giovedì 31 dicembre 2020

Sul populismo, la democrazia, e le rappresentanze, al plurale.

Ewald Judt - austria-forum.org, CC BY 4.0, Wikimedia Commons

 
Vi si fa riferimento nei termini di un populismo «gentile», nell’esempio che ha portato, tra gli altri, Massimo D’Alema, a sostegno della tesi politica della stabilizzazione dell’accordo tra PD e M5S, forze portanti, oggi, del Governo Conte bis e forse protagoniste, un domani, di una rinnovata opzione di centrosinistra. Ma non passa giorno che altre voci della stessa maggioranza non evochino invece il populismo, sempre del M5S, come uno spauracchio o un limite all’azione cosiddetta riformista dello stesso governo e dello stesso campo largo del centrosinistra. 

Vi si allude, non di meno, nei termini di un populismo «aggressivo», nei riferimenti, che si moltiplicano, alle forze che occupano la destra dell’arco parlamentare, rimarcando il carattere oltranzista, nazionalitario, reazionario che contraddistingue il linguaggio e la proposta politica della Lega. Ed anche in questo caso, la gamma delle colorazioni politiche del lemma non cessa di sorprendere, accomunando, a quella di populismo, le categorie di sovranismo, nazionalismo e plebiscitarismo. 

Tra queste e molte altre riflessioni e configurazioni può aiutare a fare ordine il bel libro di Alberto Lucarelli, Populismi e rappresentanza democratica, recentissima pubblicazione, per i tipi della Editoriale Scientifica (Napoli, 2020), che ha il duplice pregio di aiutare a chiarire i termini della questione e fornire elementi di orientamento non indifferenti al linguaggio e alle forme della politica. L’autore, Alberto Lucarelli, è del resto, figura di spessore, in costante dialogo tra accademia (è ordinario di Diritto Costituzionale all’Università di Napoli Federico II e componente del Direttivo Nazionale dell’Associazione Italiana Costituzionalisti) e politica (è stato Assessore ai Beni Comuni e alla Democrazia Partecipativa del Comune di Napoli ed è oggi vice-presidente del Comitato Popolare per la Difesa dei Beni Pubblici e Comuni “Stefano Rodotà”). 

Inevitabile quindi che il libro non solo ospiti una profonda e analitica riflessione giuridica sulle categorie dei beni pubblici e comuni e, soprattutto, sullo spazio della democrazia e le forme della rappresentanza, configurandosi, sotto tale versante, per una lucida e documentata analisi sulla consistenza e sulla crisi delle forme classiche della rappresentanza democratica, ma indichi anche delle piste di ricerca e delle proposte di avanzamento, alternando analisi e proposta e ponendo una serie di interrogativi circa le questioni dell’attualità e della rigenerazione della partecipazione e della democrazia. 

La riflessione di carattere storico, sulla genesi e la fenomenologia del populismo, pur non rappresentando il cuore della indagine, non è dimenticata sullo sfondo: se l’attuale voga populistica assume forme e segnali nuovi, maturando in primo – ma non esclusivo – luogo come effetto tra gli altri della crisi delle forme consolidate della rappresentanza, della crisi dei partiti politici e della crisi della democrazia rappresentativa, non manca una puntualizzazione sull’origine del populismo tout court, come fenomeno che, nato insieme con la formazione dello Stato moderno, esprime la rivendicazione spontanea di dignità e diritti da parte di un popolo oppresso, oggettivo e invisibile, di fronte al potere sostanzialmente sconfinato del monarca assoluto. 

È questa la veste di cui è ammantata l’origine del fenomeno populista, in primo luogo come fenomeno “orientale”, ma che poi attraversa, nel corso del lungo secolo breve, tre continenti, dall’Asia all’Europa fino all’America Settentrionale e all’America Latina dove finirà addirittura per assumere delle caratteristiche paradigmatiche. Nel tempo del potere assoluto del sovrano, nella proto-storia dei diritti collettivi e della soggettivazione politica delle masse, nelle latitudini inesorabili delle vaste popolazioni contadine, il populismo incarnava la voce dell’oppresso e le rivendicazioni delle masse, senza potere, tuttavia, né indicarne la traiettoria né prospettarne la direzione. 

