Saša Knežić, CC BY-SA 4.0, commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=62790252 |
La Bosnia torna al centro dell’attenzione internazionale dopo che, lo scorso 10 dicembre, il parlamento della Republika Srpska, una delle due entità costituenti che formano la struttura confederale della Bosnia-Erzegovina, ha approvato una mozione per il ritorno alla piena competenza statale dell’entità dei Serbi di Bosnia di alcune materie, in particolare sistema fiscale, giustizia e sicurezza; la proposta di legge, sostanzialmente una mozione, come si diceva, di carattere non vincolante, è passata con una maggioranza di 48 voti favorevoli, su un plenum di 83. Preceduta e accompagnata da un dibattito politico-istituzionale particolarmente acceso, spinta da dichiarazioni e toni non privi, da parte di settori della dirigenza della Republika Srpska, di accenti nazionalistici, e accompagnata da repliche e commenti talvolta significativamente duri da parte delle cancellerie occidentali, la mozione non prefigura di per sé uno scenario “separatistico”, non si propone formalmente di costituire il “primo passo” della separazione della Republika Srpska dalla federazione croato-musulmana, l’altra entità costituente di Bosnia-Erzegovina; tuttavia indica chiaramente l’incremento della tensione nel Paese e segnala la perdurante delicatezza e l’estrema complessità dei fragili equilibri su cui si regge l’impalcatura della confederazione, nel lungo dopoguerra segnato dagli Accordi di Dayton del 1995.
Già nel mese di settembre, il presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, aveva annunciato il progetto di recuperare tutte le prerogative e le funzioni da riassegnare all’entità serba, consolidandone la statualità e, di conseguenza, contrastando il disegno di rafforzare le competenze centrali a discapito di quelle delle singole entità, in primo luogo nei comparti strategici della giustizia e della sicurezza, accompagnando, anche nelle settimane e nei mesi successivi, tale intenzione con duri commenti in ordine alla natura stessa della configurazione confederale, annunciando, ad esempio, il ritiro del consenso dei Serbi di Bosnia alla realizzazione di un esercito comune, oppure ancora definendo la Bosnia-Erzegovina, di volta in volta, un «esperimento della comunità internazionale», oppure «uno Stato imposto» (con riferimento alla costituzione bosniaca come parte integrante degli Accordi di Dayton, mediati dalla comunità internazionale), o ancora, più recentemente, una «repubblica di carta».
Tra gli osservatori, alcuni collocano l’inizio di tale escalation politica nella controversa decisione dell’ex Alto Rappresentante per la Bosnia-Erzegovina (il cui ufficio costituisce, nella complessa architettura istituzionale bosniaca, un’istituzione ad hoc, con il compito di supervisionare l’implementazione degli aspetti civili degli accordi di pace), Valentin Inzko, di introdurre, peraltro alla fine del suo mandato, emendamenti al codice penale bosniaco attraverso i quali definire la fattispecie del reato di negazione di crimine di genocidio: la negazione del genocidio sarebbe punita con la reclusione fino a cinque anni. In una sua dichiarazione, riportata dalla stampa, lo stesso Inzko ebbe ad asserire che «a parte il fatto che tale condotta (la negazione del genocidio n.d.r.) costituisce una vergogna per lo stato di diritto, sono profondamente convinto che stia anche gettando semi per potenziali nuovi conflitti. Pertanto, credo che sia necessario regolamentare questa materia con soluzioni legali». Inoltre, «discorsi d’odio, glorificazione di criminali di guerra e revisionismo o anche aperta negazione di genocidio e crimini di guerra impediscono alle società di fare i conti con il proprio passato collettivo, costituiscono una rinnovata umiliazione delle vittime e dei loro cari, perpetuando l’ingiustizia e minando le relazioni interetniche. Tutto ciò [...] impedisce l’emergere di una riconciliazione disperatamente necessaria».
