mercoledì 26 giugno 2019

Dimitris Christofias: Dhikomo, 29 agosto 1946 - Nicosia, 21 giugno 2019

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«Per il suo grande contributo allo sviluppo delle relazioni russo-cipriote»; «per il contributo di rilievo allo sviluppo delle relazioni bilaterali cipro-ucraine»; «per i meriti nello sviluppo e nel rafforzamento della cooperazione pacifica e delle relazioni amichevoli tra la Serbia e Cipro»: così recitano le motivazioni di alcuni tra i più prestigiosi riconoscimenti conferiti a Dimitris Christofias, storico segretario generale di AKEL e leader del movimento progressista cipriota, motivazioni che ne delineano, sin da questi brevi cenni, la figura di un leader politico di primaria importanza e di convinto sostenitore dell’internazionalismo marxista. A questi cenni si potrebbero aggiungere non solo le onorificenze, tra le quali, tuttavia, prestigiosissime restano l’Ordine di José Martì, di Cuba, e la Medaglia di Puškin, della Russia, ma anche le lauree honoris causa conferitegli per gli indiscutibili meriti nel campo politico e internazionale, tra cui assai significative quelle dell’Università di Macedonia (2004), dell’Istituto Statale di Relazioni Internazionali di Mosca (2008) e dell’Università di Patrasso (2010). 

Del resto la solidità delle convinzioni internazionaliste di questo leader storico del movimento operaio seppe sempre coniugarsi con sincero rigore marxista ed efficace concretezza politica, anche e soprattutto quando ebbe a ricoprire cariche di primo piano nella politica nazionale del suo Paese. In un’occasione, ebbe a definire la fine dell’esperienza storica del socialismo reale (il cosiddetto crollo dell’URSS) come un «crimine contro l’umanità». Nella fase in cui tenne la presidenza del proprio Paese, si impegnò in una politica estera equilibrata, improntata, come da tradizione dell’AKEL e del movimento comunista internazionale, a favore della pace e del multilateralismo e, ad esempio, in relazione ai suoi rapporti con l’Unione Europea, se da un lato si impegnò a mantenere il suo Paese nell’area dei Paesi membri dell’UE, dall’altro rifiutò sempre un ingresso non ordinato nella moneta unica, sostenendo, ancora nel 2008, che solo a debite condizioni si sarebbe potuto concretizzare l’“ancoraggio” di Cipro all’Euro. Ma il mondo è molto più grande della pur importante UE e del pur turbolento Mediterraneo, e Christofias non ha mai avuto dubbi, ad esempio, nel criticare l’unilateralismo e l’ingerentismo degli Stati Uniti, di lottare per la fine della militarizzazione dell’isola e la definitiva chiusura delle basi britanniche, ad Akrotiri e Dhekelia, sull’isola, e nel sostenere rapporti fraterni e solidali con gli amici tradizionali del suo Paese, a partire, tra gli altri, dalla Russia. 

D’altra parte, AKEL è un partito singolare, un partito patriottico e progressista, con una solida base di massa, erede di una delle tradizioni migliori del marxismo-leninismo e della storia del movimento operaio e comunista; aveva e ha buoni rapporti con le forze democratiche e progressiste della parte turca e per questo, l’AKEL e Christofias furono protagonisti del rilancio di dialoghi e confronti tra la parte greco-cipriota e la parte turco-cipriota per realizzare uno degli obiettivi strategici delle forze democratiche dell’isola, vale a dire l’unificazione e il traguardo della cosiddetta federazione bi-zonale e bi-comunale, a Cipro. Proprio sulla annosa, tuttora aperta, questione dell’unificazione cipriota o, come spesso si dice, della soluzione dell’antica “controversia cipriota”, una delle più dolorose e durature del Mediterraneo, erede degli scontri bi-comunali del 1963 e della invasione turca e la susseguente occupazione del 1974, Christofias ha assunto alcune delle sue posizioni più note: si oppose, ad esempio, al cosiddetto Piano Annan, il Piano delle Nazioni Unite del 2003, sottoposto a referendum nel 2004, orientato ad una riunificazione dell’isola: il no prevalse nella parte greca con il 75% (viceversa il si aveva vinto nella parte turca con il 65%) e Christofias si espresse per un piano più avanzato e per maggiori garanzie internazionali, sostenendo, ad esempio, che «a essere garanti fossero il Consiglio di Sicurezza dell’ONU e l’Unione Europea, perché in una questione così complessa non contano tanto le dichiarazione d’intenti quanto la certezza che ciò che è firmato sia applicato a tutti gli effetti» (Ninni Radicini). 

