronto tra le nazioni in merito alla redazione di un contenuto universale di tutela dei diritti umani, è anche nei presupposti che ne sono alla base che, allo stesso tempo, individuano il catalogo dei diritti come una esigenza storica e delineano un mondo di cooperazione internazionale. Sin nel Preambolo, infatti, è messo in evidenza che «il riconoscimento della dignità umana e dei diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo; […] è indispensabile promuovere lo sviluppo di rapporti amichevoli tra le Nazioni; e […] una concezione comune di questi diritti e di questa libertà è della massima importanza per la piena realizzazione di questi impegni». L’esigenza di una più stringente tutela giuridica del catalogo dei diritti sarebbe maturata quasi due decenni dopo con l’approvazione, nel 1966, di due Trattati Internazionali: il Patto internazionale sui diritti civili e politici e il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali.

Questi cataloghi impegnano le persone e le organizzazioni. La Dichiarazione sul diritto e la responsabilità degli individui, dei gruppi e degli organi della società di promuovere e proteggere le libertà fondamentali e i diritti umani universalmente riconosciuti, adottata dall’Assemblea Generale con la Risoluzione 53/144, l’8 marzo del 1999, lo afferma esplicitamente: «Tutti hanno il diritto, individualmente e in associazione con altri, di promuovere e lottare per la protezione e la realizzazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali a livello nazionale ed internazionale» (art. 1) e «Tutti hanno diritto, individualmente ed in associazione con altri, di partecipare ad attività pacifiche contro le violazioni dei diritti umani e delle libertà fondamentali» (art. 12). Non a caso è universalmente nota come Dichiarazione dei Difensori dei Diritti Umani.

Immagine: Carlos Reusser Monsalvez

Ni olvido, ni perdón. El mural es un Tributo a las Madres de Plaza de Mayo. El boceto fue realizado por el muralista Lucas Quinto y fue pintado por alumnos de la Escuela de Adultos Nº 29 de La Boca, junto al profesor Leonardo Reitman.Se ubica en la Plazoleta Bomberos Voluntarios (calles Lamadrid y Garibaldi), en el barrio La Boca, Buenos Aires: www.flickr.com/photos/carlosreusser/6249554033

martedì 4 settembre 2018

A Cuba, un percorso popolare per aggiornare la costituzione

L'Avana, Cuba: Foto di Gianmarco Pisa

A Cuba, il popolo scrive la sua costituzione. E sceglie, in base alle indicazioni della Assemblea Nazionale (il Parlamento Cubano) due date simboliche entro cui completare questa “redazione popolare partecipata”. Il processo è stato infatti inaugurato il 13 agosto: il giorno in cui Fidel Castro, leader storico della Revolución, avrebbe compiuto 92 anni. Alla fine, l’ultima parola sulla nuova costituzione spetterà al popolo cubano, con un referendum vincolante, convocato per il prossimo 24 febbraio: il giorno che segnò l’inizio, nel 1895, della guerra d’indipendenza contro la Spagna, tappa fondamentale anche nella vicenda di Jose Martì. L’unità del popolo cubano viene così rappresentata attraverso queste simbologie memoriali in un passaggio cruciale della più recente storia cubana, se solo si pensa che l’attuale processo di «revisione costituzionale» interviene ad aggiornare un testo che è ancora quello del 1976, risalente, cioè, a più di quarant’anni fa. 

Per sostenere questo gigantesco processo partecipativo, un milione di copie della proposta costituzionale è stato già distribuito alla popolazione. Saranno più di centotrentamila le assemblee popolari, in cui si discuterà, si studierà, si approfondirà, si integrerà, si modificherà il testo della nuova costituzione. Cuba, dunque, si aggiorna: e lo fa con il tratto socialista della sua dinamica, innescando il ruolo centrale del partito comunista ed attivando la più ampia partecipazione popolare. Lo conferma lo stesso progetto costituzionale, quando, all’art. 5, dichiara il partito comunista, «martiano, fidelista e marxista-leninista, avanguardia organizzata della nazione cubana, … forza dirigente suprema della società e dello Stato». 

Vi è una base marxista nell’approccio proposto: istituire una cornice giuridica generale (una configurazione sovrastrutturale) al quadro economico e sociale rinnovato dal contesto di interventi (il quadro strutturale) che il socialismo a Cuba ha sperimentato nel corso degli ultimi, in buona sostanza, venti anni. Vi è, in generale, un quadro complessivo di diritti: ha fatto notizia la parificazione del matrimonio omosessuale con il matrimonio eterosessuale, quindi la piena legalizzazione del matrimonio omosessuale, ma questo è solo il più appariscente di un quadro che intende consolidare una prospettiva di «tutti i diritti umani per tutti», cioè di unitarietà e indivisibilità dei diritti umani, sia i diritti civili e politici, sia i diritti materiali e culturali. 

La conferma del principio è nitida in questo nuovo progetto costituzionale: la proposta di art. 1, ad esempio, definisce Cuba uno «stato socialista di diritto, democratico, indipendente e sovrano, organizzato con tutti e per il bene di tutti»; il successivo art. 3 conferma che «il socialismo e il sistema politico e sociale rivoluzionario, stabiliti nella presente costituzione, sono irrevocabili»; mentre l’art. 27, richiamando la pianificazione socialista, ricorda che «lo stato dirige, regola e controlla l’attività economica nazionale». La stessa disposizione conclusiva (all’articolo 224) riafferma che «non è possibile sottoporre a revisione i principi riguardanti l’irrevocabilità del socialismo e il sistema politico e sociale come stabiliti dall’art. 3». 