Come ricorda Bruno Bongiovanni «l’esaltazione del popolo, racchiuso in una sorta di fissismo sociale che predisponeva forme di resistenza contro l’invadenza traumatizzante della storia, nonché erede e depositario della forma organica ed armonica della convivenza, richiedeva tuttavia la predicazione, o anche l’agitazione rivoluzionaria introdotta dall’esterno, da parte di un ceto sociale largamente presente in Russia, non di rado privo di un’occupazione stabile, spesso frustrato e psicologicamente attratto-respinto dall’Occidente, vale a dire l’intelligencija. Il popolo contadino, infatti, in ragione dell’oppressione che subiva e delle condizioni miserevoli in cui, anche sul piano spirituale, si trovava, era comunista e non sapeva di essere tale». 

Nel tempo grande dell’irruzione delle masse a protagoniste della storia, essenzialmente nel Novecento e dopo la scaturigine storico-politica del grande evento che fu la Rivoluzione d’Ottobre, in Russia, i termini della questione populista sarebbero stati significativamente alterati: non più le sterminate e anonime masse omogenee e contadine, ma masse popolari sempre più e sempre meglio organizzate; non più una traiettoria inerte o una direzione imperscrutabile, bensì il primato dell’azione politica e l’esercizio della direzione, del consenso, dell’egemonia. 

Il populismo non può più essere l’espressione spontanea della massa sterminata in cerca di riconoscimento, soggettivazione, dignità; il populismo sempre più consistentemente si afferma come manipolazione demagogica, sorretta da una strumentazione politica sempre più sofisticata e articolata. Nel corso del Novecento se ne affermano i tratti anche nel Nord e soprattutto nel Sud del continente americano, dove, non a caso, manifesta tutta la sua ambivalenza: da un lato teso all’esercizio autoritario della direzione politica, dall’altro incline ad una sorta di compattamento sociale per il tramite di un sistema di sussidi e tutele sociali più ampio ed esteso. 

Non si tratta di un sistema articolato e funzionale di protezione sociale né tantomeno di alcuna associazione effettiva delle masse al potere: il populismo, nelle fasi espansive di una congiuntura positiva, alimenta il carattere unitario ed univoco del consenso, rafforza il legame diretto tra il capo e le masse in un’azione di sistematica semplificazione e disintermediazione del quadro pubblico, esalta la figura del capo, la sua propensione paternalistica, la sua rappresentazione dispotica. 

Come bene richiama, ancora, Bongiovanni, «la conclamata e sempre osannata supremazia della volontà popolare, sintesi del raggrumarsi poli-classistico di segmenti diversi di una realtà prevalentemente urbana, e la fascinazione plebiscitaristica diventarono così il cuore e il nerbo dello sfondo ideologico e politico del populismo latino-americano». Echi di questa configurazione si riverberano inevitabilmente nel presente proprio perché attengono alla datità intrinseca del fenomeno populista nelle sue diverse accezioni: il riferimento a un popolo generico e indistinto, idealizzato e astratto, obliterandone completamente e sistematicamente la composizione sociale; la semplificazione estrema, se non la vera e propria banalizzazione, non solo della rappresentazione politica ma anche dello stesso lessico della politica; la focalizzazione del discorso pubblico intorno alla figura e all’azione del “capo” politico. 

Tutte le accezioni della cosiddetta «variante populista» sono attraversate da queste caratteristiche e da queste pulsioni: ora, il populismo che si è definito «gentile» e che potrebbe, più precisamente, essere identificato come populismo comunitario, sensibile alle diseguaglianze sociali, ostile agli eccessi del capitalismo nelle sue diverse manifestazioni, incline alle questioni della solidarietà, dell’inclusione e della convivenza; ora, il populismo che si è evocato come «aggressivo» o, per meglio dire, populismo identitario, oggi declinato nei termini del moderno nazionalismo popolare o del sovranismo, della reazione identitaria, delle comunità chiuse e delle piccole patrie, della competizione radicale e della diffidenza sociale, finanche con marcati tratti isolazionisti e xenofobi. 

La disamina che sviluppa la ricerca di Lucarelli è molto attenta a indicare le differenze e prospettare il giusto inquadramento delle questioni: analizza, piuttosto che giudicare; riflette, anziché escludere; e con questo indirizzo è in grado di individuare alcune tendenze che, pure interne alle moderne modalità di espressione della variante comunitaria del populismo, lanciano tuttavia una sfida che è necessario raccogliere al fine di aggiornare, per un verso, e arricchire, per l’altro, la cosiddetta «funzionalità democratica». 