Proprio la “divergenza di vedute” in ordine alla prosecuzione dei negoziati con la parte turco-cipriota  furono all’origine del dissidio con il precedente presidente cipriota, Tassos Papadopoulos: ritirò il suo appoggio al presidente nel 2007, si candidò alle successive elezioni presidenziali e venne eletto presidente della Repubblica di Cipro nel 2008, così entrando nella storia: la sua candidatura, sostenuta da AKEL, ebbe il 32% dei voti al primo turno e, con il supporto del DIKO, il partito democratico di centro, superò il 52% delle preferenze al secondo turno, consentendo a Christofias di entrare nella storia, diventando il primo capo di stato comunista in un Paese Membro dell’Unione Europea. Fu presidente di Cipro negli anni della più dura crisi del capitalismo mondiale dal secondo dopoguerra, tra il 2008 ed il 2013; una crisi che affrontò mantenendo sempre l’attenzione ai diritti e alle condizioni materiali di esistenza dei lavoratori e delle classi popolari del suo Paese, pur non potendo, evidentemente, impedire la crisi bancaria e la crisi finanziaria che pure ebbero effetti sull’isola. Non a caso, venne considerato dagli economisti neo-liberali uno dei maggiori responsabili della crisi cipriota, per avere commesso, secondo costoro, due errori principali, «gli aumenti di spese e diritti (soprattutto pensioni), e la scarsa austerità» (Athanasios Orphanides, ex governatore della Banca Centrale di Cipro). 

La notizia della sua morte, avvenuta a Nicosia, capitale di Cipro, il 21 giugno scorso, ci lascia sgomenti e segna una perdita grave per l’intero movimento comunista internazionale: la perdita di un leader storico, iscritto al Partito dal 1964, membro del Comitato Centrale dal 1982 e segretario generale per venti anni, dal 1988 al 2009. Ci lascia, come scrive, in una nota, il Partito della Rifondazione Comunista, «un uomo della classe operaia, un internazionalista, un comunista che ha sempre difeso l’idea di un percorso diverso per l’umanità, sull’uguaglianza e la giustizia sociale, la pace e la democrazia». 

venerdì 7 giugno 2019

Una sinistra che vince: un nuovo vento del Nord?


Marleen Zachte, Election Poster Sweden Social Democrats, 1940's/1950's
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Difficile pensare possa trattarsi di “modelli da seguire”, ma impossibile, in senso politico, non prendere in considerazione l’unico caso diffuso, su scala regionale, in ambito europeo, di una sinistra vincente, capace non solo, come si richiama anche da noi, di «fermare l’onda nera» ma, soprattutto, di offrire una alternativa vincente, di conquistare un consenso ampio, di conseguire maggioranze parlamentari e nuovi esecutivi. È il caso della Scandinavia, in particolare di Svezia, Finlandia e Danimarca, luoghi d’elezione di quel singolare e rilevantissimo “esperimento storico-politico” che è stato alla base delle fortune delle socialdemocrazie scandinave e che oggi torna a essere “laboratorio politico” di rilievo, dove vecchio (non sempre da rottamare) e nuovo (non sempre da imitare), si uniscono e si impastano. 

