mercoledì 14 ottobre 2020

Le ultime elezioni di “Vienna la Rossa”: tra socialismo ed ecologismo

bgabel, wikivoyage, CC BY SA 3.0 (creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)


Vienna. Grande città, grande capitale. Una capitale d’Europa, un nucleo di storia e di cultura, una città-mondo, per alcuni tratti, simbolo stesso d’Europa, di quella MittelEuropa che, con le sue movenze e le sue suggestioni, tanto ha influito e inciso sul clima e sulle tendenze culturali di una intera stagione a cavallo tra Ottocento e Novecento. Ma Vienna è anche una straordinaria capitale della contemporaneità: superato il mito leggendario, vagamente restauratore, della «Austria Felix», dismesse le spoglie della passata grandezza imperiale, Vienna è, nel Novecento, uno dei grandi baluardi europei di resistenza e di democrazia. Città ferita e divisa dalla guerra; città che ha animato una vibrante resistenza democratica e antifascista; città, ancora, protagonista di una impegnativa ricostruzione civile e democratica. 
 
Il 29 marzo 1945, le truppe sovietiche, al comando di Fëdor Tolbukhin, eroe dell’Unione Sovietica, varcavano il confine; quattro giorni dopo, il 3 aprile, aveva inizio l’offensiva di Vienna; ai sovietici si deve la definitiva liberazione della Città, e tra il 20 e il 27 aprile, Karl Renner fu incaricato di formare un governo provvisorio, cui seguì la dichiarazione di indipendenza dell’Austria dalla Germania, la proclamazione della volontà di istituire uno Stato democratico sulla falsariga della Prima Repubblica austriaca, l’insediamento ufficiale del suo Gabinetto. Di lì a due giorni, il 29 aprile 1945, Renner poteva annunciare la reintegrazione della Repubblica Democratica. Vienna torna centro di uno stato democratico, l’Austria acquisisce e mantiene uno status di neutralità, vengono indette le prime elezioni municipali del dopo-guerra. 
 
Come è stato da più parti ribadito, la neutralità austriaca non è solo un tratto distintivo della politica del Paese, è un carattere riconosciuto della stessa identità austriaca. Tra pochi giorni, il 26 ottobre, si celebrerà la festa nazionale con la quale sarà ricordata la dichiarazione di indipendenza e il ritiro delle truppe alleate, il 25 ottobre 1955. Come recita la Costituzione, infatti, «l’Austria fa propria la difesa nazionale universale. Il suo compito è preservare l’indipendenza del territorio federale, la sua inviolabilità e la sua unità, soprattutto per quanto riguarda la difesa della neutralità permanente. [...] La difesa nazionale universale comprende la difesa nazionale militare, intellettuale, civile ed economica. Ogni cittadino austriaco maschio è responsabile del servizio militare. Gli obiettori di coscienza che rifiutano l’adempimento del servizio militare obbligatorio e ne sono esonerati devono prestare un servizio alternativo». 
 
Quello stesso 1955, Vienna e l’Austria riassunsero pieno controllo sovrano del territorio, sulla base dell’ordinamento democratico, della neutralità e del non-allineamento; non diversamente da Berlino, anche Vienna era stata, sino a quel punto, organizzata in zone di controllo tra Unione Sovietica, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, mentre il distretto I (il centro della Città) era pattugliato congiuntamente. Alla fine del 1945 vi si erano tenute le prime elezioni municipali: su 100 seggi nel Consiglio, il Partito Socialdemocratico ne conquistò 58, il Partito Popolare 36 e i Comunisti 6. Vienna ha una solida e storica tradizione socialista democratica. E le ultime elezioni municipali e regionali l’hanno ancora una volta confermata: non solo nel segno della “continuità” storico-politica, ma anche all’insegna di alcune indicazioni, di “prospettiva”, utili anche per noi. 
 