L’iniziativa dell’Alto Rappresentante, tuttavia, oltre a costituire un classico esempio di iniziativa istituzionale top-down, dall’alto verso il basso, interviene anche a disciplinare con forza di legge una materia estremamente dolorosa, sulla cui portata, peraltro, le comunità non hanno elaborato, se mai possibile, una memoria reciprocamente inclusiva, né hanno mai espresso, in sostanza, valutazioni convergenti. Se, presso le opinioni pubbliche occidentali, vi è pressoché unanime consenso circa la portata e il carattere dei crimini e dei massacri che sono alla base della definizione, anche da parte dell’Alto Rappresentante, di tali crimini come genocidio, presso parte non irrilevante dell’opinione pubblica serba vi si riferisce non nei termini di “genocidio”, bensì di terribili “massacri di vasta portata”, venendo qui messa in discussione la natura propriamente genocidaria di tali eventi. L’emendamento dell’Alto Rappresentante, nell’affrontare la questione, indica come reati penali il «condonare, negare, banalizzare o cercare di giustificare un crimine di genocidio, crimini contro l’umanità o crimini di guerra, stabiliti da sentenza definitiva ai sensi della Carta del Tribunale Militare Internazionale (Accordo di Londra, 1945) o dal Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia o dalla Corte Penale Internazionale o da un Tribunale in Bosnia-Erzegovina, diretti contro un gruppo di persone o un membro di tale gruppo definito in relazione a etnia, colore, religione, discendenza o origine nazionale o etnica, quando la condotta è svolta in modo tale da incitare alla violenza o all’odio contro tale gruppo o membro di tale gruppo»; nonché il «conferire riconoscimento, premio, memoriale, ricordo di qualsiasi genere, o simili, ad una persona condannata con sentenza definitiva per genocidio, crimini contro l’umanità o crimini di guerra, o denominare un bene pubblico come strade, piazze, parchi, ponti, istituzioni, edifici, municipi, città, o simili, [...] o ancora glorificare in qualsiasi modo una persona condannata con sentenza definitiva per genocidio, crimini contro l’umanità o crimini di guerra».
Una decisione di tale portata, oltre a corrispondere all’esigenza cruciale di tutelare e rispettare appieno la memoria e il dolore delle vittime, viene anche a insistere su una questione che impatta sulla memoria del conflitto e sulle “memorie divise di guerra”; in un contesto di Stato fragile e di comunità separate, quale continua ad essere la Bosnia-Erzegovina, nel suo lungo dopoguerra successivo agli Accordi di Dayton, misure di tale portata possono risultare tanto più divisive o controverse quanto più risultano essere calate dall’alto e lontane da un itinerario di partecipazione e di condivisione “dal basso”. Gli stessi Accordi di Dayton, del resto, mediati dalla comunità internazionale e configurati per congelare di fatto una situazione post-bellica di precario equilibrio, se da un lato hanno avuto il merito indiscusso di contribuire alla cessazione delle ostilità e alla fine della guerra, dall’altro hanno determinato una Bosnia-Erzegovina caratterizzata da una singolare fragilità e complessità istituzionale.
La stessa Costituzione di Bosnia-Erzegovina, sul cui sfondo si staglia l’iniziativa del parlamento della Republika Srpska, non è il risultato di un processo costituente locale, bensì il prodotto di una mediazione e di un accordo internazionale, e figura all’interno di tale mediazione, come Allegato IV degli Accordi di Dayton. A determinare tale Costituzione e a definire i caratteri del nuovo Stato sono infatti «Bosniaci, Croati e Serbi, come popoli costituenti (insieme con Altri), e i cittadini di Bosnia-Erzegovina»; quello che viene delineato non è uno Stato unitario, bensì uno Stato costituito da «due Entità, la Federazione di Bosnia ed Erzegovina e la Republika Srpska»; «la Bosnia-Erzegovina e le singole Entità non possono impedire la libertà di movimento di persone, beni, servizi e capitali attraverso la Bosnia-Erzegovina e le Entità non possono stabilire controlli di confine tra di esse»; d’altra parte, è uno Stato in cui vige un regime di cittadinanza duale, dal momento che «esiste una cittadinanza di Bosnia-Erzegovina, disciplinata dall’Assemblea Parlamentare, e una cittadinanza di ciascuna Entità, disciplinata da ciascuna Entità». Di conseguenza, ciascuna Entità ha una propria Costituzione, un proprio sistema istituzionale, una propria configurazione amministrativa e una propria organizzazione territoriale. Per questo si è parlato, per la Bosnia-Erzegovina, di un modello di democrazia consociativa su base etnica e nazionale, più che di una vera e propria, compiuta, democrazia, basata sulla completa eguaglianza e parità di tutti i cittadini.