Vi è poi la ridefinizione dell’assetto politico e istituzionale: delineando il profilo di uno stato socialista a modello parlamentare basato sul potere popolare, il progetto costituzionale distingue la figura del Presidente della Repubblica da quella del Presidente del Consiglio (Primo Ministro); il Presidente della Repubblica è eletto dalla Assemblea Nazionale (art. 121) su mandato di cinque anni, rinnovabile una volta sola; il Presidente del Consiglio è altresì designato dalla Assemblea Nazionale su proposta del Presidente della Repubblica (art. 136); l’Assemblea Nazionale, a sua volta, resta «l’unico organo dotato di potere costituente e legislativo» a Cuba (art. 98), consolidando inoltre il ruolo non solo dell’Assemblea, ma anche di tutti gli altri strumenti assembleari organizzati, nei quali si forma e si esprime la volontà popolare.

Vi è infine la ridefinizione dell’assetto economico e sociale: Cuba conferma il carattere socialista del proprio esperimento; propone di sviluppare, approfondire ed attualizzare il sistema socialista; articola, in definitiva, un aggiornamento del socialismo di fronte alle grandi sfide del mondo multipolare e della contraddizione inter-imperialistica per il XXI secolo. Ribadisce (art. 20) «la proprietà socialista di tutto il popolo sui mezzi fondamentali di produzione come forma principale di proprietà». Conferma il carattere pubblico e statale di tutti i comparti strategici o fondamentali dell’economia (suolo e sottosuolo, risorse energetiche e naturali, vie e infrastrutture di comunicazione); riconosce il ruolo del mercato e limita la proprietà privata ai settori minuti, vietando espressamente (art. 22) «la concentrazione della proprietà in persone fisiche o giuridiche non statali, onde garantire i principi socialisti di eguaglianza e di giustizia sociale». Dichiara infine (art. 26) «l’impresa statale socialista il soggetto principale dell’economia nazionale». 

Cambiare lo stato e aggiornare l’economia, con la più ampia adesione e partecipazione popolare, e mantenendo i principi marxisti e l’orientamento socialista. Ancora una volta, dunque, da Cuba, un messaggio importante ed innovativo. 

lunedì 3 settembre 2018

Se Israele diventa lo «Stato Nazionale del Popolo Ebraico»

Foto di Eddie Gerald - Geophotos -  Pubblico Dominio, via Wikimedia Commons

L’ultima, in ordine di tempo, legge fondamentale dello Stato di Israele, approvata lo scorso 18 luglio, peraltro con una risicata maggioranza alla Knesset, il Parlamento israeliano, definisce, per la prima volta in questi termini, Israele come «Stato Nazionale del Popolo Ebraico», con una nettezza tale, nella forma e nei contenuti, da fare di questa designazione persino il titolo della legge. Iniziando dunque a mettere in fila le questioni, si tratta di una legge fondamentale dello Stato di Israele: com’è noto, infatti, Israele non ha una unica legge costituzionale o «carta costituzionale», bensì il suo corpus costituzionale, vale a dire il quadro normativo fondamentale, gerarchicamente superiore alle leggi ordinarie, è rappresentato dall’insieme della Dichiarazione di Indipendenza del 1948 e da una serie di leggi fondamentali, le quali possono essere modificate solo attraverso l’approvazione di altre leggi fondamentali ed in base alla medesima procedura.  

Come leggi fondamentali, esse vengono a definire i caratteri di base della statualità israeliana e dovrebbero avere contenuto generale e godere di ampio consenso: non così quest’ultima legge, la quale, come si diceva, dopo lungo e articolato dibattito, nel Parlamento e nel Paese, è stata approvata con una maggioranza risicata e non ha mancato di destare molte critiche, spesso aspre, fuori e dentro Israele. Critiche, come si accennava sopra, «nella forma» e «nella sostanza». Questa legge rischia, infatti, di aprire un dibattito costituzionale senza fine e, soprattutto, un vulnus costituzionale senza precedenti: ponendosi a fianco della Dichiarazione di Indipendenza, che sancisce l’uguaglianza dei diritti dei cittadini e delle cittadine di Israele senza distinzione di sesso, etnia, religione, quest’ultima legge restringe la portata di tali diritti, definisce Israele stato nazionale del popolo ebraico e dichiara esplicitamente che appartiene esclusivamente al popolo ebraico il diritto di autodeterminazione nazionale di cui lo Stato di Israele è, per l’appunto, espressione. Dunque, si passa da un principio di “universalità dei diritti” ad un principio di “esclusività dei diritti” (per lo meno di alcuni di questi, per quanto amplissimi e fondamentali, a partire, appunto, dal diritto di autodeterminazione dei popoli); si passa da uno stato di tutti i suoi cittadini e le sue cittadine, almeno in termini di diritto, ad uno stato etnico (mono-etnico), con, in aggiunta, la problematicità di definire, al di fuori di una caratterizzazione meramente culturale o confessionale, la stessa specificità del popolo ebraico. Problematicità testimoniata anche dall’acceso dibattito sul ruolo di Israele all’interno della Diaspora.  