In uno dei passaggi-chiave del libro, ripreso anche da Silvio Gambino, «in linea di principio, la democrazia del pubblico non si oppone alla rappresentanza, ma piuttosto alle sue patologie di funzionamento e al concetto che la sovranità popolare non possa esaurirsi nei meccanismi e nella procedura della delega» laddove, in particolare, il “populismo democratico” «almeno nei suoi aspetti fisiologici, non è radicale e tende a trovare una sintesi tra le differenti dimensioni della democrazia, esprimendo esigenze di politica attiva, diffusa e partecipata. Un fenomeno che ha quale obiettivo l’effettiva attuazione della Costituzione». 

Si è detto più volte, a tal proposito, di una lettura, al tempo stesso, costituzionalmente fondata e costituzionalmente orientata, nell’analisi della questione democratica e della crisi della rappresentanza. È questo infatti il terreno di sfida che l’odierna insorgenza populista propone e che l’analisi di Lucarelli ha il merito di ribadire: da un lato, il populismo, nelle sue odierne varianti, come espressione o manifestazione di esclusione dei corpi sociali e di degenerazione della rappresentanza istituzionale (e, più complessivamente, della odierna crisi della rappresentanza democratica, in diversi Paesi, tra cui l’Italia, tra l’altro, ormai più che ventennale); dall’altro, la democrazia, come formazione irriducibile alle regole del gioco e all’esercizio della delega, come capacità progressiva di promuovere diritti e inclusione e di facilitare una sempre più solida associazione delle masse popolari e delle loro specifiche composizioni sociali all’esercizio effettivo della direzione politica

Posta in questi termini, l’analisi che l’Autore conduce ha il merito di segnalare con chiarezza i termini della questione e, al tempo stesso, di consentire una ulteriore riflessione, anche «al di fuori del testo»: che la democrazia non è un insieme di rituali e procedure formali, ma un contesto di pratiche materiali; che la pluralità e la dinamicità delle forme democratiche, anche nei termini più generali della inclusione e della convivenza, non possono generarsi né tanto meno affermarsi in assenza di dinamica sociale e di conflitto sociale; che proprio la crisi della rappresentanza impone la ricerca di prassi più mature e articolate di rappresentazione democratica, nel senso della democrazia materiale, della democrazia sociale, della partecipazione democratica. 

Una prospettiva all’interno della quale i soggetti sociali e le articolazioni politiche, nelle forme plurali delle rappresentanze, diventano cruciali. Come si vede, tutto il contrario della banalizzazione propria della risposta populista. 

 

sabato 14 novembre 2020

Nagorno-Karabakh, alla prova del cessate il fuoco.

George Alexanian, CC BY SA 4.0, Wikimedia Commons

È stato il presidente russo, secondo quanto riferito dai media, ad annunciare i termini del cessate il fuoco duraturo, con clausole che delineano il percorso per una vera e propria cessazione delle ostilità e il congelamento della situazione come si è delineata sul campo, accordo mediato, con il ruolo decisivo della Turchia, nel conflitto tra Armenia e Azerbaijan per il Nagorno-Karabakh. L’accordo prevede l’entrata in vigore del cessate il fuoco alla mezzanotte (ora di Mosca) del 10 novembre, allo scoccare della quale, Armenia e Azerbaijan rimarranno nelle loro posizioni attuali. L’accordo prevede lo scambio dei prigionieri e insiste sulla demarcazione delle linee, quindi la definizione del perimetro dello status quo territoriale e del dislocamento delle truppe russe di peace-keeping, nonché sull’apertura delle vie di collegamento. Lungo la linea di contatto e lungo i corridoi di collegamento tra Armenia e Nagorno-Karabakh sarà dislocata la missione di peace-keeping militare della Russia, con la previsione di un dispiegamento di 1960 effettivi con armi leggere, 90 mezzi corazzati e 380 ulteriori veicoli ed equipaggiamenti. Le modalità di dispiegamento prevedono che i peace-keeper militari russi saranno dislocati «parallelamente» al ritiro delle truppe armene. A propria volta, il contingente militare russo rimarrà in Nagorno-Karabakh per i prossimi cinque anni, con la possibilità di una estensione automatica del periodo di stazionamento di questo dispositivo nel caso in cui nessuna delle parti ne chiederà il ritiro entro sei mesi prima della scadenza del mandato di dispiegamento. 

