venerdì 24 maggio 2024

La risoluzione su Srebrenica e la sfida della riconciliazione

Samum, Panorama Srebrenica, August 2004, Commons Wikipedia, CC BY-SA 3.0

Srebrenica è una piccola città mineraria e operaia nella Bosnia Erzegovina orientale. Prima della guerra e della dissoluzione della Jugoslavia socialista, arrivò a contare 35 mila abitanti ed era una città produttiva e vivace, vi erano attivi una fabbrica metallurgica intorno alla quale operavano, nei dintorni della città, giacimenti di zinco, piombo e oro, e uno stabilimento termale che richiamava turisti e visitatori dalle più diverse regioni della Jugoslavia. Perfino il nome ne richiamava la vocazione: dal serbocroato “srebro”, argento, il nome significa appunto “miniera d’argento” e ricalca l’antica designazione latina di “Argentaria”. Come la Bosnia Erzegovina, come la Jugoslavia socialista, la sua popolazione, prima della guerra, era mista, composta da bosniaci (slavi musulmani), serbi, rom. La secessione unilaterale della Bosnia Erzegovina e la guerra, a partire dall’aprile 1992, cambiarono il volto della città e, perfino, la sua stessa dimensione di contesto: i serbi di Bosnia proclamarono la Republika Srpska, Srebrenica divenne una città a maggioranza musulmana nel suo territorio.

Nel corso della guerra di Bosnia, Srebrenica era una delle “safe areas”, uan delle zone protette poste sotto la protezione delle Nazioni Unite. Le zone protette delle Nazioni Unite erano un insieme di aree sicure e corridoi umanitari istituiti a partire dal 1993 nel territorio di Bosnia Erzegovina sulla base del mandato espresso da alcune risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Il 16 aprile 1993, con la risoluzione 819, l’area di Srebrenica fu dichiarata zona protetta, quindi, il successivo 6 maggio 1993, con la risoluzione 824, lo status di zona protetta fu esteso anche a Sarajevo, Žepa, Goražde, Tuzla e Bihać. Tutte queste città e territori furono dunque posti sotto la protezione delle unità di peacekeeping (Unprofor) delle Nazioni Unite.

Le risoluzioni, d’altro canto, non specificavano le modalità operative con cui si sarebbe dovuta concretizzare e implementare la protezione di queste zone, e il concerto diplomatico internazionale non riuscì a giungere a un orientamento pienamente condiviso circa la conduzione delle operazioni e le modalità per garantire una effettiva protezione, coerente con il mandato espresso dalle Nazioni Unite, di quelle zone. Se le missioni di peacekeeping delle Nazioni Unite lavorano per la separazione dei contendenti, la tutela delle aree a rischio, il controllo delle linee del fuoco, esse si svolgono necessariamente con il consenso delle parti interessate, e gli Stati non giunsero a un pieno consenso sulle modalità inerenti alla protezione delle aree. Inoltre, la risoluzione 836 del Consiglio di Sicurezza avevano innestato, sulla missione di peacekeeping delle Nazioni Unite, anche il compito proattivo della difesa attraverso “tutti i mezzi necessari, compreso l’uso della forza”.

Gli scontri a Srebrenica non iniziarono nel 1995. Tra il giugno 1992 e il febbraio 1993, le milizie musulmane lanciarono diversi attacchi contro i serbi, anche a Srebrenica e nei dintorni, provocando un numero assai rilevante di vittime e di sfollati. Nel marzo 1993, unità dell’esercito serbo-bosniaco lanciarono a loro volta un’offensiva per proteggere la popolazione serba, respinsero le unità bosniache e circondarono la città. Anche nel contesto dell’implementazione delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, Srebrenica rimase un luogo di tensione e di conflitto, il 6 luglio 1995 le truppe serbo-bosniache lanciarono una nuova offensiva e l’11 luglio entrarono a Srebrenica. Sotto il controllo delle forze delle Nazioni Unite, fu avviata l’evacuazione della città, coloro che desideravano lasciare la città se ne andarono, e, di conseguenza, donne e bambini lasciarono la città, mentre la maggior parte della popolazione maschile e, ovviamente, i miliziani, rimasero. Gli scontri portarono a nuovi sfollati e nuove vittime: il numero esatto non è stato mai accertato, ma l’elenco delle persone scomparse o uccise, compilato dalla Commissione bosniaca per le persone scomparse, conta un totale di 8.372 nomi.

L’esito degli scontri e il congelamento “di fatto” della linea del fronte furono i presupposti degli Accordi di Dayton (Accordo quadro generale per la pace in Bosnia ed Erzegovina, la firma data al 14 dicembre 1995), che portarono alla fine della guerra e al riparto territoriale tra le entità statali costituenti, la Federazione croato-musulmana sul 51% del territorio e la Republika Srpska sul 49% del territorio: delle zone protette, Žepa e Srebrenica ricaddero nel territorio della Republika Srpska, Tuzla e Goražde in quello croato-musulmano.

