mercoledì 20 gennaio 2021

Nel centenario del Partito Comunista d’Italia

Fabior1984, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons


L’occasione del centenario, la ricorrenza, quest’anno, dei cento anni dalla fondazione di quello che sarebbe diventato il PCI, il Partito Comunista Italiano, principale partito comunista del cosiddetto «campo occidentale», e che all’epoca, all’atto della sua fondazione, era il PCd’I, il Partito Comunista d’Italia, sezione italiana della III Internazionale, è stata ed è, al tempo stesso, l’occasione di un ampio e nutrito dibattito, che sta appassionando una vera e propria schiera di osservatori e analisi, editorialisti e dirigenti politici, intellettuali e militanti. 
 
È un sano dibattito, purché se ne riesca a ricostruire il filo, a individuare il bandolo della matassa, e, con esso, le diverse motivazioni e inclinazioni che animano interpretazioni e letture le più varie e disparate, che oscillano tra le opposte polarità del compiacimento (spesso ideologico) celebrativo e della retorica (talvolta patetica) liquidatoria. Come condotta di metodo, da impostare in premessa, vale la pena fuggire da entrambe queste condotte, respingere entrambi questi atteggiamenti. 
 
Non ha molto senso, soprattutto in chiave politica ma anche in prospettiva memoriale, la retorica malinconica o nostalgica, vagamente passatista, il vagheggiamento di una esperienza politica, quella dell’allora PCd’I e quindi del PCI, nata in un contesto storico e politico (oltre che sull’onda di eventi internazionali di portata rivoluzionaria) assai differente, del tutto altro, rispetto al nostro presente e alla nostra attualità. 
 
Ha ancora meno senso la liquidazione posticcia e strumentale, il gioco infantile e infelice della ricostruzione a posteriori (talvolta pretestuosa, talaltra interessata) dei torti e delle ragioni, di questa o quella frazione alla quale la storia avrebbe finito per assegnare ragioni o torti, di chi avrebbe vinto o perso, come se storie e destini, vicende e tragedie, potessero essere trattate come un ozioso passatempo.
 
Ciò che invece pare avere più senso, nel tentativo di ripercorrere quel filo, è individuare i nessi e le connessioni, le rotture e le ambivalenze; in una parola, nella dinamica della continuità e del superamento, quella lunga stagione storica e politica che, letta attraverso le lenti della storia e della dialettica, può consentire, almeno, di fare emergere un prevalente, di enucleare dei contenuti vitali, di delineare un rapporto con il reale e una prefigurazione di avvenire che possono continuare a essere utili e stimolanti, come spesso si dice, «per l’oggi e per il domani». 
 
Il nesso tra storia (evoluzione delle vicende storiche e specificità della storia nazionale) e politica (formazione del blocco storico e sociale e costruzione dell’egemonia nella società) va messo in evidenza come nesso decisivo per leggere la vicenda del PCI e, nell’attualità, la riflessione e la pratica dei comunisti e delle comuniste nel nostro Paese. Nei diversi tornanti della storia, alle diverse curve delle proprie stagioni e nelle diverse declinazioni di linea che le direzioni che si sono succedute hanno di volta in volta interpretato, il PCI ha inteso rappresentare il tentativo di costruire e aggiornare un blocco storico (l’interrelazione dialettica tra forze materiali della produzione e formazioni culturali degli immaginari) e un blocco sociale (la composizione sociale artefice della produzione di valore e agita dalla estrazione di plusvalore), di essere il nucleo aggregatore del più vasto possibile schieramento di massa, di animare, prima, la liberazione e la ricostruzione, poi, l’avanzamento delle conquiste sociali e democratiche del Paese. 
 
