mercoledì 6 novembre 2019

L’esperienza storica del “socialismo realizzato” e il fatto-simbolo della “caduta del Muro”. Eredità e Prospettive



Potrebbe risultare superfluo soffermarsi sugli eventi attraverso i quali è maturata, per riprendere una formula sintetica, certamente approssimativa ma senza dubbio efficace, la «caduta del Muro di Berlino». Innegabili le responsabilità specifiche riconducibili alla direzione politica dei partiti comunisti dell’Est e dell’Ovest (entrambi, in un processo di azione e reazione, coinvolti in una dinamica, almeno tendenzialmente, “liquidatoria”) e altrettanto indiscutibili le conseguenze gravissime, in termini di arretramento delle condizioni di esistenza del proletariato e delle masse popolari dell’Est e dell’Ovest (e del Nord e del Sud), prodotte dalla fine dell’esperienza storica del socialismo reale e dal venir meno delle conquiste sociali accumulate.

Non di meno interessante, viceversa, affrontare i nodi aperti della cosiddetta «sconfitta storica» (dove l’aggettivo “storico” non può essere confuso con le sue interpretazioni offerte delle forze borghesi, come se si trattasse di aggettivo di altro senso, “inevitabile”, “definitivo” o “finale”). Nel groviglio di questi nodi, al tempo stesso politici e culturali, si intravedono le questioni e le esigenze, le istanze e le contraddizioni, i problemi e le prospettive segnalati dalla fine di questa esperienza di transizione e dall’apertura di nuove opzioni rivoluzionarie, che si muovono nel senso dell’aggiornamento del socialismo «per l’oggi e per il domani» e, meno genericamente, di «socialismo del XXI secolo» a partire dalle esperienze latino-americane.

Prima questione: la «soggettività». Si tratta della questione inerente a una diffusa interpretazione del passaggio rivoluzionario, in quanto tappa verso l’edificazione tout court del socialismo, quale esito incontrovertibile dell’evoluzione dei rapporti sociali e, perfino, dell’intera storia dell’umanità, senza considerare adeguatamente la retro-azione delle «contraddizioni in seno al popolo», il colpo di coda di uno sviluppo dei rapporti sociali inadeguato a rendere prospetticamente consolidata l’esperienza socialista ed il difetto di completezza rappresentato dai limiti della stessa soggettività rivoluzionaria, almeno nella misura in cui questa incompletezza si è venuta esprimendo nella dialettica tra gli artefici del processo di edificazione delle società socialiste. 

Si rinvengono qui, come in ogni emergenza materialistica e dialettica, un limite e una potenzialità insieme: la necessità di non circoscrivere la riflessione alla mera apologia della «scalata al cielo» e l’esigenza di interpretare il processo di trasformazione come istanza di transizione che può durare «una intera epoca storica» e per la quale è necessario attrezzare le soggettività di classe con gli strumenti più adeguati, sia in termini di «battaglia delle idee», sia in termini di organizzazione delle forze, per renderne l’esito percorribile. Ciò comporta il passaggio dal determinismo storico-politico, di cui era intriso il pensiero della Seconda Internazionale, alla dialettica tra egemonia, direzione e dominio quali fattori della presa del potere e della trasformazione della società, in grado di coinvolgere tutti gli attori (sociali, politici e culturali) della trasformazione nel farsi gramsciano della “egemonia”, politica e culturale, in termini di orientamento e direzione.

Seconda questione: la «legge del valore». Si rinviene qui un limite, connesso all’applicazione della legge del valore in termini di consolidamento del mercato socialista basato sull’accumulazione originaria e la produzione primaria (in termini di «produzione di mezzi di produzione») e non averla processualmente orientata alla realizzazione di un’economia socialista diversificata, capace di associare strati sempre più ampi al tessuto della produzione sociale, intendendo la produzione sociale quale architrave della trasformazione in senso socialista della società. La strategia sovietica dello sviluppo si è basata sulla direzione politica dello Stato, la pianificazione e l’industrializzazione, con i suoi corollari, non secondari, in termini di innovazione delle forze produttive e di mobilitazione di massa della forza di lavoro socialista; tuttavia, non è riuscita ad accedere in misura adeguata, in prospettiva, alla diversificazione produttiva, all’incidenza tecnologica e alla mobilitazione (egemonia) ideo-tecnica necessaria a sostenere i cosiddetti «moltiplicatori dello sviluppo». 