Nelle elezioni recenti (11 ottobre) di Città e di regione, essendo Vienna un Land autonomo, proprio in virtù della sua grandezza e della sua storia, il Partito Socialdemocratico (SPÖ) ha ottenuto il 43% dei consensi (quattro punti in più rispetto alle precedenti elezioni svolte nel 2015); il Partito Popolare (ÖVP) raddoppia il consenso e si attesta intorno al 18%; i Verdi confermano la loro forza, espressione dei centri urbani e di segmenti istruiti della società austriaca (e non solo), con il 12%; mentre la destra radicale (FPÖ) non supera il 9% e i liberali (Neos) si fermano al 7%. Risultato in cui però continua a preoccupare il, sia pur ridimensionato, 4% del fronte “sovranista”, vale a dire dall’altra formazione della destra radicale della “Alleanza per l’Austria”. Nota negativa, il risultato della sinistra di alternativa (Links), fermo al 2%. 
 
Come aveva dichiarato in campagna elettorale la candidata Anna Svec, «Vienna “la Rossa” ci ha lasciato un’eredità migliore di quella di altre grandi città. Sono felice di questo. Ma chi si è battuto per quelle storiche conquiste, non ci chiede di essere riconoscenti: ci chiede di continuare a lottare». C’è, anche qui, come in altre tornate europee recenti, non ultime quelle di un’altra grande capitale, Zagabria, un’indicazione interessante anche per il resto dell’Europa, a maggior ragione, come Vienna, ma diversamente da Vienna, per le grandi città d’Europa: non solo difendere la storia e il patrimonio, di memoria politica e di insediamento sociale, delle formazioni di progresso, ma anche sapere continuamente cambiare e innovare, intercettando i bisogni cangianti e mutevoli di un corpo sociale sempre più articolato e complesso. 
 
Ma anche organizzare una proposta politica innovativa, al passo con i tempi, adeguata a interpretare l’esigenza della trasformazione di società e di sistema: una proposta Verde e Rossa (e Vienna è, storicamente, dal 1918, come ricordava Anna Svec, “Vienna la Rossa”), vale a dire una innovativa declinazione di socialismo ed ecologismo, una proposta di salvaguardia eco-sistemica e di difesa dell’ambiente, di giustizia sociale e di partecipazione democratica, in grado di dare una risposta adeguata alle grandi sfide e contraddizioni del tempo presente.

domenica 11 ottobre 2020

Mediata la prima tregua tra Armenia e Azerbaijan

Ліонкінг, Levonaget River in Shahumian District, Karabakh, CC BY SA 3.0, Wikimedia

 
Giunge oggi finalmente l’attesa notizia di una intesa sul fronte di conflitto tra Armenia e Azerbaijan per il Nagorno-Karabakh, ed è un successo per la diplomazia della Russia, oltre che un punto a favore delle speranze di pace, o per lo meno di cessazione delle ostilità, nella regione. Un risultato per nulla scontato, tant’è vero che l’intesa, dopo due settimane di pesanti combattimenti, in uno scenario condizionato da consistenti interessi esterni, giunge dopo dieci ore di trattative, a Mosca, tra i ministri degli esteri di Armenia, Azerbaijan e Russia.

Un’intesa a quattro gambe, perché, da quanto si apprende, quattro sono gli elementi intorno ai quali ruota la mediazione: lo scambio di prigionieri e la restituzione dei caduti, a partire dal 10 ottobre, sotto supervisione del Comitato Internazionale della Croce Rossa; l’avvio della definizione delle condizioni per un cessate il fuoco tra le parti; la ripresa di ruolo da parte del Gruppo di Minsk, in relazione al fatto che Armenia e Azerbaijan, sotto tale mediazione, saranno impegnati a esplorare più intensi e più fattivi negoziati ai fini della soluzione pacifica e negoziata della controversia; infine, importante soprattutto dal punto di vista della mediazione russa e della intensa partita diplomatica e strategica nella regione, la conferma del format del negoziato.