Se, per un verso, com’è stato segnalato da alcuni critici, non vi è sostanzialmente «nulla di nuovo» in questa legge, se non la ricapitolazione di una serie di norme già previste (come quella che dichiara Gerusalemme capitale dello Stato di Israele, scritta in una precedente legge fondamentale del 1980), o la messa in fila di una serie di pratiche già vigenti (a partire da quelle che organizzano l’attività coloniale di Israele nei Territori Palestinesi Occupati); per altro, numerose manifestazioni di protesta hanno visto protagonisti non solo i vari critici israeliani della legge (come è noto, vi è uno strato non-sionista o post-sionista non insignificante all’interno della stessa società israeliana), ma anche le differenti componenti nazionali, in primo luogo gli arabi israeliani e i drusi. Se il trattamento riservato alle minoranze e il rispetto dei diritti delle minoranze sono cartine di tornasole (questo ci dice persino il pensiero “liberale”) della qualità della democrazia, il dettato di questa legge fondamentale rischia allora di ridurre e di restringere pesantemente (al di là dei molti e variegati dubbi già da tempo nutriti, a proposito, da più parti) la qualità della democrazia israeliana e di minacciare significativamente il rispetto e la tutela dei diritti umani per tutti e tutte in Israele.

Se è vero, infatti, che la legge non pregiudica la situazione corrente della lingua araba, al momento della entrata in vigore della legge, pur attribuendole un semplice status speciale, riservando all’ebraico lo status di lingua ufficiale dello Stato; è anche vero, d’altra parte, che questa legge eleva perfino a rango costituzionale il colonialismo sionista: sin dall’inizio distingue tra uno stato di Israele e una terra di Israele, rivendicata come patria storica del popolo ebraico e all’interno della quale sorge il territorio dello stato. E, poco più avanti, non manca di mettere in risalto il fatto che lo Stato attribuisce valore nazionale allo sviluppo dell’insediamento ebraico ed agisce per incoraggiare e per promuove la sua realizzazione e il suo consolidamento. La colonizzazione dei Territori Palestinesi dunque viene puntellata, resa carattere fondamentale dello Stato di Israele, e, di conseguenza, in prospettiva, reso sempre più difficile il ricorso alla giustizia da parte delle rappresentanze palestinesi. 

Un diritto di autodeterminazione, quello del popolo ebraico, attivato contro un altro diritto di autodeterminazione, quello del popolo palestinese. Il contrario di ciò che servirebbe alla causa della giustizia e dei diritti umani, ovviamente nel senso di tutti i diritti, per tutti.

sabato 2 giugno 2018

Con il popolo palestinese in lotta

Djampa, CC-BY-SA 4.0, from Wikimedia Commons

È possibile mettere in fila ciò che sta succedendo, da alcuni mesi a questa parte, in terra di Palestina, per provare a definire un quadro della situazione nella regione? Abbiamo appena finito di assistere, sgomenti, alla partenza del Giro d’Italia in Israele, un incredibile controsenso, sportivo e politico, sommerso, peraltro, da una cappa propagandistica impressionante, le cui punte più sottili (meglio congegnate) sono state senza dubbio l’allusione costruita intorno al n. 101, quello della edizione 2018 del Giro d’Italia e quello della famigerata Unità 101, unità speciale dell’esercito israeliano, già comandata da Ariel Sharon, macchiatasi, in passato, di spietate incursioni ed efferati massacri contro i palestinesi; e la strumentalizzazione della figura di Gino Bartali, campione dello sport, la cui designazione, positiva in sé, di «Giusto tra le Nazioni», ad opera dello Yad Vashem, nel 2013, è diventata poi attribuzione postuma della cittadinanza onoraria di Israele, nel 2018, proprio a pochi giorni dalla partenza della contestuale edizione del Giro da Gerusalemme.
 
Appunto, Gerusalemme. La pretesa, questa sì, a tutti gli effetti sionista, da parte delle autorità di Israele, di attribuirsi ed intestarsi la Città di Gerusalemme come «capitale eterna, unica e indivisibile» di quello che oramai sempre più insistentemente e paradossalmente si va affermando come “Stato Ebraico”, è un autentico controsenso, che tradisce un atto di inaudita violenza, contro la storia e la memoria dei popoli della regione (e non solo), e di evidente illegittimità, basti appena richiamare qui, tra le più recenti, la risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite n. 478 del 20 Agosto 1980 che già a suo tempo definì tale attribuzione nulla e priva di validità («null and void»), nonché una grave «violazione del diritto internazionale» ed un serio ostacolo al raggiungimento di una pace «giusta e duratura» in Medio Oriente. Da un lato, il mantenimento dello status quo avvantaggia e amplia gli spazi, giorno dopo giorno, al progetto sionista di colonizzazione e assorbimento di territorio palestinese; dall’altro, le potenze internazionali (non chiamatele, per piacere, «Amici di Israele») attivamente alimentano e legittimano l’avanzata della occupazione: con atto unilaterale e provocatorio, gli Stati Uniti hanno deciso, appena il 14 Maggio scorso, di spostare la propria sede diplomatica dalla capitale israeliana Tel Aviv dentro la città di Gerusalemme.
 