Lo stesso fallimento delle «opzioni esterne al sistema» (la riforma Kosygin, con il sistema dei “premi e incentivi”, la relativa autonomia del “sistema d’impresa” e della variabile di profitto, la parziale liberalizzazione dei prezzi, 1965) ha dimostrato, nel farsi del suo itinerario storico-economico, tanto l’infruttuosità di opzioni esterne quanto la fallacia di prassi variamente liquidatorie. Quella sovietica si è così tradotta, spesso, in una strategia di contenimento dell’accerchiamento capitalistico e di emersione progressiva di massa, peraltro di altissima levatura e rilevante profondità, dalla povertà, anziché - specie nella seconda fase - in un processo di inclusione e di protagonismo sociale effettivo, capace di adattarsi alla mutevolezza delle fasi della trasformazione e di rispondere alle esigenze reali di “dinamizzazione” nella mutevole e problematica temperie del XX secolo.




Obiettivi prioritari della trasformazione restano, pertanto, l’edificazione della società socialista, la realizzazione di un’economia socialista basata sulla proprietà sociale, collettiva e statale, la direzione politica dei fattori economici. All’interno di questi obiettivi prioritari, le declinazioni specifiche, in termini di innovazione dei processi produttivi, di ampliamento della base tecnologica, di estensione del lavoro sociale e del protagonismo della classe lavoratrice e, in generale, del proletariato, risultano, non di meno, fattori decisivi.

Tornando, così, all’applicazione della «legge del valore», rimangono cruciali, e andrebbero opportunamente aggiornate e rilette nella prospettiva del presente, le annotazioni di Stalin contenute nel volume sui Problemi economici del socialismo in URSS (Mosca, 1952), per cui la vigenza del mercato socialista (una economia “di mercato” socialista, concependo il “mercato” quale fattore di regolazione del rapporto città-campagna e, quindi, tra produzione collettiva/statale e produzione cooperativa/rurale) non necessariamente significa l’applicazione del mercato capitalistico né tantomeno la predisposizione di un’economia capitalista tout court:

«La produzione mercantile porta al capitalismo solo se esiste la proprietà privata, se la forza-lavoro si presenta sul mercato come merce che il capitalista può comprare e sfruttare nel processo di produzione, se, quindi, esiste nel Paese un sistema di sfruttamento degli operai salariati da parte dei capitalisti. La produzione capitalistica incomincia là, dove i mezzi di produzione sono concentrati in mani private e gli operai costretti a vendere la forza-lavoro come merce». Un passaggio fondamentale e di grande prospettiva.

Terza questione: la «consistenza degli orientamenti di classe». Le indicazioni strategiche in ordine alla costruzione della formazione economico-sociale socialista sono “orientative”, dal momento che Marx aveva sì analizzato i caratteri della società di classe e del modo di produzione capitalistico ma non aveva fornito condizioni operative e si era sempre rifiutato di abbozzare «ricette per le osterie dell’avvenire». I capisaldi per un tale orientamento, insieme politico e prospettico, possono, tuttavia, essere sintetizzati nei seguenti:

1) la conquista del potere da parte del proletariato e delle masse popolari per rovesciare i rapporti di classe ed avviare l’orientamento in senso socialista dell’economia e della società: la connotazione sociale e di classe, l’ampiezza del suo retroterra popolare e la portata della sua prospettiva universale (dal momento che «il proletariato, liberando sé stesso, libera l’intera umanità») restano, infatti, condizioni cruciali e ineludibili;

2) la definizione della gerarchia delle priorità per orientare la direzione politica del processo economico, perché, come ha scritto Maurice Dobb nella sua Storia dell’Unione Sovietica (Roma, 1972), «Un Paese sviluppato può sfidare le incognite e procedere per ipotesi: un Paese povero può puntare solo sulla carta sicura»;

