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L’11 marzo cade il quindicesimo anniversario della morte in carcere all’Aja di Slobodan Milošević. L’ex presidente serbo e jugoslavo si trovava sotto la custodia del Tribunale ad hoc dell’Aja a Scheveningen, sotto processo, con l’accusa di crimini di guerra commessi nel contesto delle guerre che avevano attraversato e lacerato la Jugoslavia nel corso degli anni Novanta. La lunga parabola umana e politica di Milošević potrebbe sembrare oggi, dunque, materia per storici e cronologie; non di meno, la sua eredità e il suo lascito continuano ad essere divisivi e la situazione dei Paesi post-jugoslavi, attraversati dalle lunghe guerre etno-politiche degli anni Novanta, continua a essere controversa e instabile, come mostrano soprattutto i casi di Bosnia e Kosovo.
Non è inutile dunque riflettere sulla figura, storica e politica, di Milošević. Slobodan Milošević era nato il 20 agosto 1941 a Pozarevac, cittadina della Serbia centrale, non distante da Belgrado, oggi città di poco più di 70 mila abitanti, eppure famosa per essere stata la sede in cui, nel 1718, fu firmata la celebre pace di Passarowitz (nome tedesco della città) tra Venezia e l’Impero Ottomano, all’epoca potenza dominante sui Balcani centrali e meridionali. Pochi anni dopo, nel 1739, il Trattato di Belgrado avrebbe consentito all’Impero Ottomano di riconquistare tutta la Serbia settentrionale, fissando nuovi confini con l’Impero Asburgico sulla linea formata dai fiumi Sava e Danubio, presso Belgrado.
Milošević si laureò alla Facoltà di Giurisprudenza di Belgrado nel 1964, unendo alla formazione giuridica la vocazione politica, dal momento che, sin dal 1959, era membro della Lega dei Comunisti di Jugoslavia, nella quale rimase fino alla sua dissoluzione e alla succedanea fondazione del Partito Socialista di Serbia (SPS) nel 1989, di cui divenne presidente. Nelle prime elezioni multipartitiche in Serbia, tenute nel dicembre 1990, come candidato del Partito Socialista, ha ottenuto il 65% dei voti diventando di conseguenza primo presidente eletto della Repubblica di Serbia. È stato eletto Presidente della Repubblica Federale di Jugoslavia (la cosiddetta Terza Jugoslavia, dopo le secessioni repubblicane e la guerra, la “piccola Jugoslavia”, costituita da Serbia e Montenegro, istituita nel 1992 e rimasta formalmente in vita sino all’inizio del 2003) nel 1997, rimanendo in carica fino al fatidico 5 ottobre 2000, quando, sotto la pressione di parte dell’opinione pubblica e per effetto della cosiddetta «Bulldozer Revolution», considerata una delle prime “rivoluzioni colorate” filo-occidentali tra Europa e Asia, sarebbe stato costretto a rassegnare le dimissioni.
Dopo il primo turno del 24 settembre e prima che si potesse svolgere regolarmente il secondo turno di ballottaggio, con un’azione programmata e organizzata, anche con l’intervento di veri e propri commando ben addestrati, il 5 ottobre 2000 il parlamento serbo a Belgrado fu assaltato e devastato e Milošević costretto alle dimissioni, lasciando il posto al candidato della DOS (cosiddetta Opposizione Democratica Serba, un insieme di formazioni di varie ispirazioni, liberali, conservatrici, monarchici, nazionalisti, clericali) Vojislav Kostunica. Al primo turno, Kostunica aveva ottenuto il 48.96% dei voti, mancando di poco il 50% richiesto per la vittoria al primo turno; Slobodan Milošević aveva ottenuto il 38.62%. Il secondo turno fu regolarmente indetto per l’8 ottobre, ma il 5 ottobre la sollevazione violenta trasformò la transizione elettorale in un golpe di fatto.
