George Alexanian, CC BY SA 4.0, Wikimedia Commons |
È stato il presidente russo, secondo quanto riferito dai media, ad annunciare i termini del cessate il fuoco duraturo, con clausole che delineano il percorso per una vera e propria cessazione delle ostilità e il congelamento della situazione come si è delineata sul campo, accordo mediato, con il ruolo decisivo della Turchia, nel conflitto tra Armenia e Azerbaijan per il Nagorno-Karabakh. L’accordo prevede l’entrata in vigore del cessate il fuoco alla mezzanotte (ora di Mosca) del 10 novembre, allo scoccare della quale, Armenia e Azerbaijan rimarranno nelle loro posizioni attuali. L’accordo prevede lo scambio dei prigionieri e insiste sulla demarcazione delle linee, quindi la definizione del perimetro dello status quo territoriale e del dislocamento delle truppe russe di peace-keeping, nonché sull’apertura delle vie di collegamento. Lungo la linea di contatto e lungo i corridoi di collegamento tra Armenia e Nagorno-Karabakh sarà dislocata la missione di peace-keeping militare della Russia, con la previsione di un dispiegamento di 1960 effettivi con armi leggere, 90 mezzi corazzati e 380 ulteriori veicoli ed equipaggiamenti. Le modalità di dispiegamento prevedono che i peace-keeper militari russi saranno dislocati «parallelamente» al ritiro delle truppe armene. A propria volta, il contingente militare russo rimarrà in Nagorno-Karabakh per i prossimi cinque anni, con la possibilità di una estensione automatica del periodo di stazionamento di questo dispositivo nel caso in cui nessuna delle parti ne chiederà il ritiro entro sei mesi prima della scadenza del mandato di dispiegamento.
La responsabilità militare del monitoraggio degli accordi è dunque in capo alla missione di peace-keeping della Russia, ma un ulteriore punto dell’accordo precisa che «al fine di garantire l’effettiva implementazione di tutto quanto concordato, la missione di peace-keeping costituirà un centro di monitoraggio, per monitorare il rispetto effettivo del cessate il fuoco». I punti successivi, legati alle ripartizioni territoriali e alle linee di transito, forniscono un’indicazione piuttosto chiara dei vincitori e vinti “sul campo”. È stabilito infatti che l’Armenia restituirà la regione di Kelbajar all’Azerbaijan entro il 15 novembre e Lachin entro il 1° dicembre, mentre il corridoio di Lachin resterà sotto controllo armeno, allo scopo di garantire il collegamento tra Armenia e Nagorno-Karabakh, senza tuttavia pregiudicare lo status di Shusha. L’Armenia cederà inoltre Agdam e parte della regione di Gazi entro il 20 novembre. Per quanto riguarda la situazione dei rifugiati, è scritto che «i rifugiati faranno ritorno alle loro case in Nagorno-Karabakh, sotto il controllo dell’Alto Rappresentante delle Nazioni Unite per i Rifugiati».
Le clausole legate alle infrastrutture, come accennato, si soffermano eminentemente sull’apertura dei corridoi di accesso e di transito, dal momento che «nei prossimi tre anni sarà sviluppato un piano per la costruzione di una nuova strada lungo il corridoio di Lachin, che consentirà un collegamento tra Stepanakert (capitale de facto del Nagorno-Karabakh) e l’Armenia, e vi sarà inoltre dislocato un contingente russo. L’Azerbaijan garantirà la sicurezza dei trasporti nel corridoio di Lachin per i civili». I collegamenti economici e le vie di traffico nella regione dovranno quindi essere liberati. L’Armenia provvederà ai collegamenti stradali tra le zone occidentali dell’Azerbaijan e la Repubblica Autonoma di Nakhchivan (il Nakhichevan, exclave azera in territorio armeno) con l’obiettivo di consentire il libero transito di persone, beni, merci e servizi in tutte le direzioni. Anche in questo caso, il controllo sarà effettuato dalle truppe di confine della Russia. È prevista, infine, la costruzione di nuove strade tra le zone occidentali dell’Azerbaijan e la stessa Repubblica Autonoma di Nakhchivan.
Si comprende dunque il senso delle reazioni, dell’una e dell’altra parte, alla stipula dell’accordo. Da una parte, a Erevan, capitale dell’Armenia, manifestanti provavano a dare l’assalto alla sede del Parlamento (alcuni sono riusciti a fare irruzione in Parlamento, altri si stringevano in protesta sotto le sedi del Governo), mentre il primo ministro armeno, Nikol Pashinyan, con un ardito esercizio retorico, dichiarava che «Questa non è vittoria, ma non esiste sconfitta finché non ti consideri sconfitto; e noi non ci sentiremo sconfitti, e questo sarà l’inizio di una nuova era». Dall’altra parte, a Baku, capitale dell’Azerbaijan, si registravano manifestazioni di esultanza in piazza e il presidente azero, Ilham Aliyev, annunciava la “vittoria” del proprio Paese dichiarando di avere «costretto alla pace» la controparte. Sono dichiarazioni che, peraltro, oltre a mettere in luce il rapporto di forza militare che la situazione sul campo aveva delineato e gli accordi di cessate il fuoco avevano registrato, rimandano anche al significato politico del conflitto, alle lunghe radici e al profondo retroterra di uno dei «conflitti congelati», tornato ad essere caldissimo, che si trascina da decenni e che era tornato alla ribalta accompagnando la dissoluzione dell’Unione Sovietica, con tutto il carico di violenze e di conflitti che la fine dell’esperienza plurinazionale sovietica aveva portato con sé.
Enclave armena in territorio azero, il Nagorno-Karabakh è una repubblica de facto, il cui status è regolato dall’Accordo di Biškek (5 maggio 1994) e dai cosiddetti «Principi di Madrid» (29-30 novembre 2007), che prevedono il progressivo ritiro delle truppe armene dai territori azeri sul confine del Nagorno-Karabakh, con disposizioni specifiche per i due ulteriori distretti azeri (Kelbajar e Lachin) che separano la regione dall’Armenia; la smilitarizzazione dei territori; il dispiegamento di una forza di peace-keeping; lo sminamento; la ricostruzione; il ritorno dei profughi e degli sfollati; la risoluzione dello status attraverso un referendum popolare o una consultazione popolare sullo status finale del Nagorno-Karabakh. Ciò che preme di più, dunque, al di là dei “vincitori” e degli “sconfitti” sul campo (e del ruolo delle potenze regionali, con la Russia che conferma il suo ruolo cruciale nella regione, sia come mediatore, sia come garante, politico e militare, degli accordi, e con la Turchia che rafforza la sua presenza, anche in virtù del ruolo decisivo, politico e militare, a sostegno dell’Azerbaijan), è la protezione delle persone, il ritorno in sicurezza dei profughi e degli sfollati, il ritorno in pace di tutti gli abitanti di queste regioni. Le ragioni della umanità, della solidarietà, della «pace con giustizia», accomunano, al di là delle frontiere e al di là degli schieramenti.
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