La responsabilità militare del monitoraggio degli accordi è dunque in capo alla missione di peace-keeping della Russia, ma un ulteriore punto dell’accordo precisa che «al fine di garantire l’effettiva implementazione di tutto quanto concordato, la missione di peace-keeping costituirà un centro di monitoraggio, per monitorare il rispetto effettivo del cessate il fuoco». I punti successivi, legati alle ripartizioni territoriali e alle linee di transito, forniscono un’indicazione piuttosto chiara dei vincitori e vinti “sul campo”. È stabilito infatti che l’Armenia restituirà la regione di Kelbajar all’Azerbaijan entro il 15 novembre e Lachin entro il 1° dicembre, mentre il corridoio di Lachin resterà sotto controllo armeno, allo scopo di garantire il collegamento tra Armenia e Nagorno-Karabakh, senza tuttavia pregiudicare lo status di Shusha. L’Armenia cederà inoltre Agdam e parte della regione di Gazi entro il 20 novembre. Per quanto riguarda la situazione dei rifugiati, è scritto che «i rifugiati faranno ritorno alle loro case in Nagorno-Karabakh, sotto il controllo dell’Alto Rappresentante delle Nazioni Unite per i Rifugiati». 

Le clausole legate alle infrastrutture, come accennato, si soffermano eminentemente sull’apertura dei corridoi di accesso e di transito, dal momento che «nei prossimi tre anni sarà sviluppato un piano per la costruzione di una nuova strada lungo il corridoio di Lachin, che consentirà un collegamento tra Stepanakert (capitale de facto del Nagorno-Karabakh) e l’Armenia, e vi sarà inoltre dislocato un contingente russo. L’Azerbaijan garantirà la sicurezza dei trasporti nel corridoio di Lachin per i civili». I collegamenti economici e le vie di traffico nella regione dovranno quindi essere liberati. L’Armenia provvederà ai collegamenti stradali tra le zone occidentali dell’Azerbaijan e la Repubblica Autonoma di Nakhchivan (il Nakhichevan, exclave azera in territorio armeno) con l’obiettivo di consentire il libero transito di persone, beni, merci e servizi in tutte le direzioni. Anche in questo caso, il controllo sarà effettuato dalle truppe di confine della Russia. È prevista, infine, la costruzione di nuove strade tra le zone occidentali dell’Azerbaijan e la stessa Repubblica Autonoma di Nakhchivan. 

Si comprende dunque il senso delle reazioni, dell’una e dell’altra parte, alla stipula dell’accordo. Da una parte, a Erevan, capitale dell’Armenia, manifestanti provavano a dare l’assalto alla sede del Parlamento (alcuni sono riusciti a fare irruzione in Parlamento, altri si stringevano in protesta sotto le sedi del Governo), mentre il primo ministro armeno, Nikol Pashinyan, con un ardito esercizio retorico, dichiarava che «Questa non è vittoria, ma non esiste sconfitta finché non ti consideri sconfitto; e noi non ci sentiremo sconfitti, e questo sarà l’inizio di una nuova era». Dall’altra parte, a Baku, capitale dell’Azerbaijan, si registravano manifestazioni di esultanza in piazza e il presidente azero, Ilham Aliyev, annunciava la “vittoria” del proprio Paese dichiarando di avere «costretto alla pace» la controparte. Sono dichiarazioni che, peraltro, oltre a mettere in luce il rapporto di forza militare che la situazione sul campo aveva delineato e gli accordi di cessate il fuoco avevano registrato, rimandano anche al significato politico del conflitto, alle lunghe radici e al profondo retroterra di uno dei «conflitti congelati», tornato ad essere caldissimo, che si trascina da decenni e che era tornato alla ribalta accompagnando la dissoluzione dell’Unione Sovietica, con tutto il carico di violenze e di conflitti che la fine dell’esperienza plurinazionale sovietica aveva portato con sé. 