In Bosnia rientrano nelle competenze delle istituzioni centrali solo le seguenti materie: politica estera, commercio internazionale, politica doganale, politica monetaria come previsto dall’art. VII, finanze delle istituzioni e in relazione agli obblighi internazionali della Bosnia-Erzegovina, immigrazione, rifugiati e politiche e regolamenti in materia di asilo, sicurezza penale internazionale e inter-entità, compresi i rapporti con l’Interpol, realizzazione e gestione di strutture di comunicazione comuni e internazionali, regolamentazione del trasporto inter-entità, controllo del traffico aereo. Mentre le due Entità, che hanno anche il diritto di «stabilire relazioni parallele speciali con gli Stati vicini nel quadro della sovranità e della integrità territoriale della Bosnia-Erzegovina», hanno inoltre la responsabilità di «provvedere ad un ambiente sicuro e protetto per tutte le persone nelle rispettive giurisdizioni, mantenendo forze dell’ordine in ambito civile operanti in conformità con gli standard riconosciuti a livello internazionale e nel rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali internazionalmente riconosciuti di cui all’articolo II, e adottando inoltre ulteriori misure laddove appropriato».
Le reazioni all’iniziativa non si sono fatte attendere. Il Peace Implementation Council (PIC), che monitora il rispetto degli Accordi di Dayton e supporta il processo post-bellico in vario modo (assistenza finanziaria, supporto alla missione europea EUFOR, svolgimento di operazioni in Bosnia Erzegovina), ha avvertito che un “ritiro unilaterale” dalle istituzioni federali centrali non è possibile e ha, inoltre, minacciato conseguenze per qualsiasi parte che decidesse di violare l’accordo di pace. Tuttavia, la dichiarazione del PIC non è stata firmata dalla Russia. D’altra parte, come ricordato dal PIC, gli Accordi di Dayton «restano la base per una stabile, sicura e prospera Bosnia-Erzegovina».
Già nel mese di settembre, il presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, aveva annunciato il progetto di recuperare tutte le prerogative e le funzioni da riassegnare all’entità serba, consolidandone la statualità e, di conseguenza, contrastando il disegno di rafforzare le competenze centrali a discapito di quelle delle singole entità, in primo luogo nei comparti strategici della giustizia e della sicurezza, accompagnando, anche nelle settimane e nei mesi successivi, tale intenzione con duri commenti in ordine alla natura stessa della configurazione confederale, annunciando, ad esempio, il ritiro del consenso dei Serbi di Bosnia alla realizzazione di un esercito comune, oppure ancora definendo la Bosnia-Erzegovina, di volta in volta, un «esperimento della comunità internazionale», oppure «uno Stato imposto» (con riferimento alla costituzione bosniaca come parte integrante degli Accordi di Dayton, mediati dalla comunità internazionale), o ancora, più recentemente, una «repubblica di carta».