Nei passaggi della storia, la scelta delle date ha spesso una forte valenza simbolica: non è sfuggito che il giorno scelto per l’inaugurazione della ambasciata USA a Gerusalemme sia coinciso con l’anniversario della fondazione dello Stato di Israele stesso, avvenuta, appunto, il 14 Maggio del 1948, in base all’approvazione, da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, della Risoluzione 181 del 29 Novembre 1947. Lo stesso giorno, il 14 Maggio, della Nakbah, la catastrofe del popolo palestinese, espulso dalle proprie terre e dai propri villaggi nel percorso di fondazione dello Stato di Israele, ha visto, a distanza di settant’anni, una nuova mobilitazione da parte del popolo palestinese ed una rinnovata escalation da parte delle autorità israeliane, che hanno letteralmente soffocato nel sangue la protesta dei palestinesi, provocando, nella sola giornata della inaugurazione dell’ambasciata, quasi quaranta morti e oltre mille feriti. È una vera e propria escalation, quella cui sta dando corso il governo della destra israeliana in tutti questi giorni: dal 30 Marzo, data in cui sono iniziate le manifestazioni popolari per la «Marcia del Ritorno», le forze israeliane hanno ucciso più di centoventi palestinesi e ferito oltre dodicimila persone, tremila colpite da munizioni letali.
 
Se, per un verso, la reazione dei Paesi del Medio Oriente e di parte della cosiddetta “comunità internazionale” è stata di condanna di Israele, al netto dell’assordante silenzio e della ingiustificabile inerzia della Unione Europea; per l’altro,  la funesta iniziativa USA, contrastata anche dalle Nazioni Unite, rischia di sancire, di fatto, la fine del cosiddetto «processo di pace» basato sul principio di «due popoli, due stati». Oggi, all’inizio di Giugno, a poco più di due mesi di questo nuovo ciclo di protesta, per la propria liberazione e per la propria autodeterminazione, dei palestinesi, in particolare, ma non solo, di Gaza, il bilancio della escalation israeliana è inquietante ed assume i contorni di una vera e propria strage. Appena lo scorso 31 Maggio, mentre ancora gli Stati Uniti imponevano il veto, opponendosi ad una proposta di risoluzione in Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che chiedeva misure «per la protezione dei civili palestinesi», la Croce Rossa lanciava l’allarme, denunciando a Gaza una crisi sanitaria e umanitaria «senza precedenti».
 
Chiaro dunque il quadro di responsabilità, è più che mai necessario mobilitarsi, a sostegno della resistenza e dell’autodeterminazione palestinese, e dando supporto alle forze democratiche presenti nella stessa Israele, che contrastano, anche in piazza, questa deriva sempre più aggressiva e sempre più violenta della destra israeliana. L’ormai prossimo attracco a Napoli, questa estate, della «Freedom Flotilla», sarà così un’occasione importante, per ribadire e fare crescere il nostro impegno con il popolo palestinese in lotta.

lunedì 2 aprile 2018

Rojava, autodeterminazione e «unità nella diversità»

flickr.com/photos/kurdistan4all/1457721363

Si è tenuta, il 15 e 16 Marzo, una sessione del Tribunale dei Popoli, convocato a Parigi per giudicare le responsabilità del regime di Erdogan nella aggressione contro le posizioni curde nel Nord Ovest della Siria. La richiesta, avanzata dal procuratore, Jan Fermon, segretario dell’Associazione Internazionale degli Avvocati Democratici, è stata di «condannare Erdogan per crimini di guerra e contro l’umanità».
 
Quello cui si assiste nella Siria del Nord Ovest è un precipitato della catastrofe che sta sconvolgendo la Siria da sette anni, un conflitto dalla portata, politica e militare, gigantesca e dalle implicazioni, strategiche e umanitarie, immani, che sarebbe sbagliato leggere come semplice «guerra civile» o caratterizzare come mera «rivolta armata» contro il potere costituito.
 
Inizialmente indicata come «guerra civile e per procura», la guerra siriana è oggi teatro di un vero conflitto internazionale, in cui ciascuno degli attori gioca la sua partita per ridisegnare il profilo del Paese e ridefinire gli assetti di potere in una regione cruciale, non solo per le risorse naturali, ma anche per la collocazione strategica, come autentica «terra di crocevia».
 
Poco si capirebbe della «strategia del caos» applicata al Medio Oriente, senza indagare il passo dell’egemonismo e dell’imperialismo delle potenze occidentali, in primo luogo gli Stati Uniti, insieme con gli alleati euro-atlantici e le petro-monarchie regionali, impegnate in quello scacchiere. Guerra e crisi, anche in questo passaggio, viaggiano insieme. Il tentativo di ricollocare l’imperialismo a guida USA/NATO, anche in chiave anti-russa ed anti-cinese, nella regione, corrisponde alla volontà di ridefinire assetti di potere e mercati di riferimento in risposta alla crisi strutturale del capitalismo neo-liberista.
 
Sviluppando il disegno di un «Nuovo Ordine Mondiale», l’imperialismo cerca, al tempo stesso, di costruire i contorni di un «Medio Oriente più largo» nel quale, dopo le aggressioni in Afghanistan (2001) e Iraq (2003), la strumentalizzazione delle cosiddette primavere arabe, si registra la clamorosa accelerazione di guerra scatenata in Libia (2011), ancora in Iraq, e quindi in Siria.
 