Non l’unico soggetto che avesse a cuore, ora l’uno ora l’altro, di tali aspetti; ma, in ragione del presupposto marxista, l’unico che potesse intercettarli “complessivamente”, nella loro unità e nella loro relazione dialettiche. Come è stato detto, non solo una grande «scuola di politica», ma anche un «baluardo della democrazia» nel nostro Paese, nel momento in cui la costruzione repubblicana, il dettato costituzionale, l’espansione dei diritti sociali e l’avanzamento delle conquiste del lavoro diventavano la base di quella originale «via nazionale al socialismo» nella quale si declinava tanta parte della sua strategia.
 
Se dunque vitali sono stati quei contenuti, al netto delle innegabili crisi e sconfitte, non di meno attuali, nel rapporto con il reale e nella prefigurazione dell’avvenire, rimangono temi e problemi che quella lunga vicenda, appunto storica e politica, consegna alla nostra attualità, le grandi questioni globali, i problemi della pace e dello sviluppo, il dialogo con le realtà cristiane e le soggettività democratiche. Al fondo di quel nucleo rimangono le grandi costruzioni di senso (il marxismo, il leninismo, il pensiero di Gramsci, la visione di Togliatti) cui si deve, anche, non solo, attraverso i luoghi del PCI, il merito storico di avere trascritto nella storia nazionale la grande lezione del pensiero rivoluzionario, la «filosofia della prassi». 
 
Sulla soglia dell’attualità affiorano le grandi questioni, ancora tutte innanzi a noi, dell’emancipazione e della giustizia: la grande contraddizione ecosistemica; la critica radicale a un modello di sviluppo che tenta, nella stagione della crisi sanitaria e della crisi sociale, la sua ennesima, inedita, “ristrutturazione”; la moderna coniugazione di giustizia sociale e giustizia ambientale; la costruzione del moderno proletariato; il dialogo fecondo con le grandi «costruzioni di immaginario» del presente, e i movimenti che animano il panorama sociale, lavoratori e lavoratrici, giovani e donne, mobilitazioni per la pace e contro la guerra, per la difesa della terra e dell’ecosistema, per una nuova idea di comune e di universale. 

mercoledì 13 gennaio 2021

La complessità della vicenda sociale


La complessità della vicenda sociale, nella fase di crisi sanitaria e di crisi sociale che caratterizza il tempo presente, e la delicatezza della fase politica, in cui si addensano le contraddizioni degli equilibri politici e delle dinamiche pre-elettorali nelle grandi città del Paese, richiedono a tutti e tutte, e in particolare ai comunisti e alle comuniste, capacità di lettura e di iniziativa, un particolare esercizio di immaginazione creativa e di futuro.

Su una ampia varietà di questioni, che il tempo della crisi squaderna di fronte a noi, e che non sarà possibile affrontare con una analisi dettagliata se non, appunto, passandoli, pur non superficialmente, in rassegna.

Pandemia. Non è possibile affrontare i nodi del presente, senza puntare l’attenzione sull’evento-senso che maggiormente condiziona il vissuto delle persone, dei lavoratori e delle lavoratrici, e che più profondamente impatta sulle condizioni materiali di esistenza. Non tanto la pandemia in sé, quanto, specificamente, il governo della pandemia: l’insieme dei provvedimenti e delle misure assunte dalle autorità centrali e regionali per arginare la diffusione del contagio. 
 
Se è vero che non esiste, al netto delle raccomandazioni delle istituzioni multilaterali (OMS e Agenzie ONU), un «modello unico» di gestione della pandemia, e Paesi diversi hanno gestito, con maggiore o minore inclusività ed efficacia, in modo diverso la crisi sanitaria, è altrettanto vero che il nostro Paese ha scontato, su questo versante, un doppio fallimento: «di sistema», con le conseguenze delle politiche neo-liberiste, la privatizzazione e l’aziendalizzazione dei servizi, la catastrofe generata dall’irrazionale revisione costituzionale del Titolo V; e «di governo», con misure, soprattutto nella prima fase dell’emergenza, persino restrittive di diritti costituzionali, peraltro adottate con provvedimenti monocratici di natura amministrativa (i famosi DPCM), nonché di profondo impatto civile e sociale (dalle misure di coprifuoco al cosiddetto lockdown).

