mercoledì 18 gennaio 2012

A proposito di Guerra e di Lavoro

Ricognizione storica

La guerra è sempre stata un potente fattore di consenso e di mobilitazione intorno ai disegni delle borghesie capitalistiche dominanti: lo fu ad esempio alla vigilia delle due guerre mondiali, quando la chiamata all’ordine di guerra era funzionale al contenimento dell’egemonia degli ideali socialisti, di cui la prima guerra mondale era stata un potente catalizzatore; lo è stato in maniera sostanzialmente analoga anche durante tutte le guerre, a diverso grado di intensità, di cui è stato ricco il secondo dopoguerra, in cui il clima medesimo da guerra fredda e la minaccia rappresentata dal competitore storico, l’Unione sovietica, costituirono un potente cemento delle democrazie imperialiste filoamericane, uno strumento di propaganda antisindacale e antidemocratica, e anche un mezzo con cui, in Italia, si giocò la partita della democrazia bloccata e dei tentativi di conservazione del blocco di potere costituito, non disdegnando per giunta tentativi eversivi di carattere golpista e terrorista.
Il quadro attuale, non più segnato dall’orizzonte della guerra fredda e dalla conventio ad excludendum ai danni del Partito Comunista, è complessivamente differente, ma strutturalmente analogo a quello che abbiamo vissuto nei decenni addietro. Le borghesie dominanti continuano di volta in volta a usare gli strumenti leciti della propaganda e quelli illeciti della strumentalizzazioni politiche dei disegni eversivi e neoterroristici per indurre nel Paese un clima generalizzato di sospetto e di allarme, se non esplicitamente di paura, atto a  giustificare da una parte la nuova ondata di repressione e controllo, dall’altra la raffigurazione dell’avversario di classe come nemico della democrazia.

 
Per una riscoperta di senso e coscienza di classe

Contro le logiche padronali, che hanno fatto del mito della flessibilità l’arma ideologica mediante la quale procedere allo scardinamento sistematico dei diritti dei lavoratori, diritti conquistati con anni di lotte sindacali e operaie, è necessario infatti recuperare una idea di centralità dei diritti sociali e del lavoro, che si traduce sovente in un diritto alla vita per quanti non hanno alternative al loro posto di lavoro duramente raggiunto. Si tratta quindi di una grande battaglia di democrazia sociale, che proprio per questo parla non solo alle realtà aziendali con meno di quindici dipendenti, ma all’intero mondo del lavoro del nostro Paese.
Parla ai migranti, anello debole della catena capitalistica, costretti ad accettare le nuove forme di schiavitù che si perpetuano sistematicamente soprattutto all’interno delle piccole aziende, i capannoni del nord-est e non solo, dove si consumano i più violenti abusi al riparo delle tutele previste dallo Statuto e dove si fomenta il conflitto orizzontale tra poveri, l’arma, mediante la quale, si perpetua la divisione del fronte sociale di classe, con il ricatto della legge Bossi-Fini, aberrante corollario di questa realtà, e del posto di lavoro a tutti i costi e quale che sia, pur di aver garantita la permanenza in Italia.
Parla alle donne e al loro diritto ad essere protette e tutelate sul posto di lavoro dagli abusi, dalle molestie e nel loro diritto alla maternità, che non può e non deve subire il ricatto del licenziamento e l’acquiescenza all’abuso commesso dal padrone; parla ai giovani, il cui ingresso nel mondo del lavoro è sempre più condizionato all’accettazione di forme di lavoro flessibili, precarie, interinali, che li priva della possibilità di progettare il proprio futuro e di garantirsi un miglioramento delle proprie condizioni materiali di esistenza, sempre sottoposti, come sono, al ricatto e all’abuso; e parla infine alla società tutta e della necessità di introdurre il tema dei diritti esigibili e intoccabili, baluardo e garanzia della tenuta democratica del Paese e dall’arbitrio del più forte, per una nuova idea di società, in cui i diritti non siano dispensati arbitrariamente dal più forte e alle sue condizioni, ma siano inalienabili istanze di certezza di vita per ciascuno di noi.


