venerdì 7 giugno 2019

Una sinistra che vince: un nuovo vento del Nord?


Marleen Zachte, Election Poster Sweden Social Democrats, 1940's/1950's
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Difficile pensare possa trattarsi di “modelli da seguire”, ma impossibile, in senso politico, non prendere in considerazione l’unico caso diffuso, su scala regionale, in ambito europeo, di una sinistra vincente, capace non solo, come si richiama anche da noi, di «fermare l’onda nera» ma, soprattutto, di offrire una alternativa vincente, di conquistare un consenso ampio, di conseguire maggioranze parlamentari e nuovi esecutivi. È il caso della Scandinavia, in particolare di Svezia, Finlandia e Danimarca, luoghi d’elezione di quel singolare e rilevantissimo “esperimento storico-politico” che è stato alla base delle fortune delle socialdemocrazie scandinave e che oggi torna a essere “laboratorio politico” di rilievo, dove vecchio (non sempre da rottamare) e nuovo (non sempre da imitare), si uniscono e si impastano. 

Ovviamente, come sempre, diversa è la fase, diverse sono le condizioni sociali e i contenuti politici della proposta della sinistra nel Nord Europeo: se negli anni Settanta e Ottanta l’ancoraggio più solido era ad un sistema statale universale, solido e capillare, di protezione sociale (non solo in termini di tutela dei lavoratori e delle lavoratrici, della sanità, dell’istruzione e della formazione, ma anche di protezione della famiglia e della infanzia, di un esteso e sistematico welfare state, capace di interpretare nella maniera più conseguente il cosiddetto «compromesso socialdemocratico» nel quadro delle compatibilità capitalistiche); oggi, alle soglie del terzo decennio del terzo millennio, il riferimento vincente che queste sinistre sembrano offrire è quello alle tutele sociali delle fasce più deboli, marginali e periferiche della popolazione (con quanto ciò implica in termini di soddisfacimento dei bisogni materiali e di tutela del reddito e del welfare, ma anche in termini di protezione dalle ansie e dalle paure che la globalizzazione capitalistica ha moltiplicato e radicalizzato in questi ultimi due decenni, fornendo nuovi argomenti e parole incendiarie ai leader populisti, nazionalisti e reazionari, da un capo all’altro del continente, anche in questo caso interpretando, mutatis mutandis, un inedito tentativo di «compromesso socialdemocratico»). 

L’ultima indicazione in tal senso giunge dalla Danimarca: non più di sei milioni di abitanti, un tasso di incremento demografico non superiore all’1%, una delle più avanzate “economie verdi” nel contesto dei Paesi a capitalismo maturo e, al tempo stesso, un Indice di Sviluppo Umano tra i più alti del mondo (0,929), un tasso di crescita economica superiore al 2%, una disoccupazione sotto al 5%. Qui sono i socialdemocratici a vincere le elezioni politiche del 5 giugno (26%), mentre i conservatori liberali (già al governo) si sono fermati al 23% e i populisti radicali, di estrema destra, raccolti nel Partito del Popolo Danese, non superano il 9%. La vittoria socialdemocratica è significativa proprio per questo: connotata a sinistra nel suo programma economico, orientata a destra nella sua piattaforma migratoria, da una parte investimenti pubblici per sostenere l’economia e il lavoro (1.2 miliardi di euro l´anno), incremento di 50 euro per le pensioni minime (630 euro), sostegno alla istruzione pubblica e alla ricerca scientifica, aumento delle tasse su alcol e tabacco, reintroduzione dello svedese, lingua di minoranza, come materia scolastica obbligatoria, e, dall’altra, la conferma di una politica dura contro i migranti, con la riduzione dell’asilo politico, il controllo securitario, il contenimento dell’immigrazione, addirittura «un tetto all’immigrazione non occidentale». 

Al di là del ponte, la Svezia, dove alle ultime elezioni politiche (9 settembre 2018) i socialdemocratici superano il 28%, i liberali conservatori non superano il 20% e l’estrema destra dei Democratici Svedesi si ferma intorno al 17%: anche qui un nuovo governo di sinistra, di minoranza, che attesta un orientamento a sinistra sui temi economici e sociali ma più orientato a destra sul tema delle politiche migratorie. Non diversamente dalla Finlandia. Nelle elezioni politiche dello scorso 14 aprile, i socialdemocratici vincono, sebbene di misura, sulla destra radicale dei “Veri Finlandesi”, il governo di coalizione formato da partito socialdemocratico, partito di centro, verdi, sinistra e partito popolare svedese della Finlandia entra in carica il 6 giugno e l’asse della politica finlandese raggiunge un nuovo equilibrio, del tutto analogo a quello dei vicini scandinavi. Anche qui, stiamo parlando di una tipica democrazia nordica: meno di sei milioni di abitanti, un tasso di incremento demografico intorno allo 0.3, un indice di sviluppo umano molto elevato (0,895), un sistema di protezione sanitaria tra i più avanzati al mondo, un tasso di crescita economica intorno al 2% e un tasso di disoccupazione inferiore al 7%. Rafforzamento del welfare, contenimento dell’immigrazione e attenzione all’ambiente sono, anche qui, proposte-chiave nell’agenda di governo: aumento delle pensioni di 100 euro al mese per far uscire dalla povertà 55 mila persone, aumento delle tasse per sostenere la spesa pubblica, investimenti per il sistema sociale e per la protezione dell’ambiente. 

Una sinistra, che torna consapevole della centralità dei diritti sociali, che mostra un volto preoccupante sull’accoglienza dello straniero, e che interroga forse anche noi, nel Sud dell’Europa?

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