lunedì 20 dicembre 2021

Cosa sta succedendo in Bosnia-Erzegovina

Saša Knežić, CC BY-SA 4.0, commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=62790252

 

La Bosnia torna al centro dell’attenzione internazionale dopo che, lo scorso 10 dicembre, il parlamento della Republika Srpska, una delle due entità costituenti che formano la struttura confederale della Bosnia-Erzegovina, ha approvato una mozione per il ritorno alla piena competenza statale dell’entità dei Serbi di Bosnia di alcune materie, in particolare sistema fiscale, giustizia e sicurezza; la proposta di legge, sostanzialmente una mozione, come si diceva, di carattere non vincolante, è passata con una maggioranza di 48 voti favorevoli, su un plenum di 83. Preceduta e accompagnata da un dibattito politico-istituzionale particolarmente acceso, spinta da dichiarazioni e toni non privi, da parte di settori della dirigenza della Republika Srpska, di accenti nazionalistici, e accompagnata da repliche e commenti talvolta significativamente duri da parte delle cancellerie occidentali, la mozione non prefigura di per sé uno scenario “separatistico”, non si propone formalmente di costituire il “primo passo” della separazione della Republika Srpska dalla federazione croato-musulmana, l’altra entità costituente di Bosnia-Erzegovina; tuttavia indica chiaramente l’incremento della tensione nel Paese e segnala la perdurante delicatezza e l’estrema complessità dei fragili equilibri su cui si regge l’impalcatura della confederazione, nel lungo dopoguerra segnato dagli Accordi di Dayton del 1995.

Già nel mese di settembre, il presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, aveva annunciato il progetto di recuperare tutte le prerogative e le funzioni da riassegnare all’entità serba, consolidandone la statualità e, di conseguenza, contrastando il disegno di rafforzare le competenze centrali a discapito di quelle delle singole entità, in primo luogo nei comparti strategici della giustizia e della sicurezza, accompagnando, anche nelle settimane e nei mesi successivi, tale intenzione con duri commenti in ordine alla natura stessa della configurazione confederale, annunciando, ad esempio, il ritiro del consenso dei Serbi di Bosnia alla realizzazione di un esercito comune, oppure ancora definendo la Bosnia-Erzegovina, di volta in volta, un «esperimento della comunità internazionale», oppure «uno Stato imposto» (con riferimento alla costituzione bosniaca come parte integrante degli Accordi di Dayton, mediati dalla comunità internazionale), o ancora, più recentemente, una «repubblica di carta».

Tra gli osservatori, alcuni collocano l’inizio di tale escalation politica nella controversa decisione dell’ex Alto Rappresentante per la Bosnia-Erzegovina (il cui ufficio costituisce, nella complessa architettura istituzionale bosniaca, un’istituzione ad hoc, con il compito di supervisionare l’implementazione degli aspetti civili degli accordi di pace), Valentin Inzko, di introdurre, peraltro alla fine del suo mandato, emendamenti al codice penale bosniaco attraverso i quali definire la fattispecie del reato di negazione di crimine di genocidio: la negazione del genocidio sarebbe punita con la reclusione fino a cinque anni. In una sua dichiarazione, riportata dalla stampa, lo stesso Inzko ebbe ad asserire che «a parte il fatto che tale condotta (la negazione del genocidio n.d.r.) costituisce una vergogna per lo stato di diritto, sono profondamente convinto che stia anche gettando semi per potenziali nuovi conflitti. Pertanto, credo che sia necessario regolamentare questa materia con soluzioni legali». Inoltre, «discorsi d’odio, glorificazione di criminali di guerra e revisionismo o anche aperta negazione di genocidio e crimini di guerra impediscono alle società di fare i conti con il proprio passato collettivo, costituiscono una rinnovata umiliazione delle vittime e dei loro cari, perpetuando l’ingiustizia e minando le relazioni interetniche. Tutto ciò [...] impedisce l’emergere di una riconciliazione disperatamente necessaria».

