Potrebbe
risultare superfluo soffermarsi sugli eventi attraverso i quali è maturata, per
riprendere una formula sintetica, certamente approssimativa ma senza dubbio efficace,
la «caduta del Muro di Berlino». Innegabili le responsabilità specifiche riconducibili
alla direzione politica dei partiti comunisti dell’Est e dell’Ovest (entrambi, in un
processo di azione e reazione, coinvolti in una dinamica,
almeno tendenzialmente, “liquidatoria”) e
altrettanto indiscutibili le conseguenze gravissime, in termini di
arretramento delle condizioni di esistenza del proletariato e delle masse
popolari dell’Est e dell’Ovest (e del Nord e del Sud), prodotte dalla fine dell’esperienza storica del socialismo reale e dal
venir meno delle conquiste sociali accumulate.
Non
di meno interessante, viceversa, affrontare i nodi aperti della cosiddetta «sconfitta storica» (dove
l’aggettivo “storico” non può essere confuso con le sue interpretazioni offerte
delle forze borghesi, come se si trattasse di aggettivo di altro senso, “inevitabile”,
“definitivo” o “finale”). Nel groviglio di questi nodi, al tempo stesso
politici e culturali, si intravedono le questioni e le esigenze, le istanze e
le contraddizioni, i problemi e le prospettive segnalati dalla fine di questa
esperienza di transizione e dall’apertura di nuove opzioni rivoluzionarie, che
si muovono nel senso dell’aggiornamento del socialismo «per l’oggi e per il domani» e, meno genericamente, di «socialismo del XXI secolo» a partire dalle esperienze latino-americane.
Prima questione: la «soggettività». Si tratta della questione
inerente a una diffusa interpretazione del passaggio rivoluzionario, in quanto tappa verso l’edificazione tout court del socialismo, quale esito
incontrovertibile dell’evoluzione dei rapporti sociali e, perfino, dell’intera
storia dell’umanità, senza considerare adeguatamente
la retro-azione delle «contraddizioni in seno al popolo», il colpo di coda di uno sviluppo dei rapporti
sociali inadeguato a rendere prospetticamente consolidata l’esperienza
socialista ed il difetto di completezza rappresentato dai limiti della stessa soggettività
rivoluzionaria, almeno nella misura in cui questa incompletezza si è venuta
esprimendo nella dialettica tra gli artefici del processo di edificazione delle
società socialiste.
Si rinvengono qui, come in ogni emergenza materialistica e
dialettica, un limite e una potenzialità insieme: la necessità di non
circoscrivere la riflessione alla mera apologia della «scalata al cielo» e l’esigenza
di interpretare il processo di trasformazione come istanza di transizione che può
durare «una intera epoca storica» e
per la quale è necessario attrezzare le soggettività di classe con gli
strumenti più adeguati, sia in termini di «battaglia
delle idee», sia in termini di organizzazione delle forze, per
renderne l’esito percorribile. Ciò comporta il passaggio dal determinismo
storico-politico, di cui era intriso il pensiero della Seconda Internazionale, alla
dialettica tra egemonia, direzione e dominio quali fattori della presa del
potere e della trasformazione della società, in
grado di coinvolgere tutti gli attori (sociali, politici e culturali) della
trasformazione nel farsi gramsciano della “egemonia”, politica e culturale, in termini di orientamento e direzione.
Seconda questione: la «legge del valore». Si rinviene qui un limite, connesso all’applicazione della legge del valore
in termini di consolidamento del mercato socialista basato sull’accumulazione
originaria e la produzione primaria (in
termini di «produzione di mezzi di produzione») e non averla processualmente orientata alla
realizzazione di un’economia socialista diversificata, capace di associare
strati sempre più ampi al tessuto della produzione sociale, intendendo la
produzione sociale quale architrave della trasformazione in senso socialista
della società. La strategia sovietica dello sviluppo si è basata sulla
direzione politica dello Stato, la pianificazione e l’industrializzazione, con
i suoi corollari, non secondari, in termini di innovazione delle forze
produttive e di mobilitazione di massa della forza di lavoro socialista; tuttavia,
non è riuscita ad accedere in misura adeguata, in prospettiva, alla
diversificazione produttiva, all’incidenza tecnologica e alla mobilitazione
(egemonia) ideo-tecnica necessaria a sostenere i cosiddetti «moltiplicatori dello sviluppo».
