mercoledì 8 giugno 2016

Cosa ci dicono queste elezioni: una riflessione a ragion veduta

Niccolò Caranti [CC BY-SA 3.0 (creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)] Wikimedia

La necessità di articolare una riflessione e dedurre una valutazione dagli esiti delle ultime, recenti, elezioni comunali, il cui primo turno si è celebrato domenica 5 giugno, è contenuta nelle cifre, prima ancora che nelle intenzioni: con 1342 comuni al voto, di cui 26 capoluoghi, che hanno impegnato, anche in città di primaria importanza, oltre 13 milioni di elettori, sono vere infatti entrambe le affermazioni, che si è trattato di un voto “amministrativo” per eleggere i consigli e i sindaci delle città, ma anche di un voto “politico”, vale a dire, per estensione ed impatto, di un voto locale di portata nazionale e dal notevole rilievo politico. Questo rilievo è segnato da almeno tre aspetti su cui la consultazione, con tutto il suo impatto, ha inciso: la ricezione da parte dell'elettorato delle declinazioni locali del progetto renziano, soprattutto laddove le candidature espresse dal PD erano direttamente ispirate dal presidente del consiglio e dalla sua maggioranza; la consistenza delle aree politiche intorno alle quali si svolge, da almeno tre anni a questa parte, il confronto e la dialettica politica nel nostro Paese, vale a dire il PD e quanto ruota attorno alla sua “vocazione maggioritaria” nella variante renziana; la destra, nelle sue due declinazioni attuali, quella berlusconiana “tradizionale” e quella leghista “lepenista”, e il M5S con l'insieme delle pulsioni qualunquiste e protestatarie che in esso si coagulano.

Tra le maggiori città italiane sono state coinvolte nella tornata elettorale del 5 giugno, almeno, Torino, Milano, Trieste, Bologna, Roma e Napoli: da Nord a Sud, simultaneamente, quasi tutte le grandi città e una miriade di centri medi e piccoli consentono dunque di tastare il polso dell'elettorato, di misurare non solo la qualità delle singole proposte elettorali dei candidati sindaco e della moltitudine variegata dei candidati ai consigli municipali, ma anche il carattere delle tendenze politiche salienti, in questa fase, nel nostro Paese, in un anno, peraltro, decisivo per la sua vicenda politica più complessiva, della quale questa tornata viene a fungere da crocevia, tra l'appuntamento referendario dello scorso aprile, sui temi energetici ed ambientali, e quello “diversamente referendario” del prossimo ottobre, sui temi della revisione costituzionale contenuta nel c.d. DDL “Renzi-Boschi”. Quasi ovunque, nelle grandi città, si va al ballottaggio; avanzano tendenze nuove nella fase politica generale, pur nella specificità delle diverse situazioni locali; in alcuni casi emergono indicazioni del tutto innovative ed originali, che potrebbero, se consolidate nel prossimo turno di ballottaggio (19 giugno) e nella stagione politica che si aprirà, segnalare nuove tendenze ed aprire inediti scenari.

A Torino, tutte e tre le tendenze indicate in premessa sembrano confermate: da una parte la divisione e la frammentazione delle destre escludono l'area del centrodestra tradizionale del ballottaggio (i candidati della Lega Nord e di Forza Italia, non superano, rispettivamente, il 9% ed il 6%); dall'altra l'ipotesi della continuità con una esperienza amministrativa consolidata (il PD con il candidato sindaco uscente Piero Fassino al 42%) viene incalzata dall'opzione della protesta e, per alcune istanze, del rinnovamento (con il M5S che, con la candidata Chiara Appendino, arriva al 31%). Al netto delle liste civiche che hanno sostenuto la candidatura di Fassino, il PD a Torino sfiora il 30%, sostanzialmente lo stesso risultato conseguito dal M5S come partito, con un'affluenza al voto segnata da un forte astensionismo e pari ad appena il 57% degli aventi diritto.