Enclave armena in territorio azero, il Nagorno-Karabakh è una repubblica de facto, il cui status è regolato dall’Accordo di Biškek (5 maggio 1994) e dai cosiddetti «Principi di Madrid» (29-30 novembre 2007), che prevedono il progressivo ritiro delle truppe armene dai territori azeri sul confine del Nagorno-Karabakh, con disposizioni specifiche per i due ulteriori distretti azeri (Kelbajar e Lachin) che separano la regione dall’Armenia; la smilitarizzazione dei territori; il dispiegamento di una forza di peace-keeping; lo sminamento; la ricostruzione; il ritorno dei profughi e degli sfollati; la risoluzione dello status attraverso un referendum popolare o una consultazione popolare sullo status finale del Nagorno-Karabakh. Ciò che preme di più, dunque, al di là dei “vincitori” e degli “sconfitti” sul campo (e del ruolo delle potenze regionali, con la Russia che conferma il suo ruolo cruciale nella regione, sia come mediatore, sia come garante, politico e militare, degli accordi, e con la Turchia che rafforza la sua presenza, anche in virtù del ruolo decisivo, politico e militare, a sostegno dell’Azerbaijan), è la protezione delle persone, il ritorno in sicurezza dei profughi e degli sfollati, il ritorno in pace di tutti gli abitanti di queste regioni. Le ragioni della umanità, della solidarietà, della «pace con giustizia», accomunano, al di là delle frontiere e al di là degli schieramenti. 

 

mercoledì 14 ottobre 2020

Le ultime elezioni di “Vienna la Rossa”: tra socialismo ed ecologismo

bgabel, wikivoyage, CC BY SA 3.0 (creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)


Vienna. Grande città, grande capitale. Una capitale d’Europa, un nucleo di storia e di cultura, una città-mondo, per alcuni tratti, simbolo stesso d’Europa, di quella MittelEuropa che, con le sue movenze e le sue suggestioni, tanto ha influito e inciso sul clima e sulle tendenze culturali di una intera stagione a cavallo tra Ottocento e Novecento. Ma Vienna è anche una straordinaria capitale della contemporaneità: superato il mito leggendario, vagamente restauratore, della «Austria Felix», dismesse le spoglie della passata grandezza imperiale, Vienna è, nel Novecento, uno dei grandi baluardi europei di resistenza e di democrazia. Città ferita e divisa dalla guerra; città che ha animato una vibrante resistenza democratica e antifascista; città, ancora, protagonista di una impegnativa ricostruzione civile e democratica. 
 
Il 29 marzo 1945, le truppe sovietiche, al comando di Fëdor Tolbukhin, eroe dell’Unione Sovietica, varcavano il confine; quattro giorni dopo, il 3 aprile, aveva inizio l’offensiva di Vienna; ai sovietici si deve la definitiva liberazione della Città, e tra il 20 e il 27 aprile, Karl Renner fu incaricato di formare un governo provvisorio, cui seguì la dichiarazione di indipendenza dell’Austria dalla Germania, la proclamazione della volontà di istituire uno Stato democratico sulla falsariga della Prima Repubblica austriaca, l’insediamento ufficiale del suo Gabinetto. Di lì a due giorni, il 29 aprile 1945, Renner poteva annunciare la reintegrazione della Repubblica Democratica. Vienna torna centro di uno stato democratico, l’Austria acquisisce e mantiene uno status di neutralità, vengono indette le prime elezioni municipali del dopo-guerra. 
 
Come è stato da più parti ribadito, la neutralità austriaca non è solo un tratto distintivo della politica del Paese, è un carattere riconosciuto della stessa identità austriaca. Tra pochi giorni, il 26 ottobre, si celebrerà la festa nazionale con la quale sarà ricordata la dichiarazione di indipendenza e il ritiro delle truppe alleate, il 25 ottobre 1955. Come recita la Costituzione, infatti, «l’Austria fa propria la difesa nazionale universale. Il suo compito è preservare l’indipendenza del territorio federale, la sua inviolabilità e la sua unità, soprattutto per quanto riguarda la difesa della neutralità permanente. [...] La difesa nazionale universale comprende la difesa nazionale militare, intellettuale, civile ed economica. Ogni cittadino austriaco maschio è responsabile del servizio militare. Gli obiettori di coscienza che rifiutano l’adempimento del servizio militare obbligatorio e ne sono esonerati devono prestare un servizio alternativo». 
 