3) la «questione dei bisogni», ovvero il soddisfacimento della composizione dei bisogni sociali della popolazione nel processo di edificazione socialista (le declinazioni storiche del cruciale, leniniano, «pace, pane, libertà»): se nel processo di industrializzazione «a tappe accelerate» gli obiettivi politici sono di tipo quantitativo, nella fase di costruzione del socialismo sviluppato gli obiettivi politici devono essere legati a criteri, insieme, quantitativi e qualitativi (in termini, insieme, di consolidamento economico e di benessere sociale). Il successo della direzione politica del processo economico si misura non solo in termini di kilowattora di energia prodotti e quintali di volumi di minerali estratti («Il Socialismo è il potere sovietico più l’elettrificazione del Paese», ripeteva Lenin), ma anche in termini di estensione e di approfondimento del benessere sociale attraverso una partecipazione diffusa, una adesione di massa, un ampio miglioramento della qualità di vita.

Quarta questione: la «dinamica della pianificazione socialista». Si tratta di individuare quale pianificazione socialista risponda più efficacemente all’obiettivo della transizione al socialismo. Estrinsecando la formula, infatti, se socialismo era (è) potere sovietico ed elettrificazione generale, cioè potere consiliare a direzione proletaria ed innovazione produttiva e tecnologica nel quadro della direzione programmatica dei fattori economici, non è possibile prefigurare una transizione socialista, obliterando la dimensione sociale del processo rivoluzionario, senza combinare cioè l’orientamento quantitativo e qualitativo della produzione (pianificazione) e la direzione unitaria del processo di massa, guidato dal proletariato e dalle forze di classe, in quanto artefici della produzione di valore sociale, e basato nel più ampio e generale movimento socialista di massa.




Nella pianificazione sovietica si scontrano, negli anni Venti, due tendenze: quella della «scuola genetica» (Kondrat’ev), che intende costruire le variabili della pianificazione sulla base delle risultanze emerse dalle applicazioni precedenti, in modo da adattarle, di volta in volta, alla stregua delle mutate condizioni quantitative e qualitative che la pianificazione aveva determinato; e quella della «scuola teleologica» (Leont’ev), che intende costruire le variabili di piano sostanzialmente in funzione dell’obiettivo che la direzione politica si propone, quali il superamento dell’arretratezza, l’industrializzazione del Paese, l’edificazione del socialismo «per l’essenziale». Si tratta di un’inedita applicazione del «primato della politica». Stalin ribadisce tale concezione, uscita vincitrice nel XV Congresso (Mosca, 1927), ma la problematizza e la amplia, assicurando che:

«La pianificazione che si realizza negli anni Trenta non può essere assunta a modello generale: il suo fine è il superamento dell’arretratezza, scopo rispetto al quale si possono sacrificare altri aspetti, di razionalità economica, di proporzionalità dello sviluppo o di equilibrio nello sviluppo». In tale riflessione, anche qui gravida di implicazioni, non è secondaria la sottolineatura dei fattori complementari dello sviluppo strategico dell’edificazione socialista: razionalità economica, proporzionalità dello sviluppo, equilibrio nello sviluppo.

La pianificazione deve essere come la «programmazione del futuro»: la scomparsa dell’antagonismo città - campagna, il superamento della dialettica tra proprietà sociale, cooperativa, statale e la libera associazione dei produttori nel quadro della produzione sociale pianificata costituiranno le premesse del compimento di un socialismo più maturo, entro il quale «erede della proprietà di tutto il popolo non sarà lo Stato, che dovrà essersi estinto, ma la società stessa, rappresentata dal suo organo di direzione economica». I presupposti saranno dunque, fondamentalmente, due: la generalizzazione del benessere sociale e l’istruzione  poli-tecnica universale. Anche qui si può rinvenire un nesso dialettico di grande profondità ed estremamente attuale.

Quinta questione: «quale pianificazione per quale socialismo», ovvero dal volontarismo rivoluzionario del cosiddetto lavoro d’assalto (emergenza) all’organizzazione socialista dei rapporti di produzione (regolarità). Sempre nel testo di Stalin: «Si dice che la necessità dello sviluppo pianificato proporzionale dell’economia del Paese dà la possibilità al potere sovietico di sopprimere le leggi economiche esistenti e crearne delle nuove. Ciò non è vero. La legge dello sviluppo pianificato è sorta in contrapposizione alla legge della concorrenza, della competizione e dell’anarchia della produzione nel capitalismo […]. È entrata in vigore perché un’economia nazionale socialista si può avere soltanto sulla base della legge economica dello sviluppo pianificato proporzionale dell’economia nazionale». Il problema resta quello delle modalità di applicazione della legge del valore e quindi della direzione politica dei processi di organizzazione dei rapporti di produzione in senso socialista, cioè la dialettica tra evoluzione delle forze produttive e dinamica dei rapporti sociali di produzione:

