mercoledì 18 gennaio 2012

"Il Gioco del Capitale"

Nella fase complessa e per molti aspetti drammatica che stiamo vivendo, è fondamentale che l’attività politica e l’elaborazione teorica trovino punti di incontro non saltuari, ma stabili e continuativi. Il superamento della scissione tra un sapere meramente “accademico” e un’attività politica sempre più slegata dalla teoria è tra i compiti essenziali che hanno di fronte il movimento comunista in particolare e quello anticapitalista in generale. Si avverte cioè un grande bisogno di un dibattito che non sia separato dalla militanza, e che ridia sostanza a quel nesso teoria-prassi che dovrebbe caratterizzare chi vuole cambiare il mondo.
In questa direzione è inquadrabile l’esperimento della Federazione del PRC, che ha aperto uno spazio di discussione, dando vita ad un marchio editoriale che possa essere – come ha scritto il promotore dell’iniziativa editoriale, Luca Elena – 

“un cantiere dedicato ai lavori che vengono ‘dal basso’, dai Circoli del Partito, da Associazioni, gruppi di lavoro, e da singoli compagni”. Si tratta di un progetto ambizioso, ma senza dubbio necessario, che può stimolare i compagni ad una forma di partecipazione più attiva e al tempo stesso più impegnata. Il nome del nuovo marchio – Lavorincorso – è di per sé esplicativo e segnala la volontà di una ricerca aperta ma rigorosa.
Il contributo che apre questo percorso è un lavoro realizzato dai compagni del circolo “Che Guevara” (e in particolare del suo dipartimento Questioni internazionali), introdotto da Gordon Poole, e intitolato Il gioco del capitale. Geopolitica delle risorse ed evoluzione della strategia militare, che è uscito alla fine del 2002.
Il volume è frutto di una ricerca collettiva durata molti mesi, da cui è emerso un documentato dossier. Gli Autori si servono dei “modelli interpretativi appartenenti alla storia del pensiero comunista”, da Marx a Lenin a Mao, applicandoli creativamente al contesto della globalizzazione capitalistica (peraltro – come dimostrano – ampiamente prefigurata da Marx), ai suoi conflitti e alle sue contraddizioni. Il punto di partenza è proprio la consapevolezza che, trovandoci ancora nella fase imperialistica dello sviluppo capitalistico, un quadro mondiale privo di interessi statuali in conflitto tra loro (come viene disegnato, ad esempio, nell’Impero di Negri e Hardt) è assolutamente impossibile. Queste contraddizioni riguardano innanzitutto il controllo delle risorse: un problema che sarà sempre più cruciale col passare degli anni, ma che – assieme alla questione dell’egemonia – è già oggi al centro dei contrasti inter-imperialistici (tra USA e Gran Bretagna, da un lato, e Francia e Germania, dall’altro) sulla questione della guerra all’Iraq.
La prima contraddizione sta nel fatto che – scrivono i nostri Autori – il fabbisogno mondiale di risorse energetiche “è cresciuto a ritmi più che esponenziali e [...] ha superato un fattore critico di riferimento”. Questo vale innanzitutto per il petrolio, le cui riserve dovrebbero esaurirsi in poco più di un secolo (e rispetto a cui gli USA hanno raggiunto il picco della produzione già trent’anni fa; dopodiché è iniziato il calo). A ciò si lega la questione del “sovraconsumo energetico dei Paesi più sviluppati”, i quali – se vorranno sostenere gli attuali livelli di crescita e soprattutto l’attuale “modello di sviluppo”, basato sulla produzione inarrestabile di merci – saranno nei prossimi anni presumibilmente impegnati in “una vera e propria corsa all’accaparramento di bacini potenzialmente sfruttabili”, coi conflitti e le guerre che ciò provocherà. Queste previsioni peraltro trovano ampia conferma nelle intenzioni esplicitamente egemoniche che l’Amministrazione statunitense ha più volte affermato, in documenti ufficiali ormai noti. Peraltro la questione riguarda anche i gas naturali e i vari progetti di pipelines, oleodotti e gasdotti, in via di progettazione o realizzazione, e spesso in contrasto tra loro, ampiamente documentati nel dossier.
In sostanza, “il problema energetico tende allora a diventare un problema geopolitico”. E tende a condizionare pesantemente – altro che i motivi “umanitari” o la “lotta al terrorismo”! – le scelte di politica estera dei vari Stati, a partire dagli USA. “Non a caso”, osservano giustamente gli Autori, Bush ha indicato tra gli “Stati canaglia” Iraq, Iran, Libia e Siria, e cioè i Paesi che stanno applicando “una più rigorosa politica produttiva [...] sfavorevole ad aumenti indiscriminati della produzione per sostenere i ritmi di crescita dell’Occidente”. Da qui alle dichiarazioni di guerra, il passo è breve.

Nessun commento:

Posta un commento