L’iniziativa dell’Alto Rappresentante, tuttavia, oltre a costituire un classico esempio di iniziativa istituzionale top-down, dall’alto verso il basso, interviene anche a disciplinare con forza di legge una materia estremamente dolorosa, sulla cui portata, peraltro, le comunità non hanno elaborato, se mai possibile, una memoria reciprocamente inclusiva, né hanno mai espresso, in sostanza, valutazioni convergenti. Se, presso le opinioni pubbliche occidentali, vi è pressoché unanime consenso circa la portata e il carattere dei crimini e dei massacri che sono alla base della definizione, anche da parte dell’Alto Rappresentante, di tali crimini come genocidio, presso parte non irrilevante dell’opinione pubblica serba vi si riferisce non nei termini di “genocidio”, bensì di terribili “massacri di vasta portata”, venendo qui messa in discussione la natura propriamente genocidaria di tali eventi. L’emendamento dell’Alto Rappresentante, nell’affrontare la questione, indica come reati penali il «condonare, negare, banalizzare o cercare di giustificare un crimine di genocidio, crimini contro l’umanità o crimini di guerra, stabiliti da sentenza definitiva ai sensi della Carta del Tribunale Militare Internazionale (Accordo di Londra, 1945) o dal Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia o dalla Corte Penale Internazionale o da un Tribunale in Bosnia-Erzegovina, diretti contro un gruppo di persone o un membro di tale gruppo definito in relazione a etnia, colore, religione, discendenza o origine nazionale o etnica, quando la condotta è svolta in modo tale da incitare alla violenza o all’odio contro tale gruppo o membro di tale gruppo»; nonché il «conferire riconoscimento, premio, memoriale, ricordo di qualsiasi genere, o simili, ad una persona condannata con sentenza definitiva per genocidio, crimini contro l’umanità o crimini di guerra, o denominare un bene pubblico come strade, piazze, parchi, ponti, istituzioni, edifici, municipi, città, o simili, [...] o ancora glorificare in qualsiasi modo una persona condannata con sentenza definitiva per genocidio, crimini contro l’umanità o crimini di guerra».

Una decisione di tale portata, oltre a corrispondere all’esigenza cruciale di tutelare e rispettare appieno la memoria e il dolore delle vittime, viene anche a insistere su una questione che impatta sulla memoria del conflitto e sulle “memorie divise di guerra”; in un contesto di Stato fragile e di comunità separate, quale continua ad essere la Bosnia-Erzegovina, nel suo lungo dopoguerra successivo agli Accordi di Dayton, misure di tale portata possono risultare tanto più divisive o controverse quanto più risultano essere calate dall’alto e lontane da un itinerario di partecipazione e di condivisione “dal basso”. Gli stessi Accordi di Dayton, del resto, mediati dalla comunità internazionale e configurati per congelare di fatto una situazione post-bellica di precario equilibrio, se da un lato hanno avuto il merito indiscusso di contribuire alla cessazione delle ostilità e alla fine della guerra, dall’altro hanno determinato una Bosnia-Erzegovina caratterizzata da una singolare fragilità e complessità istituzionale.

La stessa Costituzione di Bosnia-Erzegovina, sul cui sfondo si staglia l’iniziativa del parlamento della Republika Srpska, non è il risultato di un processo costituente locale, bensì il prodotto di una mediazione e di un accordo internazionale, e figura all’interno di tale mediazione, come Allegato IV degli Accordi di Dayton. A determinare tale Costituzione e a definire i caratteri del nuovo Stato sono infatti «Bosniaci, Croati e Serbi, come popoli costituenti (insieme con Altri), e i cittadini di Bosnia-Erzegovina»; quello che viene delineato non è uno Stato unitario, bensì uno Stato costituito da «due Entità, la Federazione di Bosnia ed Erzegovina e la Republika Srpska»; «la Bosnia-Erzegovina e le singole Entità non possono impedire la libertà di movimento di persone, beni, servizi e capitali attraverso la Bosnia-Erzegovina e le Entità non possono stabilire controlli di confine tra di esse»; d’altra parte, è uno Stato in cui vige un regime di cittadinanza duale, dal momento che «esiste una cittadinanza di Bosnia-Erzegovina, disciplinata dall’Assemblea Parlamentare, e una cittadinanza di ciascuna Entità, disciplinata da ciascuna Entità». Di conseguenza, ciascuna Entità ha una propria Costituzione, un proprio sistema istituzionale, una propria configurazione amministrativa e una propria organizzazione territoriale. Per questo si è parlato, per la Bosnia-Erzegovina, di un modello di democrazia consociativa su base etnica e nazionale, più che di una vera e propria, compiuta, democrazia, basata sulla completa eguaglianza e parità di tutti i cittadini.