Ovviamente, come sempre, diversa è la fase, diverse sono le condizioni sociali e i contenuti politici della proposta della sinistra nel Nord Europeo: se negli anni Settanta e Ottanta l’ancoraggio più solido era ad un sistema statale universale, solido e capillare, di protezione sociale (non solo in termini di tutela dei lavoratori e delle lavoratrici, della sanità, dell’istruzione e della formazione, ma anche di protezione della famiglia e della infanzia, di un esteso e sistematico welfare state, capace di interpretare nella maniera più conseguente il cosiddetto «compromesso socialdemocratico» nel quadro delle compatibilità capitalistiche); oggi, alle soglie del terzo decennio del terzo millennio, il riferimento vincente che queste sinistre sembrano offrire è quello alle tutele sociali delle fasce più deboli, marginali e periferiche della popolazione (con quanto ciò implica in termini di soddisfacimento dei bisogni materiali e di tutela del reddito e del welfare, ma anche in termini di protezione dalle ansie e dalle paure che la globalizzazione capitalistica ha moltiplicato e radicalizzato in questi ultimi due decenni, fornendo nuovi argomenti e parole incendiarie ai leader populisti, nazionalisti e reazionari, da un capo all’altro del continente, anche in questo caso interpretando, mutatis mutandis, un inedito tentativo di «compromesso socialdemocratico»). 

L’ultima indicazione in tal senso giunge dalla Danimarca: non più di sei milioni di abitanti, un tasso di incremento demografico non superiore all’1%, una delle più avanzate “economie verdi” nel contesto dei Paesi a capitalismo maturo e, al tempo stesso, un Indice di Sviluppo Umano tra i più alti del mondo (0,929), un tasso di crescita economica superiore al 2%, una disoccupazione sotto al 5%. Qui sono i socialdemocratici a vincere le elezioni politiche del 5 giugno (26%), mentre i conservatori liberali (già al governo) si sono fermati al 23% e i populisti radicali, di estrema destra, raccolti nel Partito del Popolo Danese, non superano il 9%. La vittoria socialdemocratica è significativa proprio per questo: connotata a sinistra nel suo programma economico, orientata a destra nella sua piattaforma migratoria, da una parte investimenti pubblici per sostenere l’economia e il lavoro (1.2 miliardi di euro l´anno), incremento di 50 euro per le pensioni minime (630 euro), sostegno alla istruzione pubblica e alla ricerca scientifica, aumento delle tasse su alcol e tabacco, reintroduzione dello svedese, lingua di minoranza, come materia scolastica obbligatoria, e, dall’altra, la conferma di una politica dura contro i migranti, con la riduzione dell’asilo politico, il controllo securitario, il contenimento dell’immigrazione, addirittura «un tetto all’immigrazione non occidentale». 

Al di là del ponte, la Svezia, dove alle ultime elezioni politiche (9 settembre 2018) i socialdemocratici superano il 28%, i liberali conservatori non superano il 20% e l’estrema destra dei Democratici Svedesi si ferma intorno al 17%: anche qui un nuovo governo di sinistra, di minoranza, che attesta un orientamento a sinistra sui temi economici e sociali ma più orientato a destra sul tema delle politiche migratorie. Non diversamente dalla Finlandia. Nelle elezioni politiche dello scorso 14 aprile, i socialdemocratici vincono, sebbene di misura, sulla destra radicale dei “Veri Finlandesi”, il governo di coalizione formato da partito socialdemocratico, partito di centro, verdi, sinistra e partito popolare svedese della Finlandia entra in carica il 6 giugno e l’asse della politica finlandese raggiunge un nuovo equilibrio, del tutto analogo a quello dei vicini scandinavi. Anche qui, stiamo parlando di una tipica democrazia nordica: meno di sei milioni di abitanti, un tasso di incremento demografico intorno allo 0.3, un indice di sviluppo umano molto elevato (0,895), un sistema di protezione sanitaria tra i più avanzati al mondo, un tasso di crescita economica intorno al 2% e un tasso di disoccupazione inferiore al 7%. Rafforzamento del welfare, contenimento dell’immigrazione e attenzione all’ambiente sono, anche qui, proposte-chiave nell’agenda di governo: aumento delle pensioni di 100 euro al mese per far uscire dalla povertà 55 mila persone, aumento delle tasse per sostenere la spesa pubblica, investimenti per il sistema sociale e per la protezione dell’ambiente. 

Una sinistra, che torna consapevole della centralità dei diritti sociali, che mostra un volto preoccupante sull’accoglienza dello straniero, e che interroga forse anche noi, nel Sud dell’Europa?