Dopo il primo turno del 24 settembre e prima che si potesse svolgere regolarmente il secondo turno di ballottaggio, con un’azione programmata e organizzata, anche con l’intervento di veri e propri commando ben addestrati, il 5 ottobre 2000 il parlamento serbo a Belgrado fu assaltato e devastato e Milošević costretto alle dimissioni, lasciando il posto al candidato della DOS (cosiddetta Opposizione Democratica Serba, un insieme di formazioni di varie ispirazioni, liberali, conservatrici, monarchici, nazionalisti, clericali) Vojislav Kostunica. Al primo turno, Kostunica aveva ottenuto il 48.96% dei voti, mancando di poco il 50% richiesto per la vittoria al primo turno; Slobodan Milošević aveva ottenuto il 38.62%. Il secondo turno fu regolarmente indetto per l’8 ottobre, ma il 5 ottobre la sollevazione violenta trasformò la transizione elettorale in un golpe di fatto.
Le sedi dei partiti della sinistra furono assaltate e saccheggiate, militanti socialisti e rappresentanti sindacali spesso aggrediti, furono bloccati e sequestrati i beni del SPS, che si trovò poi ad affrontare una vera ondata repressiva, e, ben presto, anche una damnatio memoriae. Nel giro di pochi giorni, il 31 ottobre, l’allora portavoce e futuro premier della DOS, Zoran Djindjić, dichiarò che Milošević sarebbe dovuto comparire in tribunale «diverse volte», con le accuse di frode elettorale, di esportazione illegale di fondi all’estero e di una serie di omicidi. La restaurazione, iniziata con i 35 milioni di dollari di provenienza statunitense ai partiti e alle organizzazioni dell’opposizione di destra nell’anno precedente le elezioni del 24 Settembre 2000, culminò con l’arresto di Milošević a Belgrado, dove aveva continuato a risiedere, il 1 aprile 2001, con l’accusa di frode finanziaria.
Come riportò la BBC, «l’arresto coincide con la scadenza della deadline imposta dagli Stati Uniti al governo jugoslavo per porre agli arresti l’ex presidente o rischiare di perdere gli ingenti aiuti economici americani e i prestiti del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale». Già il 28 giugno 2001 Milošević veniva però estradato al Tribunale dell’Aja: in questa imbastitura politico-giudiziaria perfino la scelta delle date corrispose a un chiaro messaggio simbolico, trattandosi, il 28 giugno, del Vidovdan, una delle feste più sentite nella memoria collettiva del popolo serbo. Milošević è stato incriminato per crimini di guerra in Kosovo e Metohija, per crimini di guerra e genocidio in Bosnia ed Erzegovina e per crimini di guerra in Croazia, ma, a causa della morte in carcere, il processo non è giunto a sentenza. Moltissime le ombre sul processo, arrivato peraltro a un punto morto; altrettante le ombre sulla legittimità stessa dell’istituzione del Tribunale ad hoc.
La sua istituzione è controversa, perché non è un’emanazione dell’Assemblea Generale né il risultato di un consenso di natura pattizia, bensì è stato istituito dal Consiglio di Sicurezza con la risoluzione 827 del 1993; la sua stessa giurisdizione compromessa dal fatto che abbia preso in carico casi risalenti al periodo 1991-1993 in violazione del principio nullum crimen sine lege, trovandosi a giudicare casi commessi prima della sua stessa istituzione; infine, ha sollevato l’obiezione di essere un vero e proprio “tribunale dei vincitori”, pilotato di fatto dagli Stati Uniti e dal consenso atlantico, anche in ragione del numero sproporzionato di imputati serbi rispetto agli imputati di altre nazionalità.