Su questo, complesso e doloroso, sfondo storico e politico, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il 23 maggio scorso, ha adottato una risoluzione che istituisce una Giornata internazionale di commemorazione del genocidio del 1995, scegliendo come data la giornata simbolica dell’11 luglio. La tensione diplomatica scatenata da questa iniziativa è senza precedenti. Alla fine, 84 paesi hanno votato a favore della risoluzione, 19 hanno votato contro, 68 si sono astenuti. Significa una maggioranza in sede di Assemblea Generale tale da consentire l’approvazione della risoluzione e l’istituzione della giornata; ma significa anche, in termini di orientamento rispetto ai contenuti della risoluzione, 84 favorevoli e 87 tra contrari e astenuti. Tre dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza – Stati Uniti, Regno Unito e Francia – hanno votato a favore, gli altri, Russia e Cina, contro. Nel contesto dei Balcani, Serbia e Ungheria hanno votato contro, Slovacchia e Grecia si sono astenute, gli altri a favore. Una dichiarazione del presidente serbo Aleksandar Vučić ha destato una certa eco: “Questa risoluzione aprirà il vaso di Pandora, vi potreste trovare ad affrontare decine e decine di risoluzioni di questo tipo sulla questione del genocidio”. Ma non è stata l’unica reazione alla risoluzione.

In Bosnia, il Partito di Azione Democratica (SDA) ha salutato l’iniziativa affermando che “la risoluzione è un segno della verità stabilita dalle sentenze della Corte internazionale di giustizia e da numerose sentenze del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia. È particolarmente significativo che la risoluzione condanni senza riserve ogni negazione del genocidio di Srebrenica come evento storico e inviti gli Stati a preservare la verità dei fatti attraverso i loro sistemi educativi e sviluppando inoltre programmi appropriati”. Sempre in Bosnia, Milorad Dodik, presidente della Republika Srpska, ha affermato invece che la comunità internazionale ha deciso di chiudere gli occhi sulla morte di circa 3.500 serbi nella regione di Srebrenica per mano delle milizie bosniache durante la guerra, soprattutto tra il 1992 e il 1994. “È un fatto, completamente ignorato dai poteri forti e dai nostri vicini, che 3.500 serbi sono morti in crimini commessi da organizzazioni bosniache in questi territori e che nessuno è stato ritenuto responsabile di questi crimini”, come riferito dalla stampa. Tutti conoscono il nome di Ratko Mladić, comandante militare dei serbo-bosniaci durante la guerra in Bosnia; nessuno ricorda il nome di Naser Orić, comandante delle forze bosniache nella regione di Srebrenica, contro le cui milizie pesano testimonianze di aver condotto eccidi e torture e messo a ferro e fuoco interi villaggi. Nel 2008, il Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia lo ha assolto da tutte le accuse a suo carico.

La risoluzione su Srebrenica ha dunque un merito, un limite e un demerito. Il merito è quello di sollevare l’attenzione sulle violenze e gli orrori legati al crimine di genocidio e di richiamare la comunità internazionale a un maggior impegno, in forma legittima, nel senso della pace, per la prevenzione del crimine di genocidio e di altri gravi crimini internazionali e grandi violazioni dei diritti umani. Il limite è quello di spingersi sino al punto di condannare ogni forma di negazione dei crimini perpetrati a Srebrenica in quanto “genocidio”, quando non c’è accordo tra gli storici su questa fattispecie. Il demerito è, per le modalità con le quali il dibattito intorno ai contenuti della risoluzione è stato avviato e sviluppato, quello di aprire, come detto, il “vaso di Pandora”, finire per diventare uno strumento di ulteriore controversia, non un sostegno al processo di riconciliazione. Il punto di partenza è proprio l’accertamento dei fatti e della verità storica, e, chiaramente, la definizione stessa di genocidio. In base alla Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio (1948), infatti, “per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religiose, in quanto tale: a) uccisione di membri del gruppo; b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro”.

Nei giorni scorsi, dalle colonne del Jerusalem Post, Efraim Zuroff, storico israeliano e “cacciatore di nazisti”, che ha avuto un ruolo chiave nell’individuare e fare processare criminali di guerra nazisti e fascisti, e che oggi è direttore dell’ufficio di Gerusalemme del Centro Simon Wiesenthal, ha scritto che “chiunque sia a conoscenza di quell’evento, così come della definizione originale di “genocidio”, sa molto bene che il crimine commesso dalle truppe serbe non rientra nella definizione di genocidio, per il semplice motivo che le donne e i bambini di Srebrenica sono stati tutti rilasciati illesi”. “Il termine “genocidio” porta con sé un peso profondo e richiede un’attenta considerazione e un accordo consensuale. Dichiarare Srebrenica un genocidio senza tale consenso non solo rompe con la tradizione ma può anche diluire il significato del termine. L’accusa di genocidio non va formulata con leggerezza né senza prove inconfutabili e ampio consenso che rifletta la gravità di tale accusa”.

Riferimenti:

United Nations General Assembly Adopts Resolution on Srebrenica Genocide, Designating International Day of Reflection, Commemoration, GA/12601, 23 maggio 2024: https://press.un.org/en/2024/ga12601.doc.htm

Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio (1948): https://unipd-centrodirittiumani.it/it/strumenti_internazionali/Convenzione-per-la-prevenzione-e-la-repressione-del-crimine-di-genocidio-1948/175

Efraim Zuroff, Not every war crime is a case of genocide – opinion, The Jerusalem Post, 17 aprile 2024: https://www.jpost.com/opinion/article-797557