«I nostri attuali rapporti di produzione attraversano un periodo in cui, corrispondendo alla crescita delle forze produttive, le fanno procedere a passi da gigante. Ma non sarebbe giusto ritenere che non esista alcuna contraddizione tra le nostre forze produttive ed i rapporti di produzione. Contraddizioni esistono in quanto lo sviluppo dei rapporti di produzione ritarda rispetto allo sviluppo delle forze produttive».

Da qui, l’annosa questione del calcolo economico (chozrashot) socialista: sia in relazione ai suoi ritardi (debolezza nell’innovazione tecnologica, strutturale, computazionale), sia in relazione alle sue contraddizioni interne (nessuna teoria socialista del calcolo economico sarà alla fine capace di affermarsi compiutamente), che l’hanno configurata come una variabile decisiva ai fini dell’implosione del sistema, non essendo stati gli economisti sovietici della seconda fase (da Kosygin ad Agambegian) capaci di determinare in modo univoco l’unità di calcolo in applicazione della nozione marxiana, quale lavoro sociale necessario alla produzione in termini di lavoro agente/vivo e lavoro incorporato/morto (con una eco alla polemica Sweezy-Bettelheim).

Sesta questione: la «precipitazione storica». Esito di questa “seconda fase”, la «caduta del Muro» è un evento - simbolo, sia nel senso della periodizzazione, in quanto assunto come spartiacque della storia contemporanea e apice di una complessa evoluzione storico-sociale compendiata nel cosiddetto secolo breve (E. Hobsbawm), sia nel senso della concentrazione evenemenziale, vale a dire per la particolare accumulazione di eventi che in quella congerie si è determinata. Dapprima l’affermazione del primo sindacato non-classista (Solidarnosc), poi l’esperienza delle prime elezioni pluri-partitiche in Polonia, quindi la modificazione del regime dei visti tra Ungheria e Austria, la messa in discussione dell’art. 6 della Costituzione Sovietica e il cambio di paradigma portato dall’abrogazione del principio-guida del Partito quale forza motrice del processo rivoluzionario, forza suprema della società e dello stato socialista, e la conseguente ri-definizione istituzionale che toccò all’URSS con i progetti di trasformazione dell’Unione in repubblica presidenziale a base federale, di cui alla successiva proposta di regolamentazione legata ad un, appositamente denominato, «Trattato sullo Stato dell’Unione»; infine, l’apertura del valico di frontiera a Berlino, la frattura, anche simbolica, del Muro, la fuoriuscita dal Patto di Varsavia e la fine dell’esperienza multi-statuale prima del COMECON, quindi dell’URSS (CSI, 1992).




Tutto questo indica con chiarezza, in primo luogo, che il processo storico della «caduta del Muro» veniva da lontano e datava dalla fine degli anni Settanta, quando per la prima volta erano assurte all’attenzione pubblica le contraddizioni del sistema della pianificazione e della regolazione socialista dello Stato e dell’economia sovietica, a cavallo tra l’introduzione del calcolo economico per le unioni industriali del 1973 e la legge sui collettivi di lavoro del 1983; in secondo luogo, che tale processo aveva le sue radici in profonde motivazioni di ordine politico e, prima ancora, strutturale, venendo quindi a configurarsi la «caduta del Muro» come il venir meno di un’esperienza storico-sociale e l’implosione causata, tra l’altro, dai limiti nella dinamizzazione strategica dell’apparato economico, sociale e statuale sovietico (molto più nella sfera economica e sociale che non nell’ordine politico e istituzionale, come la stessa vicenda cinese avrebbe dimostrato, a partire dalla svolta successiva ai fatti di piazza Tien’an Men della primavera dell’89; ancora, dunque, l’anno fatale 1989).