Lo stesso
fallimento delle «opzioni esterne al sistema» (la riforma Kosygin, con il
sistema dei “premi e incentivi”, la relativa autonomia del “sistema d’impresa”
e della variabile di profitto, la parziale liberalizzazione dei prezzi, 1965) ha
dimostrato, nel farsi del suo itinerario
storico-economico, tanto l’infruttuosità di opzioni esterne quanto la fallacia di
prassi variamente liquidatorie. Quella sovietica si è così tradotta, spesso, in
una strategia di contenimento dell’accerchiamento capitalistico e di emersione progressiva
di massa, peraltro di altissima levatura e rilevante profondità, dalla povertà,
anziché - specie nella seconda fase - in un processo di inclusione e di
protagonismo sociale effettivo, capace di adattarsi alla mutevolezza delle fasi
della trasformazione e di rispondere alle esigenze reali di “dinamizzazione”
nella mutevole e problematica temperie del XX secolo.
Obiettivi prioritari della trasformazione restano, pertanto,
l’edificazione della società socialista,
la realizzazione di un’economia socialista basata sulla proprietà sociale,
collettiva e statale, la direzione politica dei fattori economici. All’interno
di questi obiettivi prioritari, le declinazioni specifiche, in termini di
innovazione dei processi produttivi, di ampliamento della base tecnologica, di
estensione del lavoro sociale e del protagonismo della classe lavoratrice e, in
generale, del proletariato, risultano, non di meno, fattori decisivi.
Tornando,
così, all’applicazione della «legge del valore», rimangono cruciali, e andrebbero opportunamente
aggiornate e rilette nella prospettiva del presente, le annotazioni di Stalin
contenute nel volume sui Problemi
economici del socialismo in URSS (Mosca, 1952), per cui la vigenza del
mercato socialista (una economia “di mercato” socialista, concependo il “mercato”
quale fattore di regolazione del rapporto città-campagna e, quindi, tra
produzione collettiva/statale e produzione cooperativa/rurale) non necessariamente significa l’applicazione del
mercato capitalistico né tantomeno la predisposizione di un’economia
capitalista tout court:
«La
produzione mercantile porta al capitalismo solo se esiste la proprietà privata,
se la forza-lavoro si presenta sul mercato come merce che il capitalista può
comprare e sfruttare nel processo di produzione, se, quindi, esiste nel Paese
un sistema di sfruttamento degli operai salariati da parte dei capitalisti. La
produzione capitalistica incomincia là, dove i mezzi di produzione sono
concentrati in mani private e gli operai costretti a vendere la forza-lavoro
come merce». Un passaggio fondamentale e di grande prospettiva.
Terza questione: la «consistenza degli orientamenti di classe». Le
indicazioni strategiche in ordine alla costruzione della formazione
economico-sociale socialista sono “orientative”, dal momento che Marx aveva sì
analizzato i caratteri della società di classe e del modo di produzione
capitalistico ma non aveva fornito condizioni operative e si era sempre rifiutato
di abbozzare «ricette per le osterie dell’avvenire». I capisaldi per un tale
orientamento, insieme politico e prospettico, possono, tuttavia, essere
sintetizzati nei seguenti:
1)
la conquista del potere da parte del proletariato e delle masse popolari per
rovesciare i rapporti di classe ed avviare l’orientamento in senso socialista
dell’economia e della società: la connotazione sociale e di classe, l’ampiezza
del suo retroterra popolare e la portata della sua prospettiva universale (dal
momento che «il proletariato, liberando sé stesso, libera l’intera umanità»)
restano, infatti, condizioni cruciali e ineludibili;
2)
la definizione della gerarchia delle
priorità per orientare la direzione politica del processo economico, perché, come ha scritto Maurice Dobb nella
sua Storia dell’Unione Sovietica
(Roma, 1972), «Un Paese sviluppato può sfidare le incognite e procedere per
ipotesi: un Paese povero può puntare solo sulla carta sicura»;
3)
la «questione dei bisogni», ovvero il soddisfacimento della composizione dei bisogni sociali della popolazione nel
processo di edificazione socialista (le
declinazioni storiche del cruciale, leniniano, «pace, pane, libertà»): se nel
processo di industrializzazione «a tappe accelerate» gli obiettivi politici sono di tipo quantitativo,
nella fase di costruzione del socialismo sviluppato gli obiettivi politici
devono essere legati a criteri, insieme, quantitativi e qualitativi (in termini, insieme, di consolidamento economico e
di benessere sociale). Il successo della direzione politica del processo
economico si misura non solo in termini di kilowattora di energia prodotti e
quintali di volumi di minerali estratti («Il
Socialismo è il potere sovietico più l’elettrificazione del Paese»,
ripeteva Lenin), ma anche in termini di estensione e di approfondimento del
benessere sociale attraverso una partecipazione diffusa, una adesione di massa,
un ampio miglioramento della qualità di vita.