In Bosnia rientrano nelle competenze delle istituzioni centrali solo le seguenti materie: politica estera, commercio internazionale, politica doganale, politica monetaria come previsto dall’art. VII, finanze delle istituzioni e in relazione agli obblighi internazionali della Bosnia-Erzegovina, immigrazione, rifugiati e politiche e regolamenti in materia di asilo, sicurezza penale internazionale e inter-entità, compresi i rapporti con l’Interpol, realizzazione e gestione di strutture di comunicazione comuni e internazionali, regolamentazione del trasporto inter-entità, controllo del traffico aereo. Mentre le due Entità, che hanno anche il diritto di «stabilire relazioni parallele speciali con gli Stati vicini nel quadro della sovranità e della integrità territoriale della Bosnia-Erzegovina», hanno inoltre la responsabilità di «provvedere ad un ambiente sicuro e protetto per tutte le persone nelle rispettive giurisdizioni, mantenendo forze dell’ordine in ambito civile operanti in conformità con gli standard riconosciuti a livello internazionale e nel rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali internazionalmente riconosciuti di cui all’articolo II, e adottando inoltre ulteriori misure laddove appropriato».

Le reazioni all’iniziativa non si sono fatte attendere. Il Peace Implementation Council (PIC), che monitora il rispetto degli Accordi di Dayton e supporta il processo post-bellico in vario modo (assistenza finanziaria, supporto alla missione europea EUFOR, svolgimento di operazioni in Bosnia Erzegovina), ha avvertito che un “ritiro unilaterale” dalle istituzioni federali centrali non è possibile e ha, inoltre, minacciato conseguenze per qualsiasi parte che decidesse di violare l’accordo di pace. Tuttavia, la dichiarazione del PIC non è stata firmata dalla Russia. D’altra parte, come ricordato dal PIC, gli Accordi di Dayton «restano la base per una stabile, sicura e prospera Bosnia-Erzegovina». 

mercoledì 10 novembre 2021

Mobilitazioni di Pace e di Giustizia


ragesoss,
Protesters march down Pennsylvania Av. toward the Capitol, CC BY SA 3.0

 
È noto che le “guerre dei Balcani”, il lungo ciclo di conflitti che ha segnato il collasso e lo smembramento della Jugoslavia, a partire dal 1991 e fino ai conflitti in Kosovo tra il 1998 e il 1999, hanno rappresentato una pagina, complessa e dolorosa, della più recente storia d’Europa, e hanno, al tempo stesso, costituito una sorta di paradigma del «conflitto etno-politico» del nostro tempo, nel quale finiscono per confluire tanto la strumentalizzazione a fini di potere della cosiddetta questione nazionale, quanto la manipolazione della dimensione umanitaria come chiave di impropria legittimazione, presso le opinioni pubbliche occidentali, di ingerenze ed interventi armati. Al tempo stesso, lo spaccato balcanico, con tutto il valore simbolico della lacerazione del tessuto di convergenza e di solidarietà tra i popoli che veniva a rappresentare e con tutto il carico emotivo segnalato dal ritorno, pesante e sanguinoso, della guerra nel cuore dell’Europa, è stato, come tante volte è stato messo in evidenza, anche il teatro di una vivace partecipazione democratica e di una intensa mobilitazione solidale tra le più significative e straordinarie dei tempi recenti: una mobilitazione, di carattere internazionale, chiaramente dislocata «contro la guerra e per la pace» e che ha indicato una potente testimonianza di pacifismo concreto, di «concreta utopia», animata da associazioni e comitati, reti civiche e solidali, cittadini e cittadine, attivisti e attiviste, che si sono attivati e mobilitati, appunto, personalmente e concretamente, per cercare di prevenire l’escalazione, fermare la violenza, fornire sostegno e supporto.