Ciò, portando l’analisi alle sue ulteriori conseguenze, comporta evidentemente, in linea di principio ed in punta di fatto, due implicazioni: la prima, che un intero processo storico e sociale retro-agisce e condiziona i fatti e le circostanze della fine dell’esperienza storica del socialismo sovietico; la seconda, che non solo tale esito non poteva e non può essere considerato “inevitabile”, in ragione dell’intrinseca natura materialistica e dialettica della sua stessa evoluzione, ma soprattutto non esaurisce il campo delle possibilità di sviluppo di rapporti sociali socialisti e di formazioni economico-sociali socialistiche, come, anche in questo caso, le esperienze storiche recenti, latino-americane, a partire da Cuba, e la vicenda cinese stanno a dimostrare.

Settima questione: «conseguenze ed eredità», vale a dire «da che parte è caduto il Muro», sia nel senso degli esiti che ha determinato, sia nel senso della ri-definizione dei rapporti capitalistici di produzione su scala mondiale. Il dibattito sull’eredità storica del socialismo reale e le discussioni sulle conseguenze storico-sociali che la fine di quelle società di transizione ha prodotto, possono essere messi a fuoco almeno lungo due ordini di problemi. Il primo, la ri-definizione dei rapporti di forza e delle categorie di analisi della realtà capitalistica, che sempre più viene spinta dai circuiti dominanti nella direzione della progressiva unificazione del «dominio capitalistico» e della parallelamente progressiva acquisizione dei «centri di egemonia» (potenzialmente o relativamente) autonomi nella sfera del controllo e del comando capitalistico su scala mondiale. Peraltro, nella fase attuale, la pulsione dell’unificazione del comando capitalistico e la strategia del caos diffuso per fuoriuscire dalla crisi muovono di pari passo. Il caso della Cina è certo il più pertinente.

Si pone, dunque, un problema di analisi di fase e di categorie dell’interpretazione: sostenere la tesi della competizione inter-imperialistica mondiale (mondializzazione capitalistica e imperialistica), problematizzando o superando la categoria della “globalizzazione”, e riaffermare l’inchiesta di classe, la centralità dei rapporti di classe ed un’idea della ricomposizione, su base di classe, del blocco storico-sociale antagonista quando ancora si sente parlare di “società civile” o, peggio, di “fine del lavoro salariato” e di “fine del conflitto capitale-lavoro”, costituisce certamente una premessa politica importante. Queste tesi vengono oggi riprese e discusse, condivise o sfidate, ma sono almeno emerse dalla coltre di oblio in cui pure erano state relegate.

Il secondo corno della questione è rappresentato dalle nuove esperienze storiche “di transizione”, vale a dire quel tessuto ampio di sperimentazioni sociali, politiche ed istituzionali che si stanno cimentando nell’ipotesi di costruzione di società di transizione, su base socialista, non ad ispirazione sovietica, vale a dire nel cosiddetto «socialismo del XXI secolo», emergente in America Latina, in più punti nel Sud e nell’Est del pianeta, con echi e rimandi anche nell’Occidente capitalistico (Beyond GNP Commission, OCSE). Si tratta di una prospettiva di cruciale importanza: rimette a tema l’orizzonte del socialismo e riafferma il compito storico di fuoriuscire dal dominio di classe per traguardare una dimensione di libertà e di giustizia, di liberazione di massa. In tal senso, la «questione del potere» riprende centralità: solo la diretta associazione delle masse popolari, a partire dal moderno proletariato organizzato, al potere e il rovesciamento dei rapporti capitalistici di produzione, con il superamento della proprietà privata dei mezzi fondamentali di produzione e la transizione alla proprietà sociale, statale e cooperativa, degli strumenti produttivi, può attivare tale dinamica, innescata dalla conquista dei fortini e delle casematte che la battaglia delle idee ed il lavoro per l’egemonia concorrono a determinare, alimentata dall’ampliamento degli spazi della democrazia materiale e sostanziale.

