domenica 11 aprile 2021

Bosnia, un difficile “punto di equilibrio”

Innenansicht der sanierten Vijećnica in Sarajevo, Julian Nyča, CC BY-SA 4.0: https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=42435126


Il 6 Aprile 1992, ventinove anni fa, iniziava la Guerra di Bosnia: sotto il tiro dei cecchini e delle artiglierie, Sarajevo divenne città «ferita e divisa», con il centro storico e l’aeroporto controllati dai bosniaco-musulmani, Novo Sarajevo e i quartieri limitrofi dai serbo-bosniaci. La città conobbe l’assedio, 1425 giorni, tra il 1992 ed il 1996, l’«urbicidio pianificato», nel contesto di una guerra sconvolgente, antica e moderna come tutti i conflitti armati di natura etno-politica del nostro tempo. Se all’inizio (1992-1993) bosniaco-musulmani e croato-bosniaci si trovarono “alleati” contro i serbo-bosniaci, dopo il fallimento della proposta Vance-Owen, che aveva introdotto il principio della partizione etnica del Paese in tre sezioni distinte, i croato-bosniaci avviarono una «guerra nella guerra» contro i bosniaco-musulmani nelle aree ove erano presenti comunità croate. Dal 12 aprile 1993 una “no-fly zone” era stata imposta sulla Bosnia a seguito della risoluzione 816 del Consiglio di Sicurezza. Un’accelerazione verso la precipitazione finale si registrò con la caduta di Srebrenica, nel luglio 1995.

Alla fine della guerra, gli Accordi di Dayton, se, per un verso, riuscirono nell’obiettivo di fermare le ostilità, aspetto la cui importanza non può in alcun caso essere sottovalutata, se solo pensiamo al carico di distruzione, materiale e simbolica, che la guerra aveva portato con sé, per un altro verso, fecero scaturire nuove contraddizioni, lasciando molti interrogativi ancora aperti negli anni a venire. Redatti a Dayton (21 novembre 1995) e firmati a Parigi (14 dicembre 1995), gli Accordi tra le Parti (Bosnia Erzegovina, Croazia e Repubblica Federale di Jugoslavia, oggi Serbia) assumevano, come si vede, il ruolo politico degli Stati “garanti” (la Croazia e la Serbia) e riconoscevano, come fattore essenziale, «il bisogno di una soluzione complessiva per porre fine al tragico conflitto nella regione». Vi si definisce, all’art. 3, l’articolazione della Bosnia Erzegovina nelle sue due «Entità, la Federazione di Bosnia Erzegovina e la Republika Srpska» e si rimanda, al successivo art. 5, alla Costituzione di Bosnia Erzegovina, redatta come Allegato 4 degli Accordi. Qui si delinea quel complesso meccanismo decisionale e quell’altrettanto complessa architettura istituzionale che tante critiche ha sollevato nel tempo e che pure costituisce un “punto di equilibrio” nel difficile percorso della convivenza post-bellica.

Il Preambolo pone, l’una accanto all’altra, due aspirazioni peraltro tendenzialmente divergenti, vale a dire che «istituzioni democratiche e procedure eque determinino relazioni pacifiche nel contesto di una società pluralista» e che «benessere generale e crescita economica siano promosse attraverso la protezione della proprietà privata e la promozione di una economia di mercato». Confermando che la Bosnia è costituita, appunto, da due Entità, a queste (art. 3) spettano «tutte le funzioni e i poteri non esplicitamente assegnati alle istituzioni della Bosnia Erzegovina». In sostanza, tutto tranne: politica estera; commercio estero; politica doganale; politica monetaria; finanze generali e obblighi inter-nazionali; immigrazione, rifugiati e asilo; applicazione della legge penale internazionale e tra le Entità; strutture di comunicazione comuni e internazionali; trasporto tra le Entità e controllo del traffico aereo.

Sono proprio questi “meccanismi” e queste “asimmetrie” ad alimentare periodicamente il dibattito, in Bosnia e, soprattutto, all’estero, circa la riforma o il superamento della cosiddetta Costituzione di Dayton. Com’è stato recentemente ribadito, infatti, è stata la Guerra di Bosnia a concludersi sul campo, di fatto, con una partizione: un territorio, un tempo repubblica federata nel quadro della Jugoslavia Socialista, è diventato con la guerra uno Stato indipendente con una struttura confederale e consociativa, in modo che le tre componenti nazionali maggiori, ma non esclusive, Bosniaci (bosniaco-musulmani), Croati di Bosnia e Serbi di Bosnia, che si erano separate le une dalle altre in territori etnici distinti nel corso della guerra, potessero governare all’interno della medesima compagine statale. «Una struttura di governo formale ed esile è stata così imbastita a livello statale per un numero molto limitato di funzioni federali, a partire dalla banca centrale e dalla politica estera» o materie propriamente “confederali”.

Tanto forte è la dimensione di fatto “statale” delle Entità che la Costituzione stessa definisce uno schema di doppia cittadinanza (art. 1 c. 7): una cittadinanza di Bosnia Erzegovina e una cittadinanza di ciascuna Entità. In base alla Costituzione della Republika Srpska, questa è «lo Stato del popolo serbo e di tutti i suoi cittadini». Per la sua Costituzione, la Federazione di Bosnia Erzegovina è la «Federazione di unità federali con eguali diritti e responsabilità», di «bosniaci e croati come popoli costituenti» e dei cittadini. Un ambivalente “punto di equilibrio”, tanto quanto l’intero corpus “costituzionale”, frutto di mediazioni e di equilibri da preservare, esposto al rischio di una vera e propria “blindatura” di tipo etnocratico, oggetto di ricorrenti discussioni, ma che solo al popolo di Bosnia ed Erzegovina, nelle sue diverse articolazioni, spetta far avanzare nel senso della tutela dei diritti dei popoli e dei cittadini e specificamente nel senso della democrazia, del progresso e della «pace con giustizia» sociale. 

Nessun commento:

Posta un commento