Quella testimonianza trova oggi l’occasione preziosa di una rievocazione e di una riflessione grazie alla mostra dal titolo «Wake up, Europe! Support and solidarity mobilizations with Bosnia and Herzegovina and its citizens, 1992-1995» (Svegliati, Europa! Mobilitazioni di sostegno e solidarietà con la Bosnia - Erzegovina e i suoi cittadini, 1992-1995), su iniziativa del Museo di Storia della Bosnia - Erzegovina, in collaborazione con il “Memory Lab” e con il supporto dell’Istituto Francese e del Goethe Institute di Bosnia - Erzegovina. La mostra, inaugurata lo scorso 20 ottobre, presso il Museo di Storia della Bosnia - Erzegovina, a Sarajevo, rappresenta un’occasione preziosa per riflettere su quel periodo storico e sugli eventi che lo hanno attraversato e lacerato, ma anche per interrogarsi sul presente, sulla solidarietà internazionale e sulle concrete utopie del nostro tempo, sull’attivismo e la lotta per la pace e contro la guerra, nel tempo difficile della nostra attualità, a cavallo tra crisi economica e sociale, conseguenze della pandemia e del «governo della pandemia», con il corollario di misure ad essa legate, incessante militarizzazione e vecchi e nuovi nazionalismi. Come infatti segnala la presentazione della mostra, si tratta di «un esempio di solidarietà europea nel recente passato che può essere di grande ispirazione per il presente: durante la guerra in Bosnia - Erzegovina del 1992 - 1995, numerose iniziative sono sorte in Francia, Germania, Spagna, Italia, Svezia, Repubblica Ceca ed altri Paesi; cittadini, ONG, gruppi informali e artisti hanno promosso sostegno e solidarietà alla Bosnia - Erzegovina e ai suoi cittadini in vari modi: aiutando i rifugiati giunti in diversi Paesi europei; raccogliendo e consegnando cibo, medicine, vestiti e altri materiali a Sarajevo e in Bosnia - Erzegovina; organizzando incontri, manifestazioni, campagne ed altre attività, volte a mobilitare i propri concittadini, fare pressione sui propri governi ..., e sostenere i gruppi civici in Bosnia e in altre parti della ex Jugoslavia. Si è trattato di una mobilitazione ampia ed eterogenea, un misto di impegno umanitario e di impegno civile ..., e per molti degli attori coinvolti, la cooperazione e la solidarietà con la Bosnia - Erzegovina sono proseguite anche dopo la guerra».

Tra i tanti Paesi, ricordati anche in questa cornice, non si può dimenticare l’impegno che ha attraversato da un capo all’altro il nostro Paese, impegnato in una mobilitazione solidale, pacifista e antimilitarista, che ha rappresentato, lungo tutti gli anni Novanta e, in alcuni casi, anche oltre, un esempio di attivazione solidale e di impegno politico di grande portata. Se, da un lato, è pressoché impossibile completare un elenco esaustivo e minuzioso delle centinaia di attivazioni, spesso piccolissime, ma non per questo meno significative, che hanno animato e continuano ad animare il panorama della solidarietà internazionale e internazionalista con popoli e comunità dei Balcani e, in particolare, della ex Jugoslavia, dall’altro è possibile ricordare almeno alcune pagine. La «marcia dei Cinquecento» a Sarajevo, ad esempio, lanciata dall’appello di mons. Tonino Bello dell’estate 1992 e concretizzata grazie soprattutto all’impegno dei Beati Costruttori di Pace, che porta, il 6 dicembre 1992, cinquecento pacifisti a partire da Ancona alla volta di Sarajevo. La marcia per la pace e la nonviolenza (una forma di interposizione nonviolenta) «Mir Sada» (Pace Ora), tra il 2 e il 14 agosto 1993. La campagna «Kosovo I Care», organizzata, in particolare, dai Beati Costruttori di Pace, l’Associazione Papa Giovanni XXIII, MIR e Pax Christi, cui prendono parte oltre duecento attivisti, partiti da Bari il 7 dicembre 1998. La «Campagna Kosovo per la nonviolenza e la riconciliazione», promossa dai Beati Costruttori di Pace, Agimi, MIR e Pax Christi, capace di coinvolgere circa venti associazioni e di sviluppare, tra il 1993 e il 2003, quattro delegazioni, tra il 1995 e il 1997, il progetto della Ambasciata di Pace a Prishtina, capoluogo del Kosovo, e tra il 2000 e il 2003, formazione per formatori e formatrici al dialogo inter-etnico. E ancora, in tempi più recenti, il programma dei «Dialoghi di Pace» nei Balcani e in Kosovo, dal 2002 al 2006; il lavoro del Corpo Nonviolento di Pace della Operazione Colomba in Kosovo, dal 1998 al 2010, e dei Corpi Civili di Pace in Kosovo a partire dal 2011. Spesso, come si vede, piccoli progetti, capaci di innescare energie nel lavoro di pace e di solidarietà, tra i tanti esempi di “utopia concreta”, da sviluppare ancora e ancora, nella memoria e nell’impegno. 
 