La sua istituzione è controversa, perché non è un’emanazione dell’Assemblea Generale né il risultato di un consenso di natura pattizia, bensì è stato istituito dal Consiglio di Sicurezza con la risoluzione 827 del 1993; la sua stessa giurisdizione compromessa dal fatto che abbia preso in carico casi risalenti al periodo 1991-1993 in violazione del principio nullum crimen sine lege, trovandosi a giudicare casi commessi prima della sua stessa istituzione; infine, ha sollevato l’obiezione di essere un vero e proprio “tribunale dei vincitori”, pilotato di fatto dagli Stati Uniti e dal consenso atlantico, anche in ragione del numero sproporzionato di imputati serbi rispetto agli imputati di altre nazionalità.
Peraltro, nella sentenza emessa il 24 marzo 2016 dal Tribunale ad hoc contro Radovan Karadžić, § 3460, p. 1303, «per quanto riguarda le prove presentate in relazione a Slobodan Milošević e alla sua appartenenza alla comune impresa criminale, la Camera ricorda che [Milošević] ha condiviso e avallato l’obiettivo politico dell’accusato [Radovan Karadžić] e della leadership serbo-bosniaca di preservare la Jugoslavia e impedire la separazione o l’indipendenza della Bosnia-Erzegovina e ha collaborato strettamente con l’accusato durante questo periodo. La Camera ricorda inoltre che Milošević ha fornito assistenza sotto forma di personale, provviste e armi ai serbi bosniaci durante il conflitto. Tuttavia, sulla base delle prove dinanzi alla Camera riguardo agli interessi divergenti emersi tra la leadership serbo-bosniaca e la leadership serba durante il conflitto e, in particolare, le ripetute critiche e la disapprovazione di Milošević delle politiche e delle decisioni prese dall’accusato e dalla leadership serbo-bosniaca, la Camera non è soddisfatta che vi fossero prove sufficienti presentate in questo caso per ritenere che Milošević fosse d’accordo con il piano comune».
«Ma non per questo rinunceremo alla Jugoslavia e ci stabiliremo in una terra più felice e più ricca. Queste sono piuttosto ragioni ancor più valide per rimanere nel nostro Paese e renderlo più ricco e più felice. È possibile, ma attraverso una condizione obbligatoria: realizzare la completa separazione delle forze del socialismo, della fratellanza e unità, e del progresso dalle forze del separatismo, del nazionalismo e del conservatorismo». La restaurazione si compì, tuttavia, soprattutto sul versante economico e sociale. La DOS, dopo la caduta di Milošević, trasformò radicalmente, in senso regressivo, la struttura della Serbia attraverso cinque capitoli di “riforme”: una estesa privatizzazione delle imprese di proprietà statale e sociale; l’introduzione della piena convertibilità del dinaro serbo; la più ampia liberalizzazione del commercio estero; la chiusura e la dismissione delle banche statali in perdita e l’ingresso di banche e capitali esteri nel mercato interno, misure che ebbero, tra gli altri, l’effetto di fare esplodere la disoccupazione; un nuovo diritto del lavoro ispirato ai criteri liberali di mercato. Non meno di tremila furono le imprese privatizzate. Solo durante il governo Djindjić (2001-2003, proseguito fino al 2005 dopo il suo assassinio, con Nebojša Čović e Zoran Živković), oltre 1.400 aziende sono state privatizzate. Particolarmente oscuri almeno ventiquattro casi, per i quali sono stati avanzati sospetti di abuso di posizione ufficiale di alti funzionari statali e di corruzione, nonché danni alle finanze pubbliche.