Come le stesse forze curde sottolineano, del resto, «nominare l’attuale periodo di crisi e di conflitto in Medio Oriente come una “terza guerra mondiale” non è solo un tentativo di sottolineare il coinvolgimento delle potenze internazionali; oltre a tutto questo, è chiaro che la ricostruzione della modernità capitalistica in Medio Oriente avrà conseguenze su scala globale».
 
«La modernità capitalistica … ha messo radici nella forma del primo Stato … e da allora ha subito diverse trasformazioni per sostenersi fino ad oggi». E nello spaccato siriano di questa “terza guerra mondiale”, il tributo delle vittime è gigantesco: grandi sono le perdite tra le file dell’Esercito Siriano, nella difesa della Siria dall’aggressione delle potenze occidentali e delle quinte colonne interne; grandi sono le perdite tra le unità combattenti dei curdi siriani in Rojava, nella difesa dell’auto-governo confederale dalle aggressioni della Turchia e del fondamentalismo reazionario.
 
Questa pratica, sperimentata dalle organizzazioni curde, di un auto-governo confederale o di un «confederalismo democratico», è in grado, peraltro, di parlare anche al di là dei confini della Siria: perché interroga le modalità di ridefinizione dello Stato e di organizzazione del governo del territorio e perché affronta la contraddizione che cova nel nesso tra unità e pluralità, fornendo, quindi, anche una chiave di lettura del principio stesso di auto-determinazione.
 
Com’è noto, infatti, l’auto-determinazione dei popoli è effettivo motore di emancipazione quando è in grado di coniugare la liberazione dall’oppressione con la vocazione alla giustizia e, in particolare, alla giustizia sociale; né auto-determinazione è necessariamente sinonimo di “secessione” (ripudiamo la forma dei micro-stati etnici) bensì, per dirla in breve, «della più grande libertà dentro la più ampia unità».
 
È opportuno mettere in risalto che la lotta alla barbarie del capitalismo, la lotta alla violenza del patriarcato, e la lotta all’oppressione dello stato nazionalista, sono, a ben vedere, la stessa battaglia. L’esperienza delle YPG, come forze curde di auto-difesa territoriale, strutturate in funzione difensiva più che offensiva, allude a questo schema: non una struttura rigida, ma corpi volontari, “attrezzati” con una formazione ideologica di ispirazione laica, democratica e socialista, nel solco della elaborazione del PKK di Ocalan.
 
La sperimentazione, su scala locale, dell’auto-governo nel Rojava, costituisce, a sua volta, potenzialmente, la “forma” di una nuova società, organizzata su base comunitaria e a livello locale, con consigli e assemblee dei civili e dei militari, in cui l’elaborazione e la proposta vanno di pari passo con la critica e l’innovazione.
 
Le strutture dell’auto-governo sono articolate su base territoriale. L’economia è organizzata su base comunitaria ed è orientata a soddisfare i bisogni fondamentali. Il lavoro è rispettato e la parificazione salariale è accompagnata a sostegni per i lavori più faticosi. La donna, nella società, è finalmente equiparata all’uomo e rispettata, nel contesto di una parità difficile da concretizzare, ma che si intende affermare, specie in riferimento al «matriarcato originario» di cui pure parla Ocalan.
 
Anche per questo, riprendendo l’appello delle donne curde alle donne del mondo, «è essenziale che ci organizziamo a un livello universale per creare un sistema di donne, globale ed equo, contro il sistema mondiale capitalista, sessista e patriarcale. Una tattica cruciale del sistema egemonico è la divisione. La nostra forza, tuttavia, deriva dall’unità. Senza rigettare le differenze tra noi, mentre proteggiamo le nostre particolarità ed i nostri colori, non c’è nulla che il movimento globale di liberazione delle donne non possa raggiungere».

giovedì 15 marzo 2018

Vittorie e sconfitte elettorali: il 4 marzo e i prismi della società

aussiegall [CC BY 2.0] via Wikimedia Commons
Non è possibile comprendere appieno il dato delle elezioni politiche in Italia (4 Marzo 2018) senza cogliere lo spaccato di una complessità, ma anche e soprattutto di una frammentazione sociale, di cui gli orientamenti elettorali sono, certamente non univoco e non esclusivo, specchio e prisma.
 
È l’Italia, quella fotografata dall’ultimo rapporto del CENSIS sulla situazione sociale del Paese, del rancore e della frustrazione, in cui il dissidio e la contraddizione sociale non si manifestano nelle forme storiche, sociali e politiche, novecentesche, del conflitto di classe con la sua proiezione trasformatrice, del contrasto tra abbienti e non abbienti, della contrapposizione tra padroni, capitalisti, e lavoratori, sfruttati.



Si tratta in ogni caso, sebbene novecentesca, di una dinamica attuale, consustanziale alla formazione economico-sociale capitalistica: che continua ad agitare, profondamente e strutturalmente, la nostra (le nostre) società, ma che non si manifesta più come il “prevalente” di quella contraddizione, sostituita oggi dalle forme tipiche del rancore e della frustrazione, dell’impoverimento culturale che va di pari passo con quello sociale, della guerra tra poveri e della lotta dei penultimi contro gli ultimi. La materialità delle condizioni sociali crea, quindi, un nuovo, ma non inedito, pendant con la costruzione di nuovi immaginari culturali, alimentati da vittimismo e desiderio di rivalsa, «costruzione» del nemico e perdita di riferimenti.
 