Lockdown. Sul cosiddetto lockdown, in senso generale, per il profondo impatto che determina sul tessuto democratico e le rilevanti conseguenze che produce anche sul piano strutturale, è necessario, per i comunisti e le comuniste, un “di più” di attenzione e di riflessione. Non vi può essere dubbio sulla centralità del diritto alla salute di tutti e di tutte; come pure dubbio non vi è sul fatto che i diritti umani, come è ampiamente assodato nella letteratura e nella prassi, sono, al tempo stesso, universali e indivisibili. «Tutti i diritti umani per tutti e per tutte»: non è né uno slogan propagandistico né tantomeno una frase scarlatta, bensì il nucleo stesso di ogni misura di tutela e di avanzamento dei diritti umani (civili e politici, economici e sociali, culturali ed ecosistemici). Non è praticamente possibile tutelare un diritto a scapito di un altro diritto o di altri diritti. 
 
È per questo che, se la parola d’ordine del «lockdown generalizzato» deve essere respinta dai comunisti e dalle comuniste, le misure di coprifuoco o di sospensione dei diritti e della stessa agibilità democratica devono essere contrastate; tali misure non solo possono concorrere a ulteriormente comprimere l’agibilità democratica ma hanno anche rafforzato i dispositivi militari già ampiamente e diffusamente presenti sui nostri territori, sino al punto di moltiplicare, addirittura, esposizione ed impegno dei militari in compiti e funzioni di natura, eminentemente e propriamente, civile. 
 
Per i comunisti e le comuniste, come è noto, lotta sociale e lotta democratica sono le due facce della medesima medaglia: non solo il ruolo del pubblico e dello Stato deve essere rafforzato ed esteso in tutti i comparti (a partire dalle produzioni fondamentali e dai servizi essenziali) ma, in particolare, tutte le funzioni e i servizi del welfare pubblico e universalistico devono essere arricchiti e potenziati (dal numero di posti letto e terapie intensive alla sanità territoriale e di prossimità; dal diritto allo studio alla riqualificazione delle strutture e dei servizi scolastici, contro i deficit di organico, le classi sovrannumerarie e una didattica digitale che esaspera disfunzionalità e sperequazioni; dal trasporto pubblico locale ai servizi sociali ed assistenziali).

Diritti. Per i comunisti e le comuniste, le questioni dei bisogni e dei diritti sono indisgiungibili; e, in questa fase, determinate misure di contenimento della pandemia stanno già avendo - e rischiano maggiormente di avere di qui alla prossima primavera - effetti socialmente catastrofici. Se, da un lato, è necessario battersi a fianco di tutti i lavoratori e le lavoratrici in lotta per la difesa del posto di lavoro, del salario, dei diritti (operai e operaie, lavoratori e lavoratrici dei comparti o delle aziende in crisi o in corso di dismissione o delocalizzazione; lavoratori e lavoratrici precari e precarie ad es. nei comparti dell’artigianato e dei servizi; lavoratori e lavoratrici saltuari ed intermittenti, ad es. delle arti, della cultura, dello spettacolo, del turismo, della ricettività); dall’altro è e resta strategico, a maggior ragione in questa fase, agire e lottare per un nuovo e diverso modello di sviluppo. In quella composizione sociale si manifesta - in nuce - la prefigurazione di un nuovo, odierno, proletariato. 
 
Non solo le crisi e le vertenze in corso, ma la stessa composizione del sistema produttivo riportano, oggi più che mai, in auge l’antica questione del cosa, come e per chi produrre: a maggior ragione in tempo di crisi sanitaria e di crisi sociale occorre ripercorrere l’orizzonte della programmazione democratica dell’economia, di un rinnovato e solido intervento pubblico, di una riconversione ecosistemica sottratta alle compatibilità capitalistiche.