Quello stesso 1955, Vienna e l’Austria riassunsero pieno controllo sovrano del territorio, sulla base dell’ordinamento democratico, della neutralità e del non-allineamento; non diversamente da Berlino, anche Vienna era stata, sino a quel punto, organizzata in zone di controllo tra Unione Sovietica, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, mentre il distretto I (il centro della Città) era pattugliato congiuntamente. Alla fine del 1945 vi si erano tenute le prime elezioni municipali: su 100 seggi nel Consiglio, il Partito Socialdemocratico ne conquistò 58, il Partito Popolare 36 e i Comunisti 6. Vienna ha una solida e storica tradizione socialista democratica. E le ultime elezioni municipali e regionali l’hanno ancora una volta confermata: non solo nel segno della “continuità” storico-politica, ma anche all’insegna di alcune indicazioni, di “prospettiva”, utili anche per noi. 
 
Nelle elezioni recenti (11 ottobre) di Città e di regione, essendo Vienna un Land autonomo, proprio in virtù della sua grandezza e della sua storia, il Partito Socialdemocratico (SPÖ) ha ottenuto il 43% dei consensi (quattro punti in più rispetto alle precedenti elezioni svolte nel 2015); il Partito Popolare (ÖVP) raddoppia il consenso e si attesta intorno al 18%; i Verdi confermano la loro forza, espressione dei centri urbani e di segmenti istruiti della società austriaca (e non solo), con il 12%; mentre la destra radicale (FPÖ) non supera il 9% e i liberali (Neos) si fermano al 7%. Risultato in cui però continua a preoccupare il, sia pur ridimensionato, 4% del fronte “sovranista”, vale a dire dall’altra formazione della destra radicale della “Alleanza per l’Austria”. Nota negativa, il risultato della sinistra di alternativa (Links), fermo al 2%. 
 
Come aveva dichiarato in campagna elettorale la candidata Anna Svec, «Vienna “la Rossa” ci ha lasciato un’eredità migliore di quella di altre grandi città. Sono felice di questo. Ma chi si è battuto per quelle storiche conquiste, non ci chiede di essere riconoscenti: ci chiede di continuare a lottare». C’è, anche qui, come in altre tornate europee recenti, non ultime quelle di un’altra grande capitale, Zagabria, un’indicazione interessante anche per il resto dell’Europa, a maggior ragione, come Vienna, ma diversamente da Vienna, per le grandi città d’Europa: non solo difendere la storia e il patrimonio, di memoria politica e di insediamento sociale, delle formazioni di progresso, ma anche sapere continuamente cambiare e innovare, intercettando i bisogni cangianti e mutevoli di un corpo sociale sempre più articolato e complesso. 
 
Ma anche organizzare una proposta politica innovativa, al passo con i tempi, adeguata a interpretare l’esigenza della trasformazione di società e di sistema: una proposta Verde e Rossa (e Vienna è, storicamente, dal 1918, come ricordava Anna Svec, “Vienna la Rossa”), vale a dire una innovativa declinazione di socialismo ed ecologismo, una proposta di salvaguardia eco-sistemica e di difesa dell’ambiente, di giustizia sociale e di partecipazione democratica, in grado di dare una risposta adeguata alle grandi sfide e contraddizioni del tempo presente.

domenica 11 ottobre 2020

Mediata la prima tregua tra Armenia e Azerbaijan

Ліонкінг, Levonaget River in Shahumian District, Karabakh, CC BY SA 3.0, Wikimedia

 
Giunge oggi finalmente l’attesa notizia di una intesa sul fronte di conflitto tra Armenia e Azerbaijan per il Nagorno-Karabakh, ed è un successo per la diplomazia della Russia, oltre che un punto a favore delle speranze di pace, o per lo meno di cessazione delle ostilità, nella regione. Un risultato per nulla scontato, tant’è vero che l’intesa, dopo due settimane di pesanti combattimenti, in uno scenario condizionato da consistenti interessi esterni, giunge dopo dieci ore di trattative, a Mosca, tra i ministri degli esteri di Armenia, Azerbaijan e Russia.

Un’intesa a quattro gambe, perché, da quanto si apprende, quattro sono gli elementi intorno ai quali ruota la mediazione: lo scambio di prigionieri e la restituzione dei caduti, a partire dal 10 ottobre, sotto supervisione del Comitato Internazionale della Croce Rossa; l’avvio della definizione delle condizioni per un cessate il fuoco tra le parti; la ripresa di ruolo da parte del Gruppo di Minsk, in relazione al fatto che Armenia e Azerbaijan, sotto tale mediazione, saranno impegnati a esplorare più intensi e più fattivi negoziati ai fini della soluzione pacifica e negoziata della controversia; infine, importante soprattutto dal punto di vista della mediazione russa e della intensa partita diplomatica e strategica nella regione, la conferma del format del negoziato.