Come recentemente Serge Halimi e Pierre Rimbert hanno ricordato, intanto, «la ricomposizione politica è iniziata: trent’anni dopo la caduta del muro di Berlino, il capitalismo di stato cinese estende la propria influenza; l’«economia socialista di mercato», che conta sulla prosperità di una classe media in ascesa, lega il proprio futuro alla continua mondializzazione degli scambi, che fa a pezzi l’industria manifatturiera della maggior parte degli Stati occidentali, compresa quella statunitense, che Donald Trump, fin dal suo primo discorso ufficiale, ha promesso di «salvare dal massacro»; quindi, «la crisi, oltre a smentire il discorso dominante su globalizzazione e democrazia, ha messo in discussione anche gli assunti circa il ruolo economico dei poteri pubblici. Tutto è possibile, ma non per tutti: raramente una dimostrazione di questo principio è stata offerta con tanta chiarezza quanto nell’ultimo decennio. Creazione monetaria frenetica, nazionalizzazioni, azione discrezionale degli eletti e delle elette ai poteri pubblici: per salvare, senza contro-partita, gli istituti bancari, dai quali dipendeva la sopravvivenza del sistema, furono attuate, senza battere ciglio, una quantità di operazioni considerate impossibili e impensabili. Un interventismo massiccio che ha rivelato uno Stato forte, capace di mobilitare la sua potenza in un campo dal quale sembrava essere stato estromesso. Ma il principale obiettivo di questo Stato forte sembrava essere la garanzia di un quadro stabile al capitale».

Se, per un verso, la vulgata della «unificazione moltitudinaria» e della estinzione dello Stato-nazione viene clamorosamente smentita proprio dalla dinamica e dagli esiti della crisi capitalistica, per un altro, una nuova direzione politica e una rinnovata soggettività di classe sono necessarie per appropriarsi e trascendere gli strumenti della trasformazione e dell’edificazione, in senso socialista, dell’economia, della società e dello Stato.




Il «socialismo del XXI secolo» enuclea, all’interno della categoria che lo designa, anche un’ipotesi di fuoriuscita dalla sconfitta storica. La stagione che porta alla «caduta del Muro» era stata segnata dal «sogno della cosa», l’illusione della perestrojka, la «riforma del socialismo» ed il vagheggiamento di una nuova antropologia per un «uomo nuovo», che fosse meno sovietico e più socialista, anzi, come si diceva: socialista democratico o «dal volto umano». Quella opzione, che introduceva una quantità di variabili esterne al sistema, è finita con l’implosione del sistema stesso, il fallimento di quelle speranze, in definitiva, l’ondata neo-liberista. Col riflusso è arrivato il Washington Consensus che, se millantava la sparizione del conflitto di classe, non poteva tuttavia azzerare un antagonismo capace di delineare nuove frontiere di conflittualità: da una parte, il trionfo del «pensiero unico» neo-liberale, dall’altra, di conseguenza, una pluridecennale trincea anti-liberista che l’esperienza del Chiapas, la insurgencia zapatista dell’EZLN (1994), interrompeva, ri-collocando, sul palcoscenico della storia, le rivendicazioni delle masse popolari dei Sud del mondo. Da quel segnale è partita una nuova movimentazione internazionale, di classi e popoli in lotta, che hanno ridiscusso l’egemonia dominante; sull’onda di quella ispirazione anti-imperialista e della fine dell’egemonia unipolare degli Stati Uniti, con l’emergere di nuovi competitori strategici, a partire, ancora una volta, dalla Cina, si sono prodotte trasformazioni sostanziali che parlano di approdi anti-capitalistici, ancora una volta a partire dal Subcontinente.

Altre esperienze, peraltro, sono in corso di sviluppo: si tratta di ipotesi di transizione recenti ed originali nella loro concezione e nella loro ascendenza. Un popolo, dignitoso, grande ed eroico, si è rimesso in marcia, il popolo del Venezuela Bolivariano: sono questi i termini con i quali si è rivolto alle masse, in occasione della Concentrazione Antimperialista Bolivariana (2 Giugno 2008) a Caracas, Hugo Chavez, rilanciando così la questione della transizione socialista. In America Latina, il movimento popolare ha dato prova della sua capacità di innovazione e di tenuta, a partire dalla sua connotazione sociale e, in senso più generale, di classe: «Intendiamo per popolo, quando parliamo di lotta, la grande massa irredenta, quella a cui tutti offrono e quella che tutti ingannano e tradiscono, quella che anela una patria migliore, più degna, più giusta [...]». 