martedì 5 ottobre 2021

A proposito delle elezioni napoletane

 
Lalupa - CC BY 3.0 - Wikimedia Commons


Alla giornata delle elezioni comunali in molte delle principali città italiane, Napoli è giunta animata da un mix di irritazione, al cui fondo si intravede la tensione di una rabbia sociale che esiste e di un conflitto sociale che non è sopito, tutt’altro, e di inquietudine, tra difficoltà del quotidiano e speranza di riscatto. In un quadro nazionale in cui le proiezioni assegnano alle forze del cosiddetto campo democratico, la nuova edizione del centrosinistra, basata sul ruolo cardine del PD e sul dialogo aperto con il “nuovo” Movimento 5 Stelle, un successo complessivo, a parte la città di Roma, e addirittura la vittoria al primo turno in alcune città, Milano, Bologna e Napoli, quest’ultima, Napoli appunto, se non rappresenta, rispetto agli umori della vigilia, la sorpresa, certo è quella che suscita una serie di riflessioni, dopo la stagione dell’amministrazione de Magistris.

Partiamo, anche in questo caso, dai dati ultimi finalmente a disposizione, con il totale delle sezioni scrutinate (884), che assegnano al candidato di centrosinistra (PD, sinistra moderata, forze civiche, alcune delle quali espressione del centro e delle forze conservatrici e centriste) e Cinque Stelle, Gaetano Manfredi, quasi il 63% delle preferenze ed una netta vittoria al primo turno; al candidato della destra, in primo luogo Forza Italia e Fratelli d’Italia, dal momento che la lista espressione della Lega non era stata ammessa al voto, Catello Maresca, poco meno del 22% delle preferenze; quindi l’ex sindaco di Napoli ed ex presidente della Regione Campania, oltre che ex Ministro del Lavoro e personalità storica del PCI e della sinistra napoletana, Antonio Bassolino, all’8.2% delle preferenze; infine, l’ex assessora della giunta comunale uscente, candidata dal sindaco Luigi de Magistris, espressione di una coalizione civico-politica orientata a sinistra (Clemente Sindaco, Napoli 20-30, Potere al Popolo!), Alessandra Clemente, con il 5.6%, e il resto variamente diffuso tra i tre candidati outsider, vale a dire Matteo Brambilla, già Consigliere Comunale, fuoriuscito dal Movimento 5 Stelle con la lista Napoli in Movimento – No Alleanze, quindi Giovanni Moscarella, con la lista 3V, Verità – Libertà, e infine Rosa Solombrino, del Movimento Equità Territoriale. Pesa e preoccupa il dato dell’astensione, circa il 53%.

Per capire come si sia giunti a una simile avanzata del centrosinistra non si può fare a meno di gettare lo sguardo al modo come si è usciti dall’esperienza della giunta de Magistris, con riferimento, in particolare, alla sua seconda consiliatura, e al modo come si è sviluppato il dibattito pubblico che ha animato questa campagna elettorale; elemento quest’ultimo che, se in altre circostanze può risultare meno determinante, ha avuto invece un impatto indubbiamente incisivo in questa circostanza, segnata da una campagna elettorale lunghissima, perché legata a tempi di svolgimento del voto che, inizialmente previsti in primavera, sono poi slittati, causa “governo della pandemia”, alle date ultime del 3 e 4 ottobre. Una campagna inaugurata, di fatto, dalla prima candidatura offerta al dibattito pubblico, proprio quella dell’ex sindaco Antonio Bassolino, il giorno 13 febbraio; immediatamente seguita da quella dell’assessora comunale Alessandra Clemente, che ha ufficializzato la sua candidatura il 19 febbraio, dopo che sin dalla fine dell’anno precedente era stata di fatto lanciata dal sindaco uscente, Luigi de Magistris. Dunque, otto mesi (se non di più) di campagna elettorale, un tempo lungo per fare vivere temi e animare dibattito, confrontarsi e interrogarsi sulla città e sul suo futuro.