Il nostro non è, ovviamente, il Paese più povero d’Europa; tuttavia, secondo Eurostat, è il Paese, in cifre assolute, che conta più poveri in Europa. Quasi 11 milioni i poveri in Italia; oltre il 20%, vale a dire una persona cu cinque, è a rischio povertà; oltre il 30%, vale a dire quasi una su tre, è a rischio in uno dei due ambiti, quello della povertà o quello dell’esclusione. Anche il 30% delle famiglie italiane è, in questo momento, a rischio di povertà o di esclusione sociale. La presenza in famiglia di più figli a carico o di persone con disabilità o non autosufficienti aumenta drasticamente il rischio di precipitare nella spirale della povertà. Secondo l’Unione Nazionale Consumatori, interpellata dalla RAI, si tratta di «dati da Terzo Mondo, non degni di un Paese civile».
 
«Non si tratta solo di una priorità sociale e morale, ma anche economica. Fino a che il 30% degli italiani è a rischio povertà o esclusione sociale, è evidente che i consumi delle famiglie non potranno mai veramente decollare e si resterà intorno all’1 virgola». Quasi pleonastico aggiungere che dal fondo delle motivazioni strutturali, incancrenite dalla crisi ed esasperate dalla precarizzazione, si agitano gli spettri che affollano le percezioni e gli immaginari nelle sfere sovrastrutturali, percezioni e immaginari, culture e sub-culture, alimentando sempre più stereotipi e pregiudizi, ma anche determinando nuovi paradigmi della paura e della diffidenza, di timore e chiusura.

L’Italia si scopre più impaurita e più razzista, più chiusa e più cinica: secondo il rapporto del CENSIS, tra gli italiani appartenenti ai ceti popolari, ben l’87% ritiene difficile o impossibile progredire nella scala sociale; il 66% dei genitori italiani, vale a dire due genitori su tre, si dichiara contrario a che la propria figlia sposi un uomo di religione islamica, ed il 41%, quasi uno su due, è contrario a che sposi un immigrato in generale; oltre il 70% dei disoccupati ed oltre il 60% degli operai associa all’immigrazione e agli immigrati sentimenti o percezioni negative; per non parlare di quel 76% di cittadini che ritiene di non nutrire alcuna fiducia nei confronti delle istituzioni repubblicane, o addirittura di quel 84% di cittadini che dichiara di non nutrire alcuna fiducia verso i partiti politici.

È davvero, prima ancora che l’ipotetico inizio della Terza Repubblica, la fine compiuta della Prima, almeno in alcuni dei comparti più caratteristici che la avevano attraversata: fine della solidarietà sociale, perfino della solidarietà di classe, oltre che di quella inter-generazionale; fine della consapevolezza di «salvarsi» tutti insieme, esorcizzando il rischio di finire tutti «sommersi»; fine della rappresentazione stessa della Repubblica come - certo non compiutamente - repubblica “democratica”, con i suoi ben distinti comparti sociali, con un ruolo ben definito da parte dei soggetti sociali, con un’iniziativa significativa dei partiti, una presenza consolidata del sindacato, con le sue articolazioni diffuse della mediazione e della rappresentanza.

Se l’immagine del nemico è un’accurata costruzione ideologica, definita e veicolata dagli attori dominanti e dagli strumenti di costruzione del consenso e di comunicazione di massa, funzionali ad una egemonia il cui segno di classe è - più che mai - evidente; i presupposti di quell’immaginario vivono e attraversano, proliferano e condizionano profondamente la società italiana di oggi, sempre più sensibile alla logica sicuritaria e repressiva, sempre più incline al razzismo e alla xenofobia, sempre più propensa a bypassare i luoghi della mediazione ed erigere barriere o evocare frontiere, reali o immaginarie.

La Lega è, non a caso, uno dei due vincitori della tornata elettorale del 4 marzo: supera il 17%, con punte del 28% in Lombardia e del 32% in Veneto, superando il 6% perfino in Puglia e in Calabria e straripando nella Lombardia orientale e nel Veneto interno, superando il 40% nella provincia di Sondrio, arrivando al 35% nelle province di Bergamo e Brescia: «terra di missione», si direbbe, per le formazioni collocate sul versante opposto, se è vero che, da queste parti, “Potere al Popolo” è quasi ovunque sotto l’1%. Non solo: la Lega stacca Forza Italia, ferma al 14%, e ridefinisce, a destra, in chiave sovranista, il profilo del centrodestra.

Il M5S, nella sua nuova livrea, insieme, populista e conservatrice, è, anche qui non casualmente, il primo dei vincitori: a fronte del quasi 33% in media nazionale, supera il 50% in numerosi comuni del Mezzogiorno, conquista diffusamente il 50% anche in Campania e supera addirittura il 60% a Pianura, Scampia, Barra, Acerra e Pomigliano, come pure in diverse realtà in Puglia e in Sicilia. Anche qui per la sinistra le cose non vanno tanto meglio: “Potere al Popolo”, nell’area metropolitana di Napoli, raggiunge l’1.8%, nel resto della Campania si ferma al 1.2%, in Sicilia è, in media, intorno allo 0.7%, e anche in Puglia non supera l’1%.