A Milano la situazione è invece del tutto diversa: laddove le aree politiche prevalenti riescono a compattarsi e la polarizzazione della campagna elettorale, al netto dell'effettiva alternatività delle proposte di programma, è più marcata, si riafferma la classica contrapposizione «centrosinistra vs. centrodestra» ed il M5S viene escluso dal ballottaggio, fenomeno sul quale influiscono, nel caso milanese, anche altri fattori, quali il giudizio (genericamente positivo) sull'amministrazione uscente, la conseguente riduzione degli spazi politici per una mera opzione protestataria e la qualità della candidatura proposta. I “manager gemelli” (Giuseppe Sala, per il centrosinistra, con il 42%, e Stefano Parisi, per il centrodestra, con il 41%, separati da una forchetta di appena 5 mila voti) si contenderanno al ballottaggio l'elezione a sindaco della fu “capitale morale” del Paese, in uno scenario comunque significativo, in cui il PD non raggiunge il 30%, Forza Italia doppia la Lega Nord (20% contro 12%) e il M5S a malapena supera il 10%, con un'affluenza appena al 55%.

A Trieste è, invece, la destra ad affermarsi al primo turno, anche in questo caso marcando una buona affermazione, ricompattando il campo del centrodestra tradizionale: Forza Italia e Lega Nord, insieme, con i rispettivi alleati, consentono al proprio candidato, Roberto Dipiazza, di superare il 40%, costringendo il PD e gli alleati, a sostegno di Roberto Cosolini, al ballottaggio con un consenso non superiore al 30% ed escludendo, anche qui, il M5S, fermo al 19%, dal secondo turno. Situazione ben diversa a Bologna dove peraltro, a fronte di un calo della partecipazione (ferma al 60%), il candidato del PD, Virginio Merola, sfiora il 40%, col PD attestato al 35%, mentre la costellazione della destra, a sostegno di Lucia Borgonzoni, si ferma al 22%, con la Lega Nord che doppia Forza Italia (il 10% contro il 6%). Anche qui, il M5S è fuori dal ballottaggio, sotto il 17%, in un contesto in cui si registrano, tra gli altri, una significativa perdita di consenso del M5S (pari a ca. il 6%) ed un flusso di voti dallo stesso M5S (pari a ca. il 2%) alla candidata della destra.

Roma, in questo quadro, è uno scenario a sé, sul quale non solo precipitano le contraddizioni della precedente fase politica (segnata dallo scandalo della c. d. “Mafia Capitale”) e della più recente stagione commissariale, ma si riverberano anche gli effetti di una vicenda politica particolarmente esposta in chiave nazionale, come dimostrano il risalto mediatico e il profilo delle candidature che qui si sono cimentate. Tutte condizioni ideali per favorire non solo le dinamiche polarizzatrici ma anche le pulsioni protestatarie, ampiamente dimostrate dal successo del M5S, la cui candidata, Virginia Raggi, è prima con il 35% (il M5S ha lo stesso 35%), mentre il centrosinistra ad ispirazione renziana, con Roberto Giachetti, si attesta al 25% (il PD è addirittura al 17%), a fronte di una partecipazione al voto superiore rispetto alla tornata precedente (57%) e di una consistente tendenza “a destra” dell'elettorato, con l'opzione “lepenista” di Giorgia Meloni nettamente in vantaggio su quella “berlusconiana” di Alfio Marchini (praticamente doppiato, 21% contro 11%) e quasi 15 mila voti assoluti (pari all'1.2% dell'intera platea elettorale) ai neofascisti di Casa Pound. Per il M5S è giunta subito l'indicazione di voto, al ballottaggio, da parte della Lega Nord di Matteo Salvini.

Napoli, in chiave completamente diversa rispetto alle indicazioni romane, rappresenta, in questo contesto, l'altra vera novità di queste elezioni: il sindaco uscente, Luigi de Magistris, compone una coalizione ampia, composta da forze democratiche, civiche e di sinistra, sfiorando il 43%; un centrodestra tradizionale costruito intorno a Forza Italia, con la candidatura di Gianni Lettieri, raggiunge il 24%; il centrosinistra ad ispirazione renziana, con la candidatura di Valeria Valente, precipita al 21% e il PD addirittura crolla sotto il 12%, sua peggiore performance; infine a Napoli, il M5S non raggiunge il 10%, mentre la sinistra, nel contesto civico-progressista della coalizione, per quanto trasversale, incarnata dal sindaco, sfiora un notevole 5.5%. Tale opzione civico-progressista, peraltro, risulta performante nei confronti dell'elettorato “a cinque stelle” (per una misura superiore al 6%) ed attraente anche per l'elettorato tradizionale del centro-sinistra (5%).