Quarta questione: la «dinamica della pianificazione socialista». Si
tratta di individuare quale pianificazione socialista risponda più
efficacemente all’obiettivo della transizione al socialismo. Estrinsecando la
formula, infatti, se socialismo era (è)
potere sovietico ed elettrificazione generale, cioè potere consiliare a
direzione proletaria ed innovazione produttiva e tecnologica nel quadro della
direzione programmatica dei fattori economici, non è possibile prefigurare una
transizione socialista, obliterando la dimensione sociale del processo
rivoluzionario, senza combinare cioè l’orientamento quantitativo e qualitativo
della produzione (pianificazione) e la direzione unitaria del processo
di massa, guidato dal proletariato e dalle forze di classe, in quanto artefici
della produzione di valore sociale, e basato nel più ampio e generale movimento
socialista di massa.
Nella pianificazione sovietica si scontrano, negli anni
Venti, due tendenze: quella della «scuola genetica» (Kondrat’ev), che intende costruire le variabili della
pianificazione sulla base delle risultanze emerse dalle applicazioni
precedenti, in modo da adattarle, di volta in volta, alla stregua delle mutate
condizioni quantitative e qualitative che la pianificazione aveva determinato;
e quella della «scuola teleologica» (Leont’ev), che intende costruire le
variabili di piano sostanzialmente in funzione dell’obiettivo che la direzione
politica si propone, quali il superamento dell’arretratezza,
l’industrializzazione del Paese, l’edificazione del socialismo «per l’essenziale». Si tratta di un’inedita
applicazione del «primato della politica». Stalin ribadisce tale concezione, uscita vincitrice nel XV Congresso
(Mosca, 1927), ma la problematizza e la amplia, assicurando che:
«La
pianificazione che si realizza negli anni Trenta non può essere assunta a
modello generale: il suo fine è il superamento dell’arretratezza, scopo
rispetto al quale si possono sacrificare altri aspetti, di razionalità
economica, di proporzionalità dello sviluppo o di equilibrio nello sviluppo». In
tale riflessione, anche qui gravida di implicazioni, non è secondaria la
sottolineatura dei fattori complementari dello sviluppo strategico
dell’edificazione socialista: razionalità economica, proporzionalità dello
sviluppo, equilibrio nello sviluppo.
La
pianificazione deve essere come la «programmazione del futuro»: la scomparsa dell’antagonismo città - campagna, il
superamento della dialettica tra proprietà sociale, cooperativa, statale e la
libera associazione dei produttori nel quadro della produzione sociale
pianificata costituiranno le premesse del compimento di un socialismo più
maturo, entro il quale «erede della
proprietà di tutto il popolo non sarà lo Stato, che dovrà essersi estinto, ma
la società stessa, rappresentata dal suo organo di direzione economica». I presupposti saranno dunque, fondamentalmente, due:
la generalizzazione del benessere sociale e l’istruzione poli-tecnica universale. Anche qui si può rinvenire un nesso dialettico di
grande profondità ed estremamente attuale.
Quinta questione: «quale pianificazione per quale socialismo», ovvero
dal volontarismo rivoluzionario del cosiddetto lavoro d’assalto (emergenza) all’organizzazione socialista dei
rapporti di produzione (regolarità). Sempre nel testo di Stalin: «Si dice che la necessità dello sviluppo
pianificato proporzionale dell’economia del Paese dà la possibilità al potere
sovietico di sopprimere le leggi economiche esistenti e crearne delle nuove.