Il terreno predisposto dalla mediazione russa, dunque, prova a gettare le basi per una soluzione diplomatica: da una parte, indicando, nella piattaforma dell’intesa, alcuni tra i nodi retro-agenti la controversia; dall’altra, sottolineando il ruolo degli attori storicamente impegnati nel processo regionale, un’attenzione che richiama la durata e il carattere storico di questo classico esempio di «conflitto congelato». La controversia armeno-azera per il Nagorno-Karabakh è, infatti, una storica controversia, che affonda i suoi presupposti nella fine della Guerra Fredda e nel doloroso - e foriero di conflitti - processo di disarticolazione dell’Unione Sovietica.

L’Armenia e l’Azerbaijan, all’epoca repubbliche socialiste sovietiche, facevano parte dell’Unione Sovietica, sino, all’indomani degli eventi della seconda metà degli anni Ottanta, alle proclamazioni di indipendenza e alle separazioni nazionali/nazionalistiche che annunciarono e accompagnarono la fine dell’URSS, formalizzata nel 1991. Il progressivo smantellamento delle strutture istituzionali e amministrative dell’Unione, il venire meno dei legami di reciprocità e di solidarietà interni, insieme con l’accelerazione e l’aggravamento della crisi economica e della crisi politico-istituzionale, ebbero come conseguenza, tra le altre, anche l’esplosione di rivendicazioni di natura etno-politica. Tanto sul confine settentrionale e orientale, nelle repubbliche baltiche, quanto nella regione caucasica, il processo disgregativo trascese in rivendicazioni violente e conflitti armati.

Il retroterra storico-culturale della controversia è, dunque, retroterra di lunga data. L’Armenia, a prevalenza cristiana, tra le chiese ortodosse orientali, e l’Azerbaijan, a larga maggioranza islamica, prevalentemente sciita, entrarono in conflitto per il Nagorno-Karabakh, enclave armena in territorio azero, provincia autonoma in epoca sovietica, riconosciuto parte dell’Azerbaijan dal 1991, ma controllato dagli armeni. Sebbene in territorio azero, infatti, la maggioranza della popolazione è armena, e il soviet locale vi proclamò una repubblica autonoma nel settembre 1991. Nel 1988, le truppe azere e le formazioni armene avviarono un lungo conflitto, con alterne vicende; la tregua del 1994, mediata dalla Russia, ha lasciato il Nagorno-Karabakh (Karabakh traduce l’espressione azera «giardino nero») sotto controllo armeno di fatto. Oltre un milione di persone sono state costrette alla fuga, la popolazione azera (25% del totale) è stata costretta ad abbandonare l’enclave, mentre le popolazioni armene fuggivano dal resto dell’Azerbaijan, in un ulteriore esodo di profughi.

Già da queste brevi note si può dunque ricostruire il contesto dell’intesa e i suoi, sopra richiamati, nodi retro-agenti: in relazione al Gruppo di Minsk, ad esempio, co-presieduto da Russia, USA e Francia, e composto da Bielorussia, Germania, Italia, Svezia, Finlandia e Turchia, oltre che Armenia e Azerbaijan, a fronte dei tentativi di entrambe le parti di considerare il Gruppo, storico mediatore del conflitto, incapace di svolgere le sue funzioni; ma anche in relazione agli attori esterni, in primo luogo la Turchia e il suo ventilato disegno neo-ottomano e ingerentista, che ha, sin da subito, dichiarato e prestato supporto all’Azerbaijan allo scopo di affermare il suo ruolo e ridisegnare gli equilibri strategici nello scenario regionale. 
 
Uno scenario che non potrà, pena ulteriori caduti, devastazioni e violenze, che muoversi verso la pace: come si legge in un recente appello civico per la pace, infatti, «la guerra non risolverà mai il conflitto: ci lascerà soltanto in un circolo vizioso ancora peggiore, di guerre continue e rivendicazioni irrisolte. Respingiamo le posizioni militariste, condizionate dalle narrazioni di guerra, e cerchiamo, viceversa, strade per costruire la pace. Questa guerra riapre le tragedie e le ferite del passato; non può fare nulla per sanarle, può solo crearne di nuove. Questa guerra non ha vincitori. Chiediamo un cessate il fuoco immediato e negoziati inclusivi che comprendano tutte le parti, armene e azere, in conflitto».