Teniamo a mente queste indicazioni, nel passare alla lettura dei dati elettorali della sinistra, vale a dire dell'area progressista a sinistra del PD che, laddove si è presentata unita, ha proposto il modello delle “città in comune”, sull'esempio di Podemos e di “Barcelona en Comú”: una proposta che si è rivelata efficace, laddove ha saputo coniugare unitarietà e radicalità, capace cioè di esprimere contenuti forti, avanzati, incisivi e di rappresentarsi come “utile” alla vittoria di un campo, in termini generali, “democratico e progressista”, come nel citato caso di Napoli e nel caso, qui non analizzato, di Cagliari, che ha confermato il sindaco “arancione”, Massimo Zedda, al primo turno (51%) e che ha visto la sinistra conquistare un buon successo (8%); proposta che invece si è rivelata fallimentare dove hanno pesato le divisioni fratricide, come a Milano (Milano in Comune arriva al 3.5%) e le contraddizioni interne, come a Roma (Sinistra per Roma sfiora il 4%). Sebbene Bologna proponga un ulteriore elemento positivo per le forze della sinistra (la “Coalizione Civica” è al 7%), anche a Torino il risultato della lista (Torino in Comune) è assai al di sotto delle aspettative (sotto il 3%), così come le due liste della sinistra a Trieste (dove SEL ha il 2.4% e la “Sinistra Unita” l'1.8%).

È possibile, alla luce dei dati e dei flussi, sin qui illustrati, riassumere il prevalente politico della situazione:

1. in primo luogo, nel tripolarismo di fatto che caratterizza l'attuale scena politica, i due campi tradizionali (“centrosinistra” e “centrodestra” per intenderci) restano i due poli maggioritari e, dove riescono a conseguire una “soglia minima accettabile” di unitarietà al loro interno, ridimensionano fortemente il M5S, al netto, ovviamente, della carica protestataria che tale movimento continua ad incarnare; si tratta di una indicazione non indifferente, confermata peraltro dal computo in voti assoluti e sapendo che le elezioni amministrative privilegiano molto più la qualità della proposta locale piuttosto che la presa di una suggestione nazionale;

2. in secondo luogo, sullo sfondo dei tre campi politici salienti, si agita una scena sociale particolarmente variegata e frastagliata, carica di tensioni e contraddizioni: da un lato si esprime una domanda di cambiamento che le (vere o presunte che siano) innovazioni e modernizzazioni proposte dal PD di Renzi solo in parte sono in grado di intercettare e su cui continua ad insistere la proposta e la propaganda del M5S; dall'altro si esprime al contempo un disagio sociale particolarmente forte, legato alla progressione della crisi economico-sociale, al peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro di larghi strati, soprattutto giovanili e marginali, della popolazione e al deterioramento delle condizioni materiali di esistenza, nei centri urbani grandi e piccoli;

3. in terzo luogo, questo terreno sociale, espressione di sofferenza sociale e disagio diffuso, non ancora riesce a trovare, con tutto quanto si è visto sin qui, un proprio terminale politico, una proposta politica, completa e compiuta, all'altezza, al tempo stesso, della complessità dello scenario di crisi che si manifesta e della durezza della transizione che il Paese, nel suo insieme, sta attraversando. Il risultato delle forze della sinistra in questa tornata amministrativa è molto più una funzione della qualità della proposta politica che viene avanzata che non della omogeneità delle formule nelle quali si viene rappresentando. Più che di contenitori e di formule, si avverte sempre più urgente l'esigenza di una connessione con gli strati del bisogno e delle periferie, di un profilo programmatico netto e riconoscibile, di una collocazione chiara e niente affatto ambigua. 

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