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Tra le realtà di movimento più vicine all'impegno internazionalista e più attente nella lettura delle questioni internazionali, è ben nota la dinamica, sovente inquinata da presenze sovraniste, nazionalitarie e rosso-brune, della solidarietà alla Siria e, in particolare, l'articolazione del movimento di solidarietà internazionalista, e, al suo interno, del movimento per la pace e contro la guerra.
Al suo interno, convivono ben più delle due posizioni schematizzate nella polarizzazione “classica” tra il sostegno acritico e ripetitivo alle forze governative e l'appoggio, altrettanto acritico e ripetitivo, ai c.d. "rivoluzionari", quest'ultimo, talvolta, anche da parte di soggetti associativi apparentemente irreprensibili e insospettabili, spinto fino al punto da richiedere “severe sanzioni economiche” contro le autorità siriane o, peggio ancora, l'imposizione di corridoi umanitari che, tuttavia, come coloro i quali le rivendicano non sanno o fingono di non sapere, non concordate con le istituzioni legittime dei territori interessati e al di fuori di un quadro condiviso di legalità internazionale, almeno su scala regionale, si configurano, né più né meno, come un autentico atto di guerra.
Dovremmo attraversare non con “spirito di fazione”, banalizzando le diverse posizioni come tifo, più o meno scomposto o fanatico, per l'una o l'altra delle realtà in campo, ma con aderenza alla realtà, affrontando e cogliendo la sfida della complessità che la tragedia siriana ci rappresenta, questa vicenda, senza indulgere a schieramenti di campo precostituiti, ma partendo dai dati di fatto, che, sono, nei fondamentali, almeno tre:
a) il carattere laico e repubblicano del governo attualmente al potere in Siria;
b) il consenso popolare di cui gode (come segnalato da molte evidenze, in positivo, dai riscontri elettorali, in negativo, dai timori del Dipartimento di Stato in merito a possibili elezioni anticipate in una fase transitoria);
c) l'orientamento delle forze progressiste e dei comunisti siriani (in ampia maggioranza a sostegno o in appoggio al governo del Baath) prima ancora di quelle degli altri Paesi.
b) il consenso popolare di cui gode (come segnalato da molte evidenze, in positivo, dai riscontri elettorali, in negativo, dai timori del Dipartimento di Stato in merito a possibili elezioni anticipate in una fase transitoria);
c) l'orientamento delle forze progressiste e dei comunisti siriani (in ampia maggioranza a sostegno o in appoggio al governo del Baath) prima ancora di quelle degli altri Paesi.
Ciò assodato, si può articolare l'analisi a partire dai principi generali (auto-determinazione, internazionalismo, giustizia internazionale) o dalle circostanze congiunturali (posizionamenti, sviluppi internazionali etc.), tenendo presente comunque che un movimento di solidarietà si muove sul piano sociale (e delle relazioni sociali) prima che su quello istituzionale (e di appoggio, più o meno critico, a questo o quel governo).
Si tratta di una distinzione di non poco conto e niente affatto nominalistica: ci consente di individuare le vere cause della tragedia in corso che solo in parte affondano nella repressione delle proteste della primavera 2011 ma molto più intensamente hanno a che fare con l'intromissione negli affari interni e il pilotaggio di quelle proteste da parte di attori e fondi legati all'imperialismo degli Stati Uniti e alle petro-monarchie del Golfo Persico; e ci permette di fare luce sulle iniziative di società civile siriana in Siria per il superamento del conflitto e la difesa popolare dalla violenza settaria, in buona parte oscurate dai media mainstream che preferiscono dare ruolo e spazio a centrali di “società civile” legate all'Occidente o addirittura basate nei Paesi occidentali, lontane dalla realtà siriana in nome e per conto della quale pure pretendono di parlare.
Ovviamente, alla luce di queste note di metodo, il compito, di chiarificazione e di sintesi, che spetta alle forze più avanzate del movimento per la pace e contro la guerra di fronte alla tragedia siriana, non è semplice, è impegnativo ma, pur essendo gravoso, non è più (semmai lo è stato in passato) eludibile. Si tratta di riconoscere e di rispettare la autodeterminazione, la autonomia e la libertà dei soggetti che vivono il conflitto nel proprio Paese e che direttamente ne subiscono le conseguenze: riconoscere la legittimità e il consenso di cui (ancora) godono le istituzioni siriane, porsi a fianco dei soggetti, sociali e popolari, più deboli, che sono anche quelli più esposti alla furia del conflitto e della violenza (soprattutto settaria), e costruire percorsi di conoscenza e di condivisione, oltre che di appoggio e di sostegno, per imparare a ri-conoscere bisogni e istanze della società siriana, nelle sue articolazioni più mature, democratiche e avanzate, che, di norma, anche per storia, poco hanno a che fare con gli interessi dell'imperialismo e dei suoi proconsoli.
Anche in questo caso, si tratta, da un lato, di stigmatizzare la violenza, dall'altro di precisare il perimetro del nostro campo di azione come movimento per la pace e contro la guerra, di fronte alla tragedia siriana; il che non vuol dire imporre l'unica linea (nessun coordinamento si muove in maniera monolitica) bensì escludere quelle posizioni i cui presupposti impediscono la possibilità di una cooperazione basata su principi di rispetto dell'autonomia e dell'autodeterminazione dei popoli. Sappiamo tutti che è difficile, essere, al tempo stesso, inclusivi, plurali e rigorosi, e però è uno sforzo che va compiuto, dal momento che, come giustamente si diceva, l'alternativa, di fatto, ad una sintesi avanzata è il pilatismo o il ne-ne-ismo. Sono tutte tendenze deprimenti, che inibiscono la possibilità di coordinamenti autenticamente inclusivi e di iniziative politicamente efficaci. Tendenze già viste e contrastate, laddove i movimenti hanno avuto modo di intercettarli e misurarli.
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