Napoli è arrivata a queste elezioni, del resto, in un panorama segnato da luci ed ombre: luci particolarmente vivide, in alcuni casi, trattandosi della città, unica tra le grandi in Italia, che ha rispettato il mandato referendario di mantenere pubblico il servizio idrico; che ha mantenuto aperto un dialogo con gli spazi sociali e i luoghi del conflitto, tanti e diffusi, che animano la sua dinamica sociale e arricchiscono la sua vitalità democratica; che ha retto alla prova del bilancio, pur tra mille difficoltà e contraddizioni, ma evitando sino alla fine il rischio del commissariamento, a favore del quale, peraltro, pezzi non irrilevanti delle forze politiche ed economiche della “capitale del Mezzogiorno” pure non avevano mancato di spendersi. Ma non solo luci hanno costellato il percorso amministrativo, in particolare nel passaggio dalla prima alla seconda consiliatura del sindaco de Magistris, quando la tensione positiva sui temi della partecipazione democratica e delle sperimentazioni sociali si è venuta affievolendo, quando non sempre si è riusciti a garantire continuità ed efficacia all’azione amministrativa (qualcuno si è preso la briga di contare ben undici rimpasti in dieci anni e 35 nomine in giunta a partire dal 2011), quando il tema ampio e complesso del “governo della città” è venuto sempre più affermandosi, con una gestione del quotidiano (dalla manutenzione stradale alla viabilità, dal trasporto pubblico locale alla efficacia dei servizi sociali di prossimità) problematica, certamente aggravata dalle note ristrettezze di bilancio, ma che ha contribuito a rendere non meno faticosa la vita quotidiana in una città come Napoli.

Appunto, una città come Napoli, una città peculiare, forse unica nel suo genere: che deve sapere coniugare, nella vitalità del suo spazio sociale e nella complessità della sua dinamica democratica, entrambe le dimensioni, di città metropolitana, profondamente urbanizzata e interconnessa, e di grande capitale europea e mediterranea, con una vocazione naturale, città di mare, di arte e di cultura, al pluralismo, alla complessità e all’inclusione. Se i numeri di queste elezioni saranno confermati, potranno forse indicare, più che, come pure si è detto, un «richiamo alla normalità», soprattutto un richiamo alla efficacia del «governo della città». Il che non potrà non aprire uno spazio nuovo di attivazione sociale e di conflitto sociale capace di rigenerare la stessa democrazia. 
 

mercoledì 8 settembre 2021

Una storia lunga un secolo, cento anni di lotte per la libertà e la giustizia

Foto di Gianmarco Pisa


Promossa da Infinitimondi, “bimestrale di pensieri di libertà”, in collaborazione con l’Istituto Campano per la Storia della Resistenza, dell’Antifascismo e dell’Età contemporanea “Vera Lombardi”, e insieme con la FILLEA-CGIL, l’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico e l’Archivio di Stato di Napoli, nonché con il patrocinio morale della Città Metropolitana di Napoli, si è aperta ieri, 7 Settembre, la rassegna fotografica e documentaria dedicata al «PCI 1921-2021: Scene di una buona storia. Napoli e la Campania attraverso le immagini di cento anni di lotte per la libertà e la giustizia», basata, a sua volta, sui materiali fotografici dell’Archivio di Mario Riccio, storico giornalista e fotoreporter di Paese Sera e dell’Unità.

Si tratta di una delle più incisive rassegne, articolata attraverso un’ampia mostra fotografica e documentaria e una serie di eventi, incontri, riflessioni, conferenze e dialoghi, organizzate in occasione della storica ricorrenza del centenario della fondazione del Partito Comunista in Italia (1921 - 2021), con un sguardo, stavolta, del tutto peculiare e rilevantissimo, sia dal punto di vista storico e politico, sia sotto il profilo sociale e culturale, vale a dire dal punto di vista di Napoli, della Campania e del Mezzogiorno, un’occasione intrigante e preziosa per rivedere un ampio pezzo di storia del movimento operaio e democratico, e, in generale della sinistra e delle forze di progresso, del Mezzogiorno, in un lungo arco di tempo che va a coprire, di fatto, l’intero “secolo breve”, dal fascismo alla guerra, alla Resistenza e alla Liberazione, e poi, con uno sguardo assai penetrante, la lunga parabola del dopoguerra e della ricostruzione, delle lotte operaie e contadine, della faticosa costruzione della democrazia e della lotta per una democrazia più matura, per una libertà e una giustizia più grande per la classe operaia, per i lavoratori e le lavoratrici, per le donne e gli uomini.