Tra gli osservatori, alcuni collocano l’inizio di tale escalation politica nella controversa decisione dell’ex Alto Rappresentante per la Bosnia-Erzegovina (il cui ufficio costituisce, nella complessa architettura istituzionale bosniaca, un’istituzione ad hoc, con il compito di supervisionare l’implementazione degli aspetti civili degli accordi di pace), Valentin Inzko, di introdurre, peraltro alla fine del suo mandato, emendamenti al codice penale bosniaco attraverso i quali definire la fattispecie del reato di negazione di crimine di genocidio: la negazione del genocidio sarebbe punita con la reclusione fino a cinque anni. In una sua dichiarazione, riportata dalla stampa, lo stesso Inzko ebbe ad asserire che «a parte il fatto che tale condotta (la negazione del genocidio n.d.r.) costituisce una vergogna per lo stato di diritto, sono profondamente convinto che stia anche gettando semi per potenziali nuovi conflitti. Pertanto, credo che sia necessario regolamentare questa materia con soluzioni legali». Inoltre, «discorsi d’odio, glorificazione di criminali di guerra e revisionismo o anche aperta negazione di genocidio e crimini di guerra impediscono alle società di fare i conti con il proprio passato collettivo, costituiscono una rinnovata umiliazione delle vittime e dei loro cari, perpetuando l’ingiustizia e minando le relazioni interetniche. Tutto ciò [...] impedisce l’emergere di una riconciliazione disperatamente necessaria».
L’iniziativa dell’Alto Rappresentante, tuttavia, oltre a costituire un classico esempio di iniziativa istituzionale top-down, dall’alto verso il basso, interviene anche a disciplinare con forza di legge una materia estremamente dolorosa, sulla cui portata, peraltro, le comunità non hanno elaborato, se mai possibile, una memoria reciprocamente inclusiva, né hanno mai espresso, in sostanza, valutazioni convergenti. Se, presso le opinioni pubbliche occidentali, vi è pressoché unanime consenso circa la portata e il carattere dei crimini e dei massacri che sono alla base della definizione, anche da parte dell’Alto Rappresentante, di tali crimini come genocidio, presso parte non irrilevante dell’opinione pubblica serba vi si riferisce non nei termini di “genocidio”, bensì di terribili “massacri di vasta portata”, venendo qui messa in discussione la natura propriamente genocidaria di tali eventi. L’emendamento dell’Alto Rappresentante, nell’affrontare la questione, indica come reati penali il «condonare, negare, banalizzare o cercare di giustificare un crimine di genocidio, crimini contro l’umanità o crimini di guerra, stabiliti da sentenza definitiva ai sensi della Carta del Tribunale Militare Internazionale (Accordo di Londra, 1945) o dal Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia o dalla Corte Penale Internazionale o da un Tribunale in Bosnia-Erzegovina, diretti contro un gruppo di persone o un membro di tale gruppo definito in relazione a etnia, colore, religione, discendenza o origine nazionale o etnica, quando la condotta è svolta in modo tale da incitare alla violenza o all’odio contro tale gruppo o membro di tale gruppo»; nonché il «conferire riconoscimento, premio, memoriale, ricordo di qualsiasi genere, o simili, ad una persona condannata con sentenza definitiva per genocidio, crimini contro l’umanità o crimini di guerra, o denominare un bene pubblico come strade, piazze, parchi, ponti, istituzioni, edifici, municipi, città, o simili, [...] o ancora glorificare in qualsiasi modo una persona condannata con sentenza definitiva per genocidio, crimini contro l’umanità o crimini di guerra».
Una decisione di tale portata, oltre a corrispondere all’esigenza cruciale di tutelare e rispettare appieno la memoria e il dolore delle vittime, viene anche a insistere su una questione che impatta sulla memoria del conflitto e sulle “memorie divise di guerra”; in un contesto di Stato fragile e di comunità separate, quale continua ad essere la Bosnia-Erzegovina, nel suo lungo dopoguerra successivo agli Accordi di Dayton, misure di tale portata possono risultare tanto più divisive o controverse quanto più risultano essere calate dall’alto e lontane da un itinerario di partecipazione e di condivisione “dal basso”. Gli stessi Accordi di Dayton, del resto, mediati dalla comunità internazionale e configurati per congelare di fatto una situazione post-bellica di precario equilibrio, se da un lato hanno avuto il merito indiscusso di contribuire alla cessazione delle ostilità e alla fine della guerra, dall’altro hanno determinato una Bosnia-Erzegovina caratterizzata da una singolare fragilità e complessità istituzionale.