Ciò non è vero. La legge dello sviluppo pianificato è sorta in
contrapposizione alla legge della concorrenza, della competizione e dell’anarchia
della produzione nel capitalismo […]. È entrata in vigore perché un’economia nazionale socialista si può
avere soltanto sulla base della legge economica dello sviluppo pianificato
proporzionale dell’economia nazionale». Il problema resta quello delle modalità
di applicazione della legge del valore e quindi della direzione politica dei
processi di organizzazione dei rapporti di produzione in senso socialista, cioè la dialettica tra evoluzione
delle forze produttive e dinamica dei rapporti sociali di produzione:
«I nostri attuali rapporti di produzione attraversano un
periodo in cui, corrispondendo alla crescita delle forze produttive, le fanno
procedere a passi da gigante. Ma non sarebbe giusto ritenere che non esista
alcuna contraddizione tra le nostre forze produttive ed i rapporti di
produzione. Contraddizioni esistono in quanto lo sviluppo dei rapporti di
produzione ritarda rispetto allo sviluppo delle forze produttive».
Da
qui, l’annosa questione del calcolo economico (chozrashot) socialista: sia in relazione ai suoi ritardi (debolezza
nell’innovazione tecnologica, strutturale, computazionale), sia in relazione
alle sue contraddizioni interne (nessuna teoria socialista del calcolo
economico sarà alla fine capace di affermarsi compiutamente), che l’hanno
configurata come una variabile decisiva ai fini dell’implosione del sistema,
non essendo stati gli economisti sovietici della seconda fase (da Kosygin ad
Agambegian) capaci di determinare in modo univoco l’unità di calcolo in
applicazione della nozione marxiana, quale lavoro sociale necessario alla
produzione in termini di lavoro agente/vivo e lavoro incorporato/morto (con una
eco alla polemica Sweezy-Bettelheim).
Sesta questione: la «precipitazione storica». Esito di questa
“seconda fase”, la «caduta del Muro» è un
evento - simbolo, sia nel senso della
periodizzazione, in quanto assunto come spartiacque della storia contemporanea
e apice di una complessa evoluzione storico-sociale compendiata nel cosiddetto secolo breve (E. Hobsbawm), sia nel senso della
concentrazione evenemenziale, vale a dire per la particolare accumulazione di
eventi che in quella congerie si è determinata. Dapprima
l’affermazione del primo sindacato non-classista (Solidarnosc), poi l’esperienza delle prime elezioni pluri-partitiche
in Polonia, quindi la modificazione del regime dei visti tra Ungheria e Austria, la messa in discussione dell’art. 6 della Costituzione Sovietica e il cambio di paradigma portato dall’abrogazione del
principio-guida del Partito quale forza motrice del processo rivoluzionario, forza
suprema della società e dello stato socialista, e la conseguente ri-definizione
istituzionale che toccò all’URSS con i progetti di trasformazione dell’Unione
in repubblica presidenziale a base federale, di cui alla successiva proposta di
regolamentazione legata ad un, appositamente denominato, «Trattato sullo Stato dell’Unione»; infine, l’apertura del valico di frontiera a
Berlino, la frattura, anche simbolica, del Muro, la fuoriuscita dal Patto di Varsavia e la fine dell’esperienza multi-statuale
prima del COMECON, quindi dell’URSS (CSI, 1992).
Tutto
questo indica con chiarezza, in primo luogo, che il processo storico della «caduta del Muro» veniva
da lontano e datava dalla fine degli anni Settanta, quando per la prima volta erano assurte all’attenzione
pubblica le contraddizioni del sistema della pianificazione e della regolazione
socialista dello Stato e dell’economia sovietica, a cavallo tra l’introduzione
del calcolo economico per le unioni industriali del 1973 e la legge sui collettivi
di lavoro del 1983; in secondo luogo, che tale processo aveva le sue radici in
profonde motivazioni di ordine politico e, prima ancora, strutturale, venendo
quindi a configurarsi la «caduta del Muro» come il
venir meno di un’esperienza storico-sociale e l’implosione causata, tra
l’altro, dai limiti nella dinamizzazione strategica dell’apparato economico,
sociale e statuale sovietico (molto più nella sfera economica e sociale che non
nell’ordine politico e istituzionale, come la stessa vicenda cinese avrebbe
dimostrato, a partire dalla svolta successiva ai fatti di piazza Tien’an Men
della primavera dell’89; ancora, dunque, l’anno fatale 1989).