Nella celebre autodifesa, La storia mi assolverà (1953), Fidel Castro ricorda al mondo che «Noi chiamiamo popolo, se di lotta si tratta, i … cubani che stanno senza lavoro desiderosi di guadagnarsi il pane con onore, senza dover emigrare dalla propria patria in cerca di sostentamento; … gli operai stagionali della campagna che abitano in baracche miserabili, che lavorano quattro mesi e soffrono la fame per il resto dell’anno; … gli operai industriali e braccianti … la cui vita è il lavoro perenne e il cui riposo è la tomba; i … piccoli agricoltori, che vivono e muoiono lavorando una terra che non è loro, contemplandola sempre, tristemente, come Mosè alla terra promessa; … i maestri e professori tanto pieni di abnegazione, di sacrifici, necessari al destino migliore delle future generazioni e che tanto male li si tratta e li si paga; … Questo è il popolo! Quello che soffre tutte le sue disgrazie ed è pertanto capace di combattere con tutto il suo coraggio! A questo popolo, il cui cammino di angustia è lastricato di inganni e false promesse, non andavamo a dire: Ti daremo ma semmai: Ecco, prendi, lotta con tutte le tue forze perché siano tue la libertà e la felicità!». Si tratta di una transizione innovativa, che si compone di una grammatica suggestiva, la sua rilevanza consistendo in un progetto rinnovato di edificazione di una nuova umanità, attraverso l’educazione diffusa, l’adesione delle masse al processo di trasformazione e l’individuazione di nuove modalità di partecipazione popolare.

La stessa prospettiva bolivariana, che rappresenta, con l’esperienza socialista di Cuba, l’opzione più promettente nel Subcontinente, è impegnata nella costruzione di «un nuovo blocco storico» a partire da quello che è stato definito il programma dei «cinque motori», vale a dire 1) la riforma costituzionale, 2) la legge abilitante, 3) la questione morale, 4) la nuova «geometria del potere», 5) l’espansione del potere comunale, nonché la socializzazione della produzione con il programma delle «fabbriche socialiste» e, non ultimo per importanza, la nascita del PSUV (il Partito Socialista Unito del Venezuela), di cui il movimento progressista bolivariano si è dotato proprio per consolidare l’unità di massa ed accelerare il processo di trasformazione sociale.

È all’interno di questo disegno che si sta costruendo una ulteriore tappa di quel processo decennale che dovrà portare al «salto di qualità» auspicato. Per l’importanza storica del programma per il «socialismo del XXI secolo», è opportuno entrare nel merito di questa innovativa ipotesi di transizione, in quanto si compone di istanze variamente articolate: anzitutto, mediante i «cinque motori», la trasformazione istituzionale e la associazione delle masse al potere; quindi, il programma di socializzazione dell’economia, con la settimana lavorativa di 30 ore, quale possibilità di dedicare 6 ore della propria giornata ad ogni esigenza di una vita degna (lavoro, studio, riposo e divertimento), per guadagnare un’esistenza più solidale e un’umanità più alta; poi, il programma di recupero della sovranità economica, con la riconquista al potere statale delle risorse produttive fondamentali e la fuori-uscita dal diktat del Fondo Monetario Internazionale, entro cui si inscrive la proposta dell’ALBA (la Alternativa Bolivariana per le Americhe) attraverso cui garantire credito allo sviluppo dei Paesi emergenti, sempre meno disponibili al ricatto delle centrali dell’imperialismo finanziario (come hanno, peraltro, dimostrato le rivolte alle istituzioni di Bretton Woods in Paesi quali il Sudafrica, l’Indonesia e le Filippine). Il «socialismo del XXI secolo», dunque, nell’esperienza latino-americana, può rappresentare un’opzione di apertura di una stagione rivoluzionaria adeguata al presente e proiettata al futuro: citando Rafael Correa, socialismo è la «supremazia delle esigenze del lavoro sui bisogni della accumulazione, necessità dell’azione dello Stato e benessere delle masse, cioè, anche, vivere in armonia con la natura».