La stessa Costituzione di Bosnia-Erzegovina, sul cui sfondo si staglia l’iniziativa del parlamento della Republika Srpska, non è il risultato di un processo costituente locale, bensì il prodotto di una mediazione e di un accordo internazionale, e figura all’interno di tale mediazione, come Allegato IV degli Accordi di Dayton. A determinare tale Costituzione e a definire i caratteri del nuovo Stato sono infatti «Bosniaci, Croati e Serbi, come popoli costituenti (insieme con Altri), e i cittadini di Bosnia-Erzegovina»; quello che viene delineato non è uno Stato unitario, bensì uno Stato costituito da «due Entità, la Federazione di Bosnia ed Erzegovina e la Republika Srpska»; «la Bosnia-Erzegovina e le singole Entità non possono impedire la libertà di movimento di persone, beni, servizi e capitali attraverso la Bosnia-Erzegovina e le Entità non possono stabilire controlli di confine tra di esse»; d’altra parte, è uno Stato in cui vige un regime di cittadinanza duale, dal momento che «esiste una cittadinanza di Bosnia-Erzegovina, disciplinata dall’Assemblea Parlamentare, e una cittadinanza di ciascuna Entità, disciplinata da ciascuna Entità». Di conseguenza, ciascuna Entità ha una propria Costituzione, un proprio sistema istituzionale, una propria configurazione amministrativa e una propria organizzazione territoriale. Per questo si è parlato, per la Bosnia-Erzegovina, di un modello di democrazia consociativa su base etnica e nazionale, più che di una vera e propria, compiuta, democrazia, basata sulla completa eguaglianza e parità di tutti i cittadini.
In Bosnia rientrano nelle competenze delle istituzioni centrali solo le seguenti materie: politica estera, commercio internazionale, politica doganale, politica monetaria come previsto dall’art. VII, finanze delle istituzioni e in relazione agli obblighi internazionali della Bosnia-Erzegovina, immigrazione, rifugiati e politiche e regolamenti in materia di asilo, sicurezza penale internazionale e inter-entità, compresi i rapporti con l’Interpol, realizzazione e gestione di strutture di comunicazione comuni e internazionali, regolamentazione del trasporto inter-entità, controllo del traffico aereo. Mentre le due Entità, che hanno anche il diritto di «stabilire relazioni parallele speciali con gli Stati vicini nel quadro della sovranità e della integrità territoriale della Bosnia-Erzegovina», hanno inoltre la responsabilità di «provvedere ad un ambiente sicuro e protetto per tutte le persone nelle rispettive giurisdizioni, mantenendo forze dell’ordine in ambito civile operanti in conformità con gli standard riconosciuti a livello internazionale e nel rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali internazionalmente riconosciuti di cui all’articolo II, e adottando inoltre ulteriori misure laddove appropriato».
Le reazioni all’iniziativa non si sono fatte attendere. Il Peace Implementation Council (PIC), che monitora il rispetto degli Accordi di Dayton e supporta il processo post-bellico in vario modo (assistenza finanziaria, supporto alla missione europea EUFOR, svolgimento di operazioni in Bosnia Erzegovina), ha avvertito che un “ritiro unilaterale” dalle istituzioni federali centrali non è possibile e ha, inoltre, minacciato conseguenze per qualsiasi parte che decidesse di violare l’accordo di pace. Tuttavia, la dichiarazione del PIC non è stata firmata dalla Russia. D’altra parte, come ricordato dal PIC, gli Accordi di Dayton «restano la base per una stabile, sicura e prospera Bosnia-Erzegovina».