Ciò,
portando l’analisi alle sue ulteriori conseguenze, comporta evidentemente, in
linea di principio ed in punta di fatto, due implicazioni: la prima, che un
intero processo storico e sociale retro-agisce e condiziona i fatti e le
circostanze della fine dell’esperienza storica del socialismo sovietico; la
seconda, che non solo tale esito non poteva e non può essere considerato “inevitabile”,
in ragione dell’intrinseca natura materialistica e dialettica della sua stessa
evoluzione, ma soprattutto non esaurisce il campo delle possibilità di sviluppo
di rapporti sociali socialisti e di formazioni economico-sociali socialistiche,
come, anche in questo caso, le esperienze
storiche recenti, latino-americane, a partire da Cuba, e la vicenda cinese
stanno a dimostrare.
Settima questione: «conseguenze ed eredità», vale a dire «da che parte
è caduto il Muro», sia nel senso degli esiti che ha determinato, sia
nel senso della ri-definizione dei rapporti capitalistici di produzione su
scala mondiale. Il dibattito sull’eredità storica del socialismo reale e le
discussioni sulle conseguenze storico-sociali che la fine di quelle società di
transizione ha prodotto, possono essere messi a fuoco almeno lungo due ordini
di problemi. Il primo, la ri-definizione dei rapporti di forza e delle
categorie di analisi della realtà capitalistica, che sempre più viene spinta
dai circuiti dominanti nella direzione della progressiva unificazione del «dominio
capitalistico» e della parallelamente progressiva acquisizione dei «centri di
egemonia» (potenzialmente o relativamente) autonomi nella sfera del controllo e
del comando capitalistico su scala mondiale. Peraltro, nella fase attuale, la
pulsione dell’unificazione del comando capitalistico e la strategia del caos
diffuso per fuoriuscire dalla crisi muovono di pari passo. Il caso della Cina è
certo il più pertinente.
Si
pone, dunque, un problema di analisi di fase e di categorie
dell’interpretazione: sostenere la tesi della competizione inter-imperialistica mondiale (mondializzazione capitalistica
e imperialistica),
problematizzando o superando la categoria
della “globalizzazione”, e riaffermare
l’inchiesta di classe, la centralità dei rapporti di classe ed un’idea della
ricomposizione, su base di classe, del blocco storico-sociale antagonista
quando ancora si sente parlare di “società civile” o, peggio, di “fine del
lavoro salariato” e di “fine del conflitto capitale-lavoro”, costituisce
certamente una premessa politica importante. Queste tesi vengono oggi riprese e
discusse, condivise o sfidate, ma sono almeno emerse dalla coltre di oblio in
cui pure erano state relegate.
Il
secondo corno della questione è rappresentato dalle nuove esperienze storiche
“di transizione”, vale a dire quel tessuto ampio di sperimentazioni sociali,
politiche ed istituzionali che si stanno cimentando nell’ipotesi di costruzione
di società di transizione, su base socialista, non ad ispirazione sovietica,
vale a dire nel cosiddetto «socialismo del XXI secolo», emergente in America Latina, in più punti nel Sud e
nell’Est del pianeta, con echi e rimandi anche nell’Occidente capitalistico (Beyond GNP Commission, OCSE). Si tratta di una prospettiva di cruciale
importanza: rimette a tema l’orizzonte del
socialismo e riafferma il compito storico di fuoriuscire dal
dominio di classe per traguardare una dimensione di libertà e di giustizia, di
liberazione di massa. In tal senso, la «questione
del potere» riprende centralità: solo la diretta associazione
delle masse popolari, a partire dal moderno proletariato organizzato, al potere
e il rovesciamento dei rapporti capitalistici di produzione, con il superamento
della proprietà privata dei mezzi fondamentali di produzione e la transizione
alla proprietà sociale, statale e cooperativa, degli strumenti produttivi, può
attivare tale dinamica, innescata dalla conquista dei fortini e delle casematte
che la battaglia delle idee ed il lavoro per l’egemonia concorrono a
determinare, alimentata dall’ampliamento degli spazi della democrazia materiale
e sostanziale.