Su questo punto vale forse la pena di interrogarsi, se è vero che, soffermandosi di fronte alle foto e ai documenti di archivio che arricchiscono la mostra e soppesando gli spunti e le riflessioni offerte dagli incontri e dai dialoghi “a margine”, proprio questo tema si affaccia come centrale, quasi assillante: libertà e giustizia insieme, la più solida giustizia sociale, per aprire spazi alla più vasta e più matura libertà, e all’emancipazione dei soggetti storicamente tenuti ai margini della vita del Paese, dai suoi centri decisionali e dai suoi luoghi di potere, anzitutto economico; e, al contempo, la libertà animata dal sentire collettivo, dall’etica della responsabilità e dal dovere dell’inclusione, per ricostruire di continuo terreni di solidarietà, di fratellanza, appunto, di giustizia.

Per questo motivo, la mostra, patrocinata, come detto, dalla Città Metropolitana di Napoli e ospitata nella suggestiva cornice del Complesso Monumentale di Santa Maria la Nova, a Napoli, non è solo (e forse neanche prevalentemente) occasione di lettura storica e di ricostruzione storiografica degli eventi legati al movimento socialista e comunista, e alla storia grande e complessa, del PCI, nei vari tornanti del XX secolo; ma è soprattutto una mostra “politica”, attraversando la quale colpiscono soprattutto le immagini di manifestazioni di massa e i volti, tantissimi, e nella quale si colgono tensioni e inquietudini che la rendono attuale e vibrante.

Il tema della centralità della politica, anzitutto: della centralità cioè delle grandi tensioni ideali e delle ampie visioni strategiche capaci di traguardare, al tempo stesso, un orientamento generale della società nel suo complesso e il governo di mille città e di mille territori; il tema della politica come luogo della partecipazione e della costruzione di una prospettiva più ampia e più avanzata, come spazio della comunità e della polis, della cittadinanza e della democrazia, davvero urgente più che mai, in un tempo, quello presente, sfregiato da discriminazioni e diseguaglianze, da qualunquismi e populismi delle più diverse risme e declinazioni.

Il tema, poi, dei luoghi e delle forme dell’organizzazione, con uno sguardo, ben colto nel materiale fotografico e documentario, al movimento di massa che ha animato tante lotte per il lavoro, per i diritti, per la democrazia (e pare evidente l’antica e sempre attuale lezione della intersezione tra lotta sociale e lotta democratica, ma anche quella della indivisibilità dei diritti, di tutti i diritti per tutti e per tutte, i diritti di libertà e di parola, di espressione e di partecipazione, del lavoro e della protezione sociale, e, pensando alle grandi contraddizioni del nostro tempo, dell’ambiente e dell’ecosistema, delle comunità e dei soggetti nella sfera mediatica e nello spazio digitale), e alle organizzazioni di massa (il partito, il sindacato, l’associazionismo) che hanno costituito, per di più, una vera scuola di formazione politica, anzi, una “scuola di democrazia”, per intere generazioni.

Per nulla, in definitiva, una mostra rivolta al passato, come ha scritto, tra gli altri, Gianfranco Nappi, fondatore della rivista Infinitimondi, tra i principali animatori della rassegna: mettendo tra parentesi quella storia, «si è portato anche un colpo alla stessa democrazia, la si è esposta, la si è privata di alcune delle sue radici, di una delle sue componenti fondamentali, non data da partiti e sindacati assunti in astratto, ma visti nella loro capacità di fare e farsi società». Viceversa, una mostra che interroga insistentemente i turbamenti del presente e le ansie del futuro, perché, ancora, resta «del tutto aperta e urgente la ricerca del come, con chi e per cosa di una soggettività politica nuova, che sappia fare, in questo tempo nostro, con la testa e le speranze delle donne e degli uomini di oggi, ciò che quel partito ha saputo fare lungo l’arco non breve del suo percorso. L’opposto di una chiusa nostalgica, ma, invece, l’idea di una storia che, nonostante tutto, continua, testardamente, a interrogarci». Aperta sino al prossimo 11 settembre, la mostra, il cui programma è visionabile online, si chiuderà infatti con la conferenza «Sul PCI ieri | Sulla sinistra necessaria oggi: per un mondo nuovo di idee».