Se deludente, dunque, è il risultato della sinistra del «quarto polo», vale a dire “Liberi e Uguali”, che, con poco più di un milione e centomila voti, supera lo sbarramento attestandosi al 3.4% di media nazionale ed eleggendo 14 deputati e 4 senatori (la metà dei quali provenienti dalle file della scissione a sinistra dal PD), fallimentare, sotto il profilo elettorale, è il risultato della «sinistra di movimento», “Potere al Popolo”, che si ferma a 370 mila voti (meno della metà della bistrattata “Rivoluzione Civile” di Ingroia che, nelle elezioni del 2013, raccolse circa 765 mila voti) e si attesta a poco più dell’1% in termini di consenso elettorale; peraltro incalzata, in voti assoluti, dalle aggregazioni della destra radicale neo-fascista, un dato inquietante,  con le liste promosse da Casa Pound e da Forza Nuova, che, insieme, assommano ad oltre 430 mila voti.

Non mancherà il tempo, per riflettere e per approfondire; né sarebbe giusto disconoscere la novità e l’entusiasmo portati da questa «sinistra di movimento» fin dentro l’agone elettorale. Non è questa la sede per vaticinare soluzioni salvifiche o evocare bacchette magiche, ma si può immaginare che, senza precipitazioni organizzativistiche di sorta, questa sinistra possa essere attraversata, liberamente, come un campo di soggettività e di relazioni.

Restano, tuttavia, una sofferenza e una solitudine profonde che abitano e sconvolgono le nostre società, ormai non più solo le nostre periferie; e c’è la questione di un’abitudine al «rapporto di massa» e al «lavoro di massa» che, da troppe parti e da troppo tempo, a sinistra, sembra smarrita. Per le forze, sinceramente e autenticamente - come si diceva un tempo - progressiste o rivoluzionarie, forse è il caso di ripartire da qui.

domenica 25 febbraio 2018

Antifascista. Užice, la prima città liberata nell’Europa in guerra.

«Repubblica di Užice» è il nome con cui viene designato il territorio liberato della Serbia occidentale, grosso modo corrispondente ai distretti di Krupanj, Čačak e, appunto, Užice, a cavallo tra la Serbia dell’ovest, la Šumadija e il Sandžak, sotto il controllo del movimento partigiano di liberazione, diretto da Tito, nella stagione compresa tra il 24 settembre e il 30 novembre 1941, nel corso della seconda guerra mondiale. 

Užice fungeva da centro e capitale del territorio, da cui ha tratto la sua denominazione e con la quale è poi passato alla storia. 


Vi si svolse il primo governo partigiano, nel contesto del primo territorio liberato e della prima città libera in Europa, Užice, liberata dall’occupazione nazi-fascista. 

Tuttavia, sotto i colpi dei ripetuti attacchi delle forze di occupazione, passati anche questi alla memoria collettiva con il nome che vi attribuì la storiografia jugoslava, di «Prima Offensiva Nemica», il territorio fu rioccupato e i partigiani costretti a ritirarsi nel Sandžak, in Montenegro e in Bosnia Erzegovina, da dove riorganizzarono poi le proprie file.
 
La Repubblica di Užice non costituiva tuttavia, come si potrebbe immaginare, un territorio omogeneo. Sebbene Užice  fosse la vera capitale della repubblica libera, co-esisteva un altro, marginale, centro di potere di fatto, Požega, per i nazionalisti cetnici, da dove questi ultimi giunsero peraltro a sferrare un attacco ai danni dei partigiani titini, il 1° novembre. Furono respinti e sconfitti.

Il tratto distintivo dell’organizzazione del governo e del complesso della difesa del territorio fu offerto dunque dalle formazioni partigiane, socialiste e titine, che vi hanno poi costituito uno dei nuclei decisivi per la vittoriosa avanzata e il definitivo successo del movimento di liberazione, con i partigiani di Tito come nucleo, grazie soprattutto alla loro organizzazione politica, alla direzione ideologica, all’articolazione sociale e all’amministrazione del territorio e dei servizi.
 
La Repubblica di Užice fu organizzata attorno a una vera e propria rete di comitati popolari di liberazione tra Krupanj, Čajetin, Kosjeric, Arilje, Bajina Bašta, Užice, Čačak. Il Comitato Popolare di Liberazione a Užice fu eletto il 7 ottobre 1941. Il suo programma fondamentale consisteva in tre parole: «Lotta, Libertà e Pane».  

Queste, tradotte in programmi e iniziative per difendere e sfamare la popolazione, furono parole d’ordine decisive, non solo per identificare il carattere della resistenza, ma anche per suggellarne l’orientamento. In seguito, fu nominato un vero e proprio Comitato di Liberazione Nazionale per la Serbia, il 17 novembre 1941, con a capo Dragojlo Dudić, «Eroe della Jugoslavia», e Petar Stambolić, che sarebbe poi diventato Presidente della Jugoslavia, dopo Tito, tra il 1982 e il 1983. 

In sostanza, da un lato la Repubblica di Užice fu il presupposto per il futuro sviluppo, anche istituzionale, del movimento di liberazione jugoslavo; dall’altro, costituiva il primo rimando allo stato multi-nazionale attraverso il potere organizzato in un’area, seppur temporaneamente, liberata, grazie all’eroica mobilitazione nella resistenza, dall’occupazione nazista.
 