Come
recentemente Serge Halimi e Pierre Rimbert hanno ricordato, intanto, «la
ricomposizione politica è iniziata: trent’anni dopo la caduta del muro di
Berlino, il capitalismo di stato cinese estende la propria influenza;
l’«economia socialista di mercato», che conta sulla prosperità di una classe
media in ascesa, lega il proprio futuro alla continua mondializzazione degli
scambi, che fa a pezzi l’industria manifatturiera della maggior parte degli
Stati occidentali, compresa quella statunitense, che Donald Trump, fin dal suo
primo discorso ufficiale, ha promesso di «salvare dal massacro»; quindi, «la
crisi, oltre a smentire il discorso dominante su globalizzazione e democrazia,
ha messo in discussione anche gli assunti circa il ruolo economico dei poteri
pubblici. Tutto è possibile, ma non per tutti: raramente una dimostrazione di
questo principio è stata offerta con tanta chiarezza quanto nell’ultimo
decennio. Creazione monetaria frenetica, nazionalizzazioni, azione
discrezionale degli eletti e delle elette ai poteri pubblici: per salvare,
senza contro-partita, gli istituti bancari,
dai quali dipendeva la sopravvivenza del sistema, furono attuate, senza battere
ciglio, una quantità di operazioni considerate impossibili e
impensabili. Un interventismo massiccio che ha rivelato uno Stato forte, capace
di mobilitare la sua potenza in un campo dal quale sembrava essere stato estromesso.
Ma il principale obiettivo di questo Stato forte sembrava essere la garanzia di
un quadro stabile al capitale».
Se,
per un verso, la vulgata della «unificazione moltitudinaria» e della estinzione dello Stato-nazione viene
clamorosamente smentita proprio dalla dinamica e dagli esiti della crisi
capitalistica, per un altro, una nuova direzione politica e una rinnovata
soggettività di classe sono necessarie per appropriarsi e trascendere gli strumenti della trasformazione e
dell’edificazione, in senso socialista, dell’economia, della società e dello
Stato.
Il «socialismo del XXI
secolo» enuclea, all’interno della
categoria che lo designa, anche un’ipotesi di fuoriuscita dalla sconfitta
storica. La stagione che porta alla «caduta del Muro» era stata
segnata dal «sogno della cosa»,
l’illusione della perestrojka, la «riforma del socialismo»
ed il vagheggiamento di una nuova antropologia per un «uomo nuovo», che
fosse meno sovietico e più socialista, anzi, come si diceva: socialista democratico
o «dal volto umano». Quella
opzione, che introduceva una quantità di variabili esterne al sistema, è finita
con l’implosione del sistema stesso, il fallimento di quelle speranze, in
definitiva, l’ondata neo-liberista. Col riflusso è arrivato il Washington Consensus che, se millantava
la sparizione del conflitto di classe, non poteva tuttavia azzerare un
antagonismo capace di delineare nuove frontiere di conflittualità: da una
parte, il trionfo del «pensiero unico»
neo-liberale, dall’altra, di conseguenza, una pluridecennale trincea anti-liberista
che l’esperienza del Chiapas, la insurgencia
zapatista dell’EZLN (1994), interrompeva, ri-collocando, sul palcoscenico
della storia, le rivendicazioni delle masse popolari dei Sud del mondo. Da quel
segnale è partita una nuova movimentazione internazionale, di classi e popoli
in lotta, che hanno ridiscusso l’egemonia dominante; sull’onda di quella ispirazione
anti-imperialista e della fine dell’egemonia unipolare degli Stati Uniti, con
l’emergere di nuovi competitori strategici, a partire, ancora una volta, dalla
Cina, si sono prodotte trasformazioni sostanziali
che parlano di approdi anti-capitalistici, ancora una volta a partire dal
Subcontinente.
Altre
esperienze, peraltro, sono in corso di sviluppo: si tratta di ipotesi di
transizione recenti ed originali nella loro concezione e nella loro ascendenza.
Un popolo, dignitoso, grande ed eroico,
si è rimesso in marcia, il popolo del Venezuela Bolivariano: sono questi i termini
con i quali si è rivolto alle masse, in occasione della Concentrazione
Antimperialista Bolivariana (2 Giugno 2008) a Caracas, Hugo Chavez, rilanciando
così la questione della transizione socialista. In America Latina, il movimento
popolare ha dato prova della sua capacità di innovazione e di tenuta, a partire
dalla sua connotazione sociale e, in senso più generale, di classe: «Intendiamo
per popolo, quando parliamo di lotta, la grande massa irredenta, quella a cui
tutti offrono e quella che tutti ingannano e tradiscono, quella che anela una
patria migliore, più degna, più giusta [...]».