Il ricatto imperialista

La guerra imperialista degli Usa e dei suoi più stretti alleati contro l’Iraq di Saddam Hussein risponde al più classico degli schemi dell’analisi leniniana sull’imperialismo, dal momento che è una guerra condotta nell’interesse specifico dei principali monopoli del settore energetico e del complesso militar-industriale americano, che, grazie alle commesse di guerra e all’innovazione nell’hi-tech militare, costituiscono il principale volano dell’economia statunitense. Tale monopoli imperialisti sono facilmente riconoscibili all’interno del sistema economico anglo-americano, a partire dai grandi colossi petroliferi come Exxon-Mobil, Chevron-Texaco e Bp-Amoco e rappresentano, insieme alle grandi industrie degli armamenti, come ad esempio la Boeing, la Lockheed-Martin ed altre, i principali agenti del capitalismo imperialistico che, nella suddivisione in monopoli, atti a spartirsi il mondo in zone di influenza per lo smaltimento dei prodotti in esubero sui mercati e l’approvvigionamento delle fonti di energia, ha la sua caratterizzazione strutturale.


Il fattore-crisi

La guerra imperialista rappresenta il più classico fattore di risposta anticiclica e congiunturale alla crisi recessiva in atto del sistema capitalistico internazionale. E’ del tutto evidente che il sistema patisce oggi una grave crisi di sovrapproduzione, testimoniata dalla crisi del settore automobilistico e dal fallimento dei grandi gruppi maggiormente interessati al gioco delle speculazioni anni Novanta, a partire da Enron e World.com. La crisi è determinata dall’impossibilità di de-saturare il mercato interno e dalla conseguente atrofizzazione della domanda, che, unitamente alla crisi di fiducia del consumatore medio, rappresenta uno dei più formidabili elementi di crisi e di delegittimazione materiale del sistema.
La risposta della borghesia dominante è doppia: da una parte, nel più classico dei giochi imperialistici, punta a rafforzare la produzione mediante un controllo diretto degli approvvigionamento energetici e all’apertura manu militari di nuovi mercati e canali di allocazione delle produzioni in esubero, al fine di smaltirle in regioni in cui la domanda di beni non vitali è tendenzialmente in crescita, cioè appunto i Paesi del cosiddetto Secondo mondo, di cui il Medio oriente è il rappresentante  tipico; dall’altra cerca di rivitalizzare la domanda interna e per farlo ricorre a due strategie complementari.
Queste sono: il forte sostegno alla domanda per consumi ed investimenti dei ceti abbienti, in primo luogo mediante una riforma fiscale di classe e tale da favorire esplicitamente i redditi più alti, da pagare mediante una forte riduzione della spesa sociale; e un’operazione di compattamento ideologico mediante la riscoperta, anche di segno razzista, dei valori occidentali, della difesa della Patria e del nuovo nazionalismo, attuata mediante i media borghesi asserviti al potere, che infatti, ove più ove meno (l’Italia è un caso eclatante) ne detiene quasi ovunque il controllo, o mediante una partecipazione diretta all’azienda radio-televisiva, o mediante un esplicito controllo politico.