È significativo il fatto che, proprio nel 2019 che segna la ricorrenza dei trent’anni della «caduta del Muro di Berlino», Cuba si è dotata di una nuova, aggiornata, costituzione socialista. Proprio nell’anniversario della nascita di Fidel Castro, tra le figure più rilevanti nella storia del XX secolo, è stato inaugurato, il 13 agosto 2018, il processo costituzionale per l’adozione di una nuova costituzione socialista, adeguata alle sfide del presente. La nuova costituzione conferma, a sua volta, il tratto socialista del sistema cubano, innescando il ruolo centrale del partito comunista ed attivando la più ampia partecipazione popolare. L’art. 5 dell’articolato del progetto di nuova costituzione cubana, infatti, dichiara il partito comunista, «martiano, fidelista e marxista-leninista, avanguardia organizzata della nazione cubana, ...forza dirigente suprema della società e dello Stato». 

Vi è qui una base marxista: istituire una cornice giuridica generale (la configurazione sovrastrutturale) al quadro economico e sociale rinnovato dal contesto di interventi (il quadro strutturale) che il socialismo a Cuba ha sperimentato nel corso degli ultimi vent’anni. Vi è, in generale, un quadro complessivo di diritti, teso a consolidare una prospettiva di «tutti i diritti umani per tutti», cioè di unitarietà e di indivisibilità dei diritti umani, sia i diritti civili e politici, sia i diritti materiali e culturali. Nel nuovo progetto costituzionale, infatti, la proposta di art. 1 definisce Cuba uno «stato socialista di diritto, democratico, indipendente e sovrano, organizzato con tutti e per il bene di tutti»; l’art. 3 conferma che «il socialismo e il sistema politico e sociale rivoluzionario, stabiliti nella costituzione, sono irrevocabili»; mentre l’art. 27, richiamando la pianificazione socialista, ricorda che «lo stato dirige, regola e controlla l’attività economica nazionale». La stessa disposizione conclusiva (art. 224) riafferma che «non è possibile sottoporre a revisione i principi riguardanti l’irrevocabilità del socialismo e il sistema politico e sociale così come stabiliti dall’art. 3».

Vi è poi la ridefinizione dell’assetto politico e istituzionale: delineando il profilo di uno stato socialista a modello parlamentare basato sul potere popolare, il progetto costituzionale distingue la figura del Presidente della Repubblica da quella del Presidente del Consiglio (Primo Ministro); il Presidente della Repubblica è eletto dall’Assemblea Nazionale (art. 121) su mandato di cinque anni rinnovabile una volta sola; il Presidente del Consiglio è altresì designato dall’Assemblea Nazionale su proposta del Presidente della Repubblica (art. 136); l’Assemblea Nazionale, a sua volta, resta «l’unico organo dotato di potere costituente e legislativo» a Cuba (art. 98), consolidando inoltre il ruolo non solo dell’Assemblea, ma anche di tutti gli altri strumenti assembleari organizzati, nei quali si forma, si sviluppa e si esprime la volontà popolare.

Vi è infine la ridefinizione dell’assetto economico e sociale: Cuba conferma il carattere socialista del proprio esperimento; propone di sviluppare, approfondire ed attualizzare il sistema socialista; articola, in definitiva, un aggiornamento del socialismo di fronte alle grandi sfide del mondo multipolare e della contraddizione inter-imperialistica per il XXI secolo. Ribadisce (art. 20) «la proprietà socialista di tutto il popolo sui mezzi fondamentali di produzione come forma principale di proprietà». Conferma il carattere pubblico e statale di tutti i comparti strategici o fondamentali dell’economia (suolo e sottosuolo, risorse energetiche e naturali, vie e infrastrutture di comunicazione); riconosce il ruolo del mercato e limita la proprietà privata ai settori minuti, vietando espressamente (art. 22) «la concentrazione della proprietà in persone fisiche o giuridiche non statali, onde garantire i principi socialisti di eguaglianza e di giustizia sociale». Dichiara infine (art. 26) «l’impresa statale socialista il soggetto principale dell’economia nazionale».


www.flickr.com/photos/nichodesign/13919114253


Anche da queste innovazioni scaturisce l’attualità del socialismo, un socialismo all’altezza delle sfide del presente. Indipendenza, dignità e progresso costituiscono le parole-chiave di questo orizzonte e definiscono allora una griglia irrinunciabile, anche per le sinistre di classe ed il movimento rivoluzionario, nel “nostro” Occidente.


Nessun commento:

Posta un commento