Nella celebre autodifesa, La storia mi assolverà (1953), Fidel
Castro ricorda al mondo che «Noi chiamiamo popolo, se di lotta si tratta, i … cubani
che stanno senza lavoro desiderosi di guadagnarsi il pane con onore, senza dover
emigrare dalla propria patria in cerca di sostentamento; … gli operai
stagionali della campagna che abitano in baracche miserabili, che lavorano
quattro mesi e soffrono la fame per il resto dell’anno; … gli operai
industriali e braccianti … la cui vita è il lavoro perenne e il cui riposo è la
tomba; i … piccoli agricoltori, che vivono e muoiono lavorando una terra che
non è loro, contemplandola sempre, tristemente, come Mosè alla terra promessa; …
i maestri e professori tanto pieni di abnegazione, di sacrifici, necessari al
destino migliore delle future generazioni e che tanto male li si tratta e li si
paga; … Questo è il popolo! Quello che soffre tutte le sue disgrazie ed è pertanto
capace di combattere con tutto il suo coraggio! A questo popolo, il cui cammino
di angustia è lastricato di inganni e false promesse, non andavamo a dire: Ti daremo ma semmai: Ecco, prendi, lotta con tutte le
tue forze perché siano tue la libertà e la felicità!». Si tratta di una transizione innovativa, che si
compone di una grammatica suggestiva, la sua rilevanza consistendo in un
progetto rinnovato di edificazione di una nuova
umanità, attraverso l’educazione diffusa, l’adesione delle masse al
processo di trasformazione e l’individuazione di nuove modalità di
partecipazione popolare.
La stessa prospettiva bolivariana, che rappresenta, con l’esperienza socialista di Cuba, l’opzione più promettente nel
Subcontinente, è impegnata nella
costruzione di «un nuovo blocco storico» a
partire da quello che è stato definito il programma dei «cinque motori», vale a
dire 1) la riforma costituzionale, 2) la legge abilitante, 3) la questione
morale, 4) la nuova «geometria del potere», 5)
l’espansione del potere comunale, nonché la socializzazione della produzione
con il programma delle «fabbriche socialiste»
e, non ultimo per importanza, la nascita del PSUV (il Partito Socialista Unito
del Venezuela), di cui il movimento progressista
bolivariano si è dotato proprio per consolidare l’unità di massa ed accelerare
il processo di trasformazione sociale.
È
all’interno di questo disegno che si sta costruendo una ulteriore tappa di quel
processo decennale che dovrà portare al «salto di
qualità» auspicato. Per l’importanza storica del programma per
il «socialismo del XXI secolo», è opportuno entrare nel merito di questa innovativa
ipotesi di transizione, in quanto si compone di istanze variamente articolate: anzitutto,
mediante i «cinque motori», la
trasformazione istituzionale e la associazione delle masse al potere; quindi, il programma di socializzazione dell’economia,
con la settimana lavorativa di 30 ore, quale possibilità di dedicare 6 ore
della propria giornata ad ogni esigenza di una vita degna (lavoro, studio,
riposo e divertimento), per guadagnare un’esistenza più solidale e un’umanità più
alta; poi, il programma di recupero della sovranità economica, con la
riconquista al potere statale delle risorse produttive fondamentali e la
fuori-uscita dal diktat del Fondo
Monetario Internazionale, entro cui si inscrive la proposta dell’ALBA (la Alternativa
Bolivariana per le Americhe) attraverso cui garantire credito allo sviluppo dei
Paesi emergenti, sempre meno disponibili al ricatto delle centrali
dell’imperialismo finanziario (come hanno, peraltro, dimostrato le rivolte alle
istituzioni di Bretton Woods in Paesi quali il Sudafrica, l’Indonesia e le Filippine). Il «socialismo del XXI secolo», dunque, nell’esperienza latino-americana, può rappresentare un’opzione di apertura
di una stagione rivoluzionaria adeguata al presente e proiettata al futuro:
citando Rafael Correa, socialismo è la «supremazia
delle esigenze del lavoro sui bisogni della accumulazione, necessità dell’azione
dello Stato e benessere delle masse, cioè, anche, vivere in armonia con la
natura».
