Giunge oggi finalmente l’attesa notizia di una intesa sul fronte di conflitto tra Armenia e Azerbaijan per il Nagorno-Karabakh, ed è un successo per la diplomazia della Russia, oltre che un punto a favore delle speranze di pace, o per lo meno di cessazione delle ostilità, nella regione. Un risultato per nulla scontato, tant’è vero che l’intesa, dopo due settimane di pesanti combattimenti, in uno scenario condizionato da consistenti interessi esterni, giunge dopo dieci ore di trattative, a Mosca, tra i ministri degli esteri di Armenia, Azerbaijan e Russia.
Un’intesa a quattro gambe, perché, da quanto si apprende, quattro sono gli elementi intorno ai quali ruota la mediazione: lo scambio di prigionieri e la restituzione dei caduti, a partire dal 10 ottobre, sotto supervisione del Comitato Internazionale della Croce Rossa; l’avvio della definizione delle condizioni per un cessate il fuoco tra le parti; la ripresa di ruolo da parte del Gruppo di Minsk, in relazione al fatto che Armenia e Azerbaijan, sotto tale mediazione, saranno impegnati a esplorare più intensi e più fattivi negoziati ai fini della soluzione pacifica e negoziata della controversia; infine, importante soprattutto dal punto di vista della mediazione russa e della intensa partita diplomatica e strategica nella regione, la conferma del format del negoziato.
Il terreno predisposto dalla mediazione russa, dunque, prova a gettare le basi per una soluzione diplomatica: da una parte, indicando, nella piattaforma dell’intesa, alcuni tra i nodi retro-agenti la controversia; dall’altra, sottolineando il ruolo degli attori storicamente impegnati nel processo regionale, un’attenzione che richiama la durata e il carattere storico di questo classico esempio di «conflitto congelato». La controversia armeno-azera per il Nagorno-Karabakh è, infatti, una storica controversia, che affonda i suoi presupposti nella fine della Guerra Fredda e nel doloroso - e foriero di conflitti - processo di disarticolazione dell’Unione Sovietica.
L’Armenia e l’Azerbaijan, all’epoca repubbliche socialiste sovietiche, facevano parte dell’Unione Sovietica, sino, all’indomani degli eventi della seconda metà degli anni Ottanta, alle proclamazioni di indipendenza e alle separazioni nazionali/nazionalistiche che annunciarono e accompagnarono la fine dell’URSS, formalizzata nel 1991. Il progressivo smantellamento delle strutture istituzionali e amministrative dell’Unione, il venire meno dei legami di reciprocità e di solidarietà interni, insieme con l’accelerazione e l’aggravamento della crisi economica e della crisi politico-istituzionale, ebbero come conseguenza, tra le altre, anche l’esplosione di rivendicazioni di natura etno-politica. Tanto sul confine settentrionale e orientale, nelle repubbliche baltiche, quanto nella regione caucasica, il processo disgregativo trascese in rivendicazioni violente e conflitti armati.
Il retroterra storico-culturale della controversia è, dunque, retroterra di lunga data. L’Armenia, a prevalenza cristiana, tra le chiese ortodosse orientali, e l’Azerbaijan, a larga maggioranza islamica, prevalentemente sciita, entrarono in conflitto per il Nagorno-Karabakh, enclave armena in territorio azero, provincia autonoma in epoca sovietica, riconosciuto parte dell’Azerbaijan dal 1991, ma controllato dagli armeni. Sebbene in territorio azero, infatti, la maggioranza della popolazione è armena, e il soviet locale vi proclamò una repubblica autonoma nel settembre 1991. Nel 1988, le truppe azere e le formazioni armene avviarono un lungo conflitto, con alterne vicende; la tregua del 1994, mediata dalla Russia, ha lasciato il Nagorno-Karabakh (Karabakh traduce l’espressione azera «giardino nero») sotto controllo armeno di fatto. Oltre un milione di persone sono state costrette alla fuga, la popolazione azera (25% del totale) è stata costretta ad abbandonare l’enclave, mentre le popolazioni armene fuggivano dal resto dell’Azerbaijan, in un ulteriore esodo di profughi.
Già da queste brevi note si può dunque ricostruire il contesto dell’intesa e i suoi, sopra richiamati, nodi retro-agenti: in relazione al Gruppo di Minsk, ad esempio, co-presieduto da Russia, USA e Francia, e composto da Bielorussia, Germania, Italia, Svezia, Finlandia e Turchia, oltre che Armenia e Azerbaijan, a fronte dei tentativi di entrambe le parti di considerare il Gruppo, storico mediatore del conflitto, incapace di svolgere le sue funzioni; ma anche in relazione agli attori esterni, in primo luogo la Turchia e il suo ventilato disegno neo-ottomano e ingerentista, che ha, sin da subito, dichiarato e prestato supporto all’Azerbaijan allo scopo di affermare il suo ruolo e ridisegnare gli equilibri strategici nello scenario regionale.
Uno scenario che non potrà, pena ulteriori caduti, devastazioni e violenze, che muoversi verso la pace: come si legge in un recente appello civico per la pace, infatti, «la guerra non risolverà mai il conflitto: ci lascerà soltanto in un circolo vizioso ancora peggiore, di guerre continue e rivendicazioni irrisolte. Respingiamo le posizioni militariste, condizionate dalle narrazioni di guerra, e cerchiamo, viceversa, strade per costruire la pace. Questa guerra riapre le tragedie e le ferite del passato; non può fare nulla per sanarle, può solo crearne di nuove. Questa guerra non ha vincitori. Chiediamo un cessate il fuoco immediato e negoziati inclusivi che comprendano tutte le parti, armene e azere, in conflitto».
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