Sebbene «effimera», durata meno di tre mesi, la Repubblica di Užice è stata, tuttavia, vitale, dal momento che il Movimento di Liberazione è riuscito a formarvi il suo primo territorio libero e a organizzare strutture e funzioni sociali e produttive. «Užice libera» costituiva pertanto un centro e, per taluni aspetti, un modello della lotta di liberazione in Jugoslavia ed enucleava la leadership del movimento partigiano. 

Vi ripresero a funzionare, sotto la direzione delle formazioni partigiane, le fabbriche del territorio e vi veniva pubblicato il giornale «Borba» («Lotta»), anche questo un giornale storico per la Jugoslavia: era stato il giornale clandestino dei comunisti jugoslavi (aveva visto la luce nel 1922, all’epoca del Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni, embrione del futuro Regno di Jugoslavia) e divenne poi il quotidiano comunista dal 1945 sino al 1991.
 
Nel 1941, era attiva a Užice l’unica fabbrica nella parte occupata d’Europa a produrre armi per la lotta contro il fascismo: anche questo aveva un valore politico e simbolico notevole. La Repubblica di Užice fu, a tutti gli effetti, il primo territorio liberato nell’Europa in guerra; Užice la prima città liberata dai partigiani, nell’Europa sconvolta e funestata dalla guerra e dall’occupazione, dal fascismo e dal nazismo. 

Alla fine, la Repubblica di Užice cessò di esistere, dopo l’offensiva della Wehrmacht e la ritirata dei partigiani, il 30 novembre 1941. I partigiani vi subirono una sconfitta, decisiva per le sorti della repubblica, a Kadinjača. Qui sorge un Memoriale, tributo alla eroica resistenza del «Radnički Bataljon», il battaglione operaio. 

Spomenik Kadinjaca, commons.wikimedia.org/wiki/File:Kadinjaca_010.jpg

I partigiani seppero comunque ri-organizzare le proprie file, radunandosi a Foča, in Bosnia: qui, già nel febbraio del 1942, ispirate da uno dei massimi intellettuali e dirigenti della resistenza, Moša Pijade, diedero forma alle «Disposizioni di Foča», che, per la prima volta in modo sistematico, istituivano ed organizzavano l’attività e le funzioni dei comitati di liberazione. Prendeva forma, in quelle pagine, il primo embrione di costituzione della Jugoslavia Socialista. Moša Pijade sarebbe poi diventato, tra le altre cose, presidente dell’Assemblea Federale della Jugoslavia.
 
In occasione del 24 febbraio vale dunque la pena ricordare oggi la mobilitazione del popolo e l’eroismo dei partigiani che hanno combattuto per la libertà dei propri Paesi e la sconfitta della barbarie del nazismo, del fascismo e dell’autoritarismo. Il 24 febbraio si riempiono, nel 2018, le strade di Roma, per ribadire, come indica il testo dell’appello alla mobilitazione «Mai più fascismi», «una risposta umana a tali idee disumane, affermando un’altra visione della realtà, che metta al centro il valore della persona, della vita, della solidarietà, della democrazia come strumento di partecipazione e riscatto», e ricordare che «l’esperienza della Resistenza ci insegna che i fascismi si sconfiggono con la conoscenza, con l’unità democratica … ».
 
Proprio il 24 febbraio, 76 anni fa, esattamente nel 1942, nelle strade della Serbia sotto il tallone della occupazione nazista, veniva fatto prigioniero il giovanissimo partigiano, dal nome poco noto in Occidente, ma anch’egli, sin dal 1949, «Eroe del Popolo della Jugoslavia», Stjepan Filipović. Nato in Croazia nel 1916, trasferitosi sin da piccolo in Serbia, a Kragujevac, capitale dell’industria meccanica del regno, divenne, giovanissimo, operaio; comandante partigiano dal 1941, fu catturato dai nazisti nel 1942 e, condannato all’impiccagione, sul patibolo levò le braccia al cielo, i pugni chiusi ed un grido destinato a diventare slogan e simbolo della resistenza jugoslava e dei partigiani di Tito, «Smrt fašizmu, sloboda narodu!»: «Morte al fascismo, libertà al popolo!». Era stato catturato, come ricordato sopra, proprio il 24 febbraio, del 1942.
 
Spomenik Filipovic, commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=55018863

Il suo grido divenne uno slogan per la Jugoslavia, secondo solo alla celebre espressione di Tito, altro topos della convivenza multi-nazionale dei popoli jugoslavi: «Preserviamo la fratellanza e l’unità come se fossero la pupilla dei nostri occhi». L’esecuzione avvenne nella città di Valjevo, nella Serbia centrale, 70 km. a nord di Užice. 

Valjevo lo ricorda con un monumentale mausoleo, uno dei più significativi «luoghi della memoria» della Jugoslavia, con una toccante iscrizione commemorativa: «Partigiani, comunisti, patrioti, tutti coloro che sono caduti nella lotta contro i fascisti predatori e traditori del popolo. Solo le persone libere camminano in Jugoslavia. Per creare un mondo nuovo, si stagliano di fronte ai secoli, con i loro ideali eroici e socialisti».