È impensabile emergere dal dramma della guerra con la demonizzazione o con la vittimizzazione a sfondo etnico. Così come difficile immaginare di traguardare un orizzonte di pace e di progresso senza, da un lato, una compiuta democrazia, e, dall’altro, una efficace protezione dei diritti sociali, dell’inclusione sociale, dei lavoratori e delle lavoratrici. «Le disuguaglianze e il mancato rispetto di tutti i diritti umani hanno il potere di erodere tutti e tre i pilastri dell’ONU: pace e sicurezza, sviluppo, diritti umani. [...] Le disuguaglianze minacciano la nostra opportunità di realizzare uno sviluppo sostenibile e inclusivo. Le disuguaglianze suscitano rimostranze e disordini; alimentano odio, violenza e minacce alla pace; costringono le persone a lasciare le loro case e i loro Paesi. Le disuguaglianze minano il progresso sociale e la stabilità economica e politica. Ma i diritti umani costruiscono la speranza. Legano l’umanità, con principi condivisi e un futuro migliore, in netto contrasto con le forze divisive e distruttive della repressione, dello sfruttamento, del capro espiatorio, della discriminazione e delle disuguaglianze». Tessere il filo della memoria, e una ricerca lucida e serena sugli eventi tragici degli anni Novanta e oltre, continuano a rappresentare ponti, anche in questa circostanza, nella direzione della «pace con giustizia».
«Ma non per questo rinunceremo alla Jugoslavia e ci stabiliremo in una terra più felice e più ricca. Queste sono piuttosto ragioni ancor più valide per rimanere nel nostro Paese e renderlo più ricco e più felice. È possibile, ma attraverso una condizione obbligatoria: realizzare la completa separazione delle forze del socialismo, della fratellanza e unità, e del progresso dalle forze del separatismo, del nazionalismo e del conservatorismo». La restaurazione si compì, tuttavia, soprattutto sul versante economico e sociale. La DOS, dopo la caduta di Milošević, trasformò radicalmente, in senso regressivo, la struttura della Serbia attraverso cinque capitoli di “riforme”: una estesa privatizzazione delle imprese di proprietà statale e sociale; l’introduzione della piena convertibilità del dinaro serbo; la più ampia liberalizzazione del commercio estero; la chiusura e la dismissione delle banche statali in perdita e l’ingresso di banche e capitali esteri nel mercato interno, misure che ebbero, tra gli altri, l’effetto di fare esplodere la disoccupazione; un nuovo diritto del lavoro ispirato ai criteri liberali di mercato. Non meno di tremila furono le imprese privatizzate. Solo durante il governo Djindjić (2001-2003, proseguito fino al 2005 dopo il suo assassinio, con Nebojša Čović e Zoran Živković), oltre 1.400 aziende sono state privatizzate. Particolarmente oscuri almeno ventiquattro casi, per i quali sono stati avanzati sospetti di abuso di posizione ufficiale di alti funzionari statali e di corruzione, nonché danni alle finanze pubbliche.
È impensabile emergere dal dramma della guerra con la demonizzazione o con la vittimizzazione a sfondo etnico. Così come difficile immaginare di traguardare un orizzonte di pace e di progresso senza, da un lato, una compiuta democrazia, e, dall’altro, una efficace protezione dei diritti sociali, dell’inclusione sociale, dei lavoratori e delle lavoratrici. «Le disuguaglianze e il mancato rispetto di tutti i diritti umani hanno il potere di erodere tutti e tre i pilastri dell’ONU: pace e sicurezza, sviluppo, diritti umani. [...] Le disuguaglianze minacciano la nostra opportunità di realizzare uno sviluppo sostenibile e inclusivo. Le disuguaglianze suscitano rimostranze e disordini; alimentano odio, violenza e minacce alla pace; costringono le persone a lasciare le loro case e i loro Paesi. Le disuguaglianze minano il progresso sociale e la stabilità economica e politica. Ma i diritti umani costruiscono la speranza. Legano l’umanità, con principi condivisi e un futuro migliore, in netto contrasto con le forze divisive e distruttive della repressione, dello sfruttamento, del capro espiatorio, della discriminazione e delle disuguaglianze». Tessere il filo della memoria, e una ricerca lucida e serena sugli eventi tragici degli anni Novanta e oltre, continuano a rappresentare ponti, anche in questa circostanza, nella direzione della «pace con giustizia».
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