La deriva antisindacale

La concretizzazione di un programma di guerra imperialista passa quindi in tutti i Paesi che la sostengono attraverso un sistema di rifunzionalizzazione delle spese di bilancio interne dalle voci di spesa sociale a quelle per il complesso militar-industriale e le politiche di sicurezza, e passa inoltre per una legislazione di emergenza e un autentico controllo politico della popolazione attraverso la manipolazione dei cosiddetti dati sensibili, nonché  per un significativo restringimento degli spazi della vita sociale e democratica mediante l’intervento e il rafforzamento dell’azione delle diverse agenzie di polizia.
Il compattamento ideologico necessario a qualunque governo nella fase dell’iniziativa bellica punta alla chiamata all’ordine, all’abbattimento delle voci critiche e alla criminalizzazione dell’opposizione sociale. Non a caso in Italia la politica di guerra è esplicitamente accompagnata alla politica antisociale e antisindacale, con l’individuazione del nemico interno nell’avversario di classe: funzionale a questa logica sono da una parte la riduzione del sindacato collaborativo, Cisl-Uil,  a ente parastatale, che si cerca di promuovere, anche attraverso il Patto per l’Italia, mediante la sostituzione del sindacato con l’ente bilaterale, e dall’altra la condanna del sindacato all’opposizione, la Cgil, come agente ideologico dello scontro di classe, che del resto proprio la Cgil aveva fortemente contribuito a mettere in sordina all’epoca della concertazione.


La versione italiana dell’imperialismo Usa

Tutti i provvedimenti di politica economica del governo delle destre in Italia muovono in questa direzione: la riforma fiscale con il taglio delle aliquote e il sostegno al reddito medio alto; la proposta di abbattimento dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori e la legge 848 sulla riforma del mercato del lavoro, che risponde alla medesima logica di ridefinizione dell’interesse padronale di classe, evidentemente sostenuta dall’asse Governo-Confindustria; il progetto di modifica delle pensioni, che, a partire dall’accantonamento del Tfr, e dal suo versamento in fondi pensione quotati sul mercato, risponde proprio all’esigenza del grande profitto e dell’accumulazione speculativa sulle rendite borsistiche, volta a favorire  i maggiori gruppi quotati (industria strategica nazionale, potentati industriali, grandi gruppi del credito e delle assicurazioni ecc.) e a ridurre i margini di controllo sociale sui medesimi; fino alla ricusazione dell’accordo europeo per la costruzione del nuovo aereo cargo militare dell’Airbus A400M, in vantaggio del progetto dell’americana Boeing, che indica materialmente l’intenzione di voler seguire le politiche imperialiste di guerra dell’alleato americano molto più che la costruzione europea, rendendo esplicita una vocazione bellicista e piccolo-imperialista.
Siffatta deriva è tuttavia determinata anche dalla condizione strutturale del sistema Paese di cui la crisi Fiat rappresenta il caso più allarmante: la stessa politica governativa nei riguardi della Fiat, il sostanziale disinteresse verso il più grande gruppo industriale nazionale, e anche l’unica grande industria di proiezione internazionale che al nostro Paese sia rimasta, mostrato sia con il rifiuto di un piano industriale funzionale al rilancio dell’aziende nei settori chiave degli investimenti e della ricerca, che con quello, ampiamente prevedibile, di un piano di ‘salvataggio’ mediante intervento pubblico, confermano l’intenzione del governo di procedere a una modificazione strutturale del sistema Paese.
Questo dovrà sempre più orientarsi verso un tessuto produttivo fatto di medie, piccole e piccolissime imprese (modello nord est) capace di soddisfare la domanda interna in proiezione localistica e regionalistica ma assolutamente incapace di proiettarsi nella competizione sui grandi mercati internazionali. In tal senso il capitalismo italiano viene a configurarsi come un piccolo capitalismo, capace di accedere solo nelle fasce interstiziali del mercato internazionale e di competere con i Paesi capitalistici di seconda fascia, proiettandosi principalmente sui mercati poveri, quelli dei Paesi dell’est europeo, ad esempio, che non a caso sono stati tra i più solerti nell’appoggiare  e sostenere l’iniziativa imperialista di guerra degli Usa.
E’ del tutto evidente che un sistema di questo genere è incapace di vita autonoma sul mercato capitalistico mondiale, si alimenta delle commesse e delle produzioni strategiche delle grandi potenze straniere e ha necessariamente bisogno dei mercati aperti da altri: questa è la radice dell’acquiescenza al ricatto americano e della subordinazione alle politiche di guerra di Bush
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