È
significativo il fatto che, proprio nel 2019 che segna la ricorrenza dei
trent’anni della «caduta del Muro di Berlino», Cuba si è dotata di una nuova, aggiornata,
costituzione socialista. Proprio nell’anniversario della nascita di Fidel
Castro, tra le figure più rilevanti nella storia del XX secolo, è stato inaugurato,
il 13 agosto 2018, il processo costituzionale per l’adozione di una nuova costituzione
socialista, adeguata alle sfide del presente. La nuova costituzione conferma, a
sua volta, il tratto socialista del sistema cubano, innescando il ruolo
centrale del partito comunista ed attivando la più ampia partecipazione
popolare. L’art. 5 dell’articolato del
progetto di nuova costituzione cubana, infatti, dichiara il partito comunista,
«martiano, fidelista e marxista-leninista, avanguardia organizzata della
nazione cubana, ...forza dirigente suprema della società e dello Stato».
Vi è qui una base marxista: istituire una cornice
giuridica generale (la configurazione sovrastrutturale) al quadro economico e
sociale rinnovato dal contesto di interventi (il quadro strutturale) che il
socialismo a Cuba ha sperimentato nel corso degli ultimi vent’anni. Vi è, in
generale, un quadro complessivo di diritti, teso a consolidare una prospettiva
di «tutti i diritti umani per tutti», cioè di unitarietà e di indivisibilità
dei diritti umani, sia i diritti civili e politici, sia i diritti materiali e
culturali. Nel nuovo progetto costituzionale, infatti, la proposta di art. 1 definisce
Cuba uno «stato socialista di diritto, democratico, indipendente e sovrano,
organizzato con tutti e per il bene di tutti»; l’art. 3 conferma che «il socialismo e il sistema politico e sociale
rivoluzionario, stabiliti nella costituzione,
sono irrevocabili»; mentre l’art. 27, richiamando la pianificazione socialista,
ricorda che «lo stato dirige, regola e controlla l’attività economica
nazionale». La stessa disposizione conclusiva (art. 224) riafferma che «non è
possibile sottoporre a revisione i principi riguardanti l’irrevocabilità del
socialismo e il sistema politico e sociale così come stabiliti dall’art. 3».
Vi è poi la ridefinizione dell’assetto politico e
istituzionale: delineando il profilo di uno stato socialista a modello
parlamentare basato sul potere popolare,
il progetto costituzionale distingue la figura del Presidente della Repubblica
da quella del Presidente del Consiglio (Primo
Ministro); il Presidente della
Repubblica è eletto dall’Assemblea Nazionale (art. 121) su mandato di cinque anni
rinnovabile una volta sola; il Presidente del Consiglio è altresì designato
dall’Assemblea Nazionale su proposta del Presidente della Repubblica (art.
136); l’Assemblea Nazionale, a sua volta, resta «l’unico organo dotato di
potere costituente e legislativo» a Cuba (art. 98), consolidando inoltre il
ruolo non solo dell’Assemblea, ma anche di tutti gli altri strumenti
assembleari organizzati, nei quali si forma, si sviluppa e si esprime la
volontà popolare.
Vi è infine la ridefinizione dell’assetto economico e
sociale: Cuba conferma il carattere socialista del proprio esperimento; propone
di sviluppare, approfondire ed attualizzare il sistema socialista; articola, in
definitiva, un aggiornamento del socialismo di fronte alle grandi sfide del
mondo multipolare e della contraddizione inter-imperialistica per il XXI
secolo. Ribadisce (art. 20) «la proprietà socialista di tutto il popolo sui
mezzi fondamentali di produzione come forma principale di proprietà». Conferma
il carattere pubblico e statale di tutti i comparti strategici o fondamentali
dell’economia (suolo e sottosuolo, risorse energetiche e naturali, vie e
infrastrutture di comunicazione); riconosce il ruolo del mercato e limita la
proprietà privata ai settori minuti, vietando espressamente (art. 22) «la
concentrazione della proprietà in persone fisiche o giuridiche non statali,
onde garantire i principi socialisti di eguaglianza e di giustizia sociale». Dichiara infine (art. 26) «l’impresa statale socialista il soggetto principale dell’economia nazionale».
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Anche da queste innovazioni
scaturisce l’attualità del socialismo, un socialismo all’altezza delle sfide del presente. Indipendenza,
dignità e progresso costituiscono le parole-chiave di questo orizzonte e
definiscono allora una griglia irrinunciabile, anche per le sinistre di classe
ed il movimento rivoluzionario, nel “nostro” Occidente.
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