Il terreno predisposto dalla mediazione russa, dunque, prova a gettare le basi per una soluzione diplomatica: da una parte, indicando, nella piattaforma dell’intesa, alcuni tra i nodi retro-agenti la controversia; dall’altra, sottolineando il ruolo degli attori storicamente impegnati nel processo regionale, un’attenzione che richiama la durata e il carattere storico di questo classico esempio di «conflitto congelato». La controversia armeno-azera per il Nagorno-Karabakh è, infatti, una storica controversia, che affonda i suoi presupposti nella fine della Guerra Fredda e nel doloroso - e foriero di conflitti - processo di disarticolazione dell’Unione Sovietica.

L’Armenia e l’Azerbaijan, all’epoca repubbliche socialiste sovietiche, facevano parte dell’Unione Sovietica, sino, all’indomani degli eventi della seconda metà degli anni Ottanta, alle proclamazioni di indipendenza e alle separazioni nazionali/nazionalistiche che annunciarono e accompagnarono la fine dell’URSS, formalizzata nel 1991. Il progressivo smantellamento delle strutture istituzionali e amministrative dell’Unione, il venire meno dei legami di reciprocità e di solidarietà interni, insieme con l’accelerazione e l’aggravamento della crisi economica e della crisi politico-istituzionale, ebbero come conseguenza, tra le altre, anche l’esplosione di rivendicazioni di natura etno-politica. Tanto sul confine settentrionale e orientale, nelle repubbliche baltiche, quanto nella regione caucasica, il processo disgregativo trascese in rivendicazioni violente e conflitti armati.

Il retroterra storico-culturale della controversia è, dunque, retroterra di lunga data. L’Armenia, a prevalenza cristiana, tra le chiese ortodosse orientali, e l’Azerbaijan, a larga maggioranza islamica, prevalentemente sciita, entrarono in conflitto per il Nagorno-Karabakh, enclave armena in territorio azero, provincia autonoma in epoca sovietica, riconosciuto parte dell’Azerbaijan dal 1991, ma controllato dagli armeni. Sebbene in territorio azero, infatti, la maggioranza della popolazione è armena, e il soviet locale vi proclamò una repubblica autonoma nel settembre 1991. Nel 1988, le truppe azere e le formazioni armene avviarono un lungo conflitto, con alterne vicende; la tregua del 1994, mediata dalla Russia, ha lasciato il Nagorno-Karabakh (Karabakh traduce l’espressione azera «giardino nero») sotto controllo armeno di fatto. Oltre un milione di persone sono state costrette alla fuga, la popolazione azera (25% del totale) è stata costretta ad abbandonare l’enclave, mentre le popolazioni armene fuggivano dal resto dell’Azerbaijan, in un ulteriore esodo di profughi.

Già da queste brevi note si può dunque ricostruire il contesto dell’intesa e i suoi, sopra richiamati, nodi retro-agenti: in relazione al Gruppo di Minsk, ad esempio, co-presieduto da Russia, USA e Francia, e composto da Bielorussia, Germania, Italia, Svezia, Finlandia e Turchia, oltre che Armenia e Azerbaijan, a fronte dei tentativi di entrambe le parti di considerare il Gruppo, storico mediatore del conflitto, incapace di svolgere le sue funzioni; ma anche in relazione agli attori esterni, in primo luogo la Turchia e il suo ventilato disegno neo-ottomano e ingerentista, che ha, sin da subito, dichiarato e prestato supporto all’Azerbaijan allo scopo di affermare il suo ruolo e ridisegnare gli equilibri strategici nello scenario regionale. 
 
Uno scenario che non potrà, pena ulteriori caduti, devastazioni e violenze, che muoversi verso la pace: come si legge in un recente appello civico per la pace, infatti, «la guerra non risolverà mai il conflitto: ci lascerà soltanto in un circolo vizioso ancora peggiore, di guerre continue e rivendicazioni irrisolte. Respingiamo le posizioni militariste, condizionate dalle narrazioni di guerra, e cerchiamo, viceversa, strade per costruire la pace. Questa guerra riapre le tragedie e le ferite del passato; non può fare nulla per sanarle, può solo crearne di nuove. Questa guerra non ha vincitori. Chiediamo un cessate il fuoco immediato e negoziati inclusivi che comprendano tutte